San Valentino

Santo dei malati o degli innamorati?

Nel giorno di S. Valentino, nella chiesa dedicata al nostro patrono, preghiamo per gli uni e per gli altri.

Sembra che questo accostamento stoni: non è carino pensare alle tenerezze degli amanti, di fronte alla sofferenza e al dolore; viceversa, pare di voler fare i guastafeste a proporre la preghiera per le persone malate, quando si festeggia la letizia dell’amore.

C’è un versetto nel Cantico dei Cantici, che sembra mettere insieme i due aspetti: “Io sono malata d’amore” dice la donna innamorata (Ct 2,5c).

Nella letteratura l’amore è stato rappresentato come una malattia,

una trappola o qualcosa di insidioso, mai invece la malattia è stata raccontata come qualcosa da amare, se non nella vita di alcuni santi.

Io penso invece che sia opportuno che li teniamo insieme.

Ci aiuta ad apprezzare la grazia dell’amore, soprattutto la freschezza di quello giovanile o lo splendore di quello longevo, senza essere sdolcinati e senza dimenticarci di chi non è così fortunato.

Ci aiuta ad uscire dal vortice della malattia e a educarci a riconoscere le cose belle del mondo, ad essere grati anche per la vita di altri, sfuggendo alla morsa dell’egoismo, ma soprattutto ad imparare ad amare nella malattia.

Amare chi e che cosa, in questo caso?

Amare Gesù, amare la vita, amare le persone che sono importanti per noi, quelle che ci sono vicine e ci assistono, e anche quelle che ci hanno fatto del male, perché nella malattia si relativizzano gli assoluti e si capisce che ci sono cose più importanti nella vita che quella di portare rancore.

Allora in questo ricordo che abbraccia tutti e tutte le sensazioni, dalla felicità e l’entusiasmo fino alla sofferenza e la preoccupazione, vogliamo festeggiare il nostro patrono come comunità unità, comunità che si ricorda gli uni degli altri, che attiva una vicinanza reciproca e la capacità di rallegrarsi con chi gioisce e soffrire con chi è addolorato, proprio come chiede l’inizio della Gaudium et Spes, il documento più importante della Chiesa sul rapporto col mondo contemporaneo.

Da San Valentino impariamo dunque a vivere la fede, l’amore e la speranza con i piedi ben saldi in tutte le esperienze degli uomini e delle donne di oggi, dall’amore al dolore, andata e ritorno.

Don Davide




Cuori ardenti, piedi in cammino

Celebriamo la Giornata Missionaria Mondiale per partecipare della missione universale della Chiesa.

Come educare le nostre comunità a questa apertura missionaria universale?

I vescovi ci ricordano che la sensibilità missionaria va educata “fin dalla più tenera età” (Decreto per l’Attività missionaria Ad Gentes del Concilio Vaticano II, n. 38) per creare tra tutti i cristiani del mondo uno spirito di fraternità universale nella preghiera e nella solidarietà, specialmente verso le Chiese più giovani e bisognose di sostegno.

Il mese missionario di ottobre trova dunque il suo apice nella celebrazione della Giornata Missionaria Mondiale che ricorre in questa domenica 22 ottobre.

In questa domenica iniziamo la messa con le famiglie del catechismo in una chiesa che ci ospita, così sperimentiamo il senso di essere in cammino e in comunione con altre comunità e alleniamo anche i più piccoli alla consapevolezza che esiste una Chiesa più grande, che va ben oltre i confini della nostra parrocchia e si unisce spiritualmente a tutti i missionari inviati nel mondo ad annunciare il Vangelo. Ogni comunità che celebra l’Eucarestia contribuisce al sostegno di tutti i missionari sparsi nel mondo e di tutte le comunità più povere di mezzi, quelle che vivono in situazioni di assoluta minoranza e quelle che soffrono controversie e persecuzioni.

Per la Giornata Missionaria Mondiale di quest’anno Papa Francesco ha scelto un tema suggestivo che prende spunto dal racconto dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35):

«Cuori ardenti, piedi in cammino».

Attraverso l’esperienza di questi due discepoli che, nell’incontro con Cristo risorto, si trasformano in attivi missionari, Papa Francesco ci esorta ad essere discepoli-missionari. Infine il Papa ci ricorda l’importanza del mantenere viva la missione con l’impegno di ciascuno e con la preghiera per le vocazioni missionarie: «L’immagine dei “piedi in cammino” ci ricorda ancora una volta la perenne validità della missio ad gentes, la missione data alla Chiesa dal Signore risorto di evangelizzare ogni persona e ogni popolo sino ai confini della terra».

A cura di Don Davide

[Dalla riflessione di don Giuseppe Pizzoli, Direttore generale Fondazione Missio]

 

Fondazione Missio Ottobre Missionario 2023 (missioitalia.it)

Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2023 | Francesco (vatican.va)




Chiamaci, Signore…

Chiamaci sempre, Signore, a lavorare nella tua vigna.

Chiamaci nell’aurora dei nostri entusiasmi: che possano rispondere all’alba dei bisogni.

Chiamaci quando il sole mattutino comincia la sua corsa più raggiante nel cielo. C’è tanto da fare, nessuno si tiri indietro e la vendemmia abbondante procuri una gioia più grande.

Chiamaci ancora, anche se possiamo esserci solo a mezzo servizio, nel mezzogiorno del nostro tempo. Darti quel che possiamo, partecipare di questo invito, ne varrà sempre la pena.

Chiamaci e richiamaci di nuovo, Signore, sempre, anche all’ultimo istante. Ogni persona anela ad essere considerata, valorizzata, stimata. Fa’ che possiamo imparare da te come si fa, tu che sei abituato a darci un esempio, perché come hai fatto tu, possiamo fare anche noi con gli altri: gli amati, i poveri, i piccoli.

Proprio in questo inizio dell’anno, riconosciamo che non c’è tesoro più bello:

essere chiamati a lavorare per te, Signore Gesù, quando risuona la tua parola in nostro favore.

Così, potremo sperimentare con i profeti che hai disegni più grandi, in serbo per noi, di quanto noi stessi possiamo immaginare; e forse un giorno potremo dire come gli apostoli: “Per me vivere è Cristo… non c’è altro guadagno, e altro non potrei mai desiderare.”

Da ultimo ti supplichiamo, Signore: insegnaci a lavorare nella tua vigna, senza invidie, rivendicazioni e fatiche. Tutto sia raccolto nel fatto di avere risposto a una chiamata che tu hai rivolta a ciascuno di noi, e di vedere tanti amici e amiche che fanno lo stesso lavoro sotto lo stesso fresco sole, con l’unico fine di edificare il Regno di Dio e si spandere l’amore.

E ci sia dato, un giorno, dopo avere lavorato nella tua vigna, di riposarci in quell’altra, dove non ci sarà più la morte. Amen.

Don Davide




Quando le tue parole…

“Rancore e ira sono cose orribili, e il peccatore le porta dentro.” (Sir 27,33)

Questa massima sapienziale – che apre la liturgia della parola di questa domenica – non è solo frutto di una rivelazione religiosa; ogni persona desiderosa di bene, infatti, potrebbe condividerla. Tuttavia ha un gusto buono, il sapore di cose desiderabili.

È stato immergendomi in questi desideri che, molto più di vent’anni fa, cioè molto prima della mia Ordinazione Presbiterale, sono stato attratto dalla Parola di Dio, dall’Antico Testamento, poi dal Vangelo e infine ho incontrato le lettere di San Paolo.

È stato il Signore che si è fatto incontrare e in quest’esperienza, che solo dopo ho imparato a definire “spirituale”; ho riconosciuto una bontà che valeva la pena ricercare, un bellezza positiva e appagante, proprio come testimonia il profeta Geremia: “Quando le tue parole mi vennero incontro, le divorai con avidità. La tua parola era la gioia e la letizia del mio cuore.” (Ger 15,16)

Da allora rimango stupito tutte le volte che trovo nella Sacra Scrittura parole incoraggianti e che mi motivano al bene, spesso semplici, ma che vanno dritte al punto, come ad esempio: “Ricordati della fine e smetti di odiare.” (Sir 28,8).

Non sentite che un mondo di bene si spalanca non appena il suono di questa frase giunge ai nostri orecchi?

Oggi, celebrando e festeggiando con voi il ventesimo anniversario della mia Ordinazione, condivido meravigliato lo stupore e la gratitudine per questa dimensione spirituale che si schiude ogni volta, che dilata lo spirito, mi fa amare la vita e mi educa ad amare le persone che incontro.

“Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso” (Rm 14,7) scrive San Paolo nella seconda lettura. Ascolto questa affermazione, carica di teologia, e in realtà sono rincuorato dalla sua dimensione più elementare e dal suo significato più immediato: non siamo soli, vale la pena custodire la compagnia che il Signore ci dona ed essere compagni a nostra volta.

In altre parole: è bello vivere con qualcuno e per qualcuno.

Infine, il perdono: “Fino a settanta volte sette” (Mt 18,21). Grazie, Signore, perché ci apri orizzonti di cielo, vasti e pieni di ispirazione, come il Lago di Galilea che abbiamo contemplato da poco.

È per parole come queste che io credo.

È per la missione di riconciliare e fare sentire amati che vivo il ministero.

Cos’altro potrebbe conquistarmi? Le parole di guerra o di potere?! Nel tuo ardire di perdonare, invece, ammiro possibilità inedite, sentieri di pace per il cuore e per le nazioni, percorsi difficili – nei quali anch’io sono solo un principiante – che possono rinnovare il mondo e, finalmente, notizie buone.

Sono prete perché ho intuito che era il mio modo specifico di accogliere e condividere questa scoperta che mi dilatava il cuore. Lo sono da vent’anni per grazia di Dio e con l’aiuto e la pazienza di moltissime persone care.

Ringrazio te, Signore, e ognuna di queste persone con cui ho condiviso e concretizzato almeno una sillaba delle tue parole.

Don Davide




Riposo

“Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi…” (Mt 11,28) e farete vacanza!

Il vangelo non dice proprio così, ma per due volte Gesù afferma che troveremo ristoro.

Andare da Gesù come fare vacanza.

Oppure, fare vacanza e approfittare di un tempo disteso per stare un po’ con Gesù.

Facciamo sempre l’esperienza della fretta, di non avere tempo, di non poterci ritagliare un momento di pace. L’occasione delle ferie estive può riservare almeno una porzione del nostro tempo per questo. Non serve immaginare grandi cose o darsi dei nuovi impegni anche quando ci si dovrebbe riposare. Gesù dice: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29) e subito prima ha proclamato “beati i piccoli” (Mt 11,25).

Penso, allora a tre atteggiamenti per questo tempo.

Il primo: godere delle cose semplici, soprattutto degli affetti più vicini. Magari abbiamo in programma il viaggio della vita, l’avventura nelle isole esotiche, ma ciò che farà la differenza sarà sempre la compagnia affettuosa dei nostri compagni di viaggio e la capacità di apprezzare anche le cose più piccole. Oppure sedersi in un prato e gustare la magia di sapere che esistiamo e viviamo, all’ombra dell’amore di Dio.

Il secondo: consegnare i pesi a Gesù, che lui li sa portare e rendere leggeri. Entrare in una chiesina di montagna, fermarci davanti a un’edicola della Madonna, visitare un piccolo santuario sconosciuto, e lì sedersi un attimo e dire: “Gesù, Maria, vi affido questa mia preoccupazione, queste persone, questa fatica…”, magari accendere una candela, sentire il calore che si diffonde nell’anima e poi ripartire, rasserenati da questo aver sfiorato il lembo del mantello di Gesù.

Il terzo: ringraziare i giovani. Facilmente ci si lamenta di loro; spesso la loro esuberanza li porta alla ribalta nel bene e talvolta anche nel male. Qualche volta, mentre tu cerchi la quiete loro schiamazzano. E sia. Non mi stancavo di guardarli, all’Estate Ragazzi, scherzosi, gradassi, allegri, disponibili e tenerissimi con i bimbi. Un cocktail che fa esplodere in un grande ringraziamento anche Gesù: “Ti rendo lode Padre!” (Mt 11,25). L’evangelista non dice: “per i giovani”, non era neanche una categoria usata, a quel tempo, ma il vangelo va sempre attualizzato, e oggi ci sentiamo di tradurlo così: “Ti ringraziamo, Padre, per i ragazzi e i giovani. Siamo stati tutti giovani. Fa’ che si sentano stimati e accompagnati, non troppo custoditi, non troppo abbandonati, liberi di esprimersi e di portare nel mondo le forze buone che lo rinnovano”.

Don Davide




Il cuore trafitto

Il prodigio più grande operato dallo Spirito nel giorno di Pentecoste, non è probabilmente il miracolo delle lingue, ma la conformazione degli uditori della Parola a Gesù.

“Si sentirono trafiggere il cuore.” (At 2,36).

È Gesù l’uomo dal cuore trafitto (Gv 2,34): un varco per accogliere le ferite del mondo, da cui ne viene un parto di vita.

È, dunque, il suo cuore trafitto la porta delle pecore (Gv 10,7): non abbiamo altra possibilità, come dei novelli Tommaso, che entrare nel cuore di Gesù e imparare i suoi sentimenti, la sua sensibilità.

“Che voi avete crocifisso – dice Pietro – e si sentirono trafiggere il cuore.” (At 2,36).

Don Tonino Bello parlava dei «crocifissi della storia». Papa Francesco parla degli «scarti».

Chiediamo la grazia di sentirci trafiggere il cuore, perché ne venga un parto di vita.

Che il dispiacere sia così insopportabile da spingerci a fermare le guerre, da anelare alla giustizia, da farci carico del destino dei fratelli e delle sorelle in difficoltà e del pianeta avvelenato.

Chiediamo la grazia di sentirci trafiggere il cuore per la tanta sofferenza che ci circonda, l’amore ferito e tradito, l’amicizia affaticata, le vite che invece di espandersi incontrano difficoltà e i giovani angustiati o bloccati.

Chiediamo, infine, la grazia di sentirci trafiggere il cuore per i nostri peccati, perché possiamo riconoscerli e non restarne indifferenti, e perché la vita in abbondanza (Gv 10,10) entri in questo cuore trafitto, e quindi aperto, come esperienza e conferma della grande amorevolezza di Dio.

Don Davide




La medicina del mondo

All’inizio del racconto evangelico di questa domenica, per cinque volte in sei versetti, si dice che Lazzaro era malato.

Lazzaro è figura del mondo, che è malato.

Se non si ridesta dal suo sonno, sprofonda nell’ombra della morte. Al contrario, Gesù lo richiama alla vita, perché si manifestino le opere di Dio.

L’opera di Dio è questa: richiamare alla vita il mondo.

Contrariamente al nostro corpo biologico che ha bisogno del riposo per guarire, il nostro corpo spirituale, per essere sanato, ha bisogno di ridestarsi.

La parola di Gesù è come un tuono in quest’ultima domenica, prima della Grande Settimana, la Settimana Santa: VOI togliete la pietra, e TU Lazzaro vieni fuori.

C’è un compito di tutti e una responsabilità personale.

LA PACE

Non bisogna mettere una pietra tombale sulla pace.

“Ma è già di quattro giorni!” dice Maria. “Questa guerra, queste guerre sono già durate così tanto! Ormai non ci si può fare più niente!” Ma proprio perché la guerra fa puzza bisogna togliere la pietra tombale sulla pace, e dare aria e sciogliere quelle bende da mummia che impediscono di percorrere la via della riconciliazione.

LA FEDE

“Se tu credi” (Gv 11,40) dice Gesù.

C’è bisogno di risvegliare la fede. Non è una cosa insensata, neppure di fronte alla morte, né impossibile.

Gesù, nella preghiera per Lazzaro ringrazia. Questo ringraziamento permette a Maria di “vedere le grandi opere di Dio”. Tu incomincia a ringraziare e scoprirai che la tua fede si risveglierà.

LE LACRIME

C’è troppa sofferenza nel mondo. Ci sono le atrocità, ma anche tanto dolore nascosto, calvari e croci che si ripetono sfrontatamente, per esempio la morte di un amico, un fratello. Anche Gesù piange. Le sue lacrime sono sorprendenti in questa situazione, in cui ha appena dichiarato di essere lì per la vita di Lazzaro, nonostante ciò si commuove nell’intimo.

Lasciamoci commuovere. Non abbiamo paura di essere sensibili.

Le lacrime somigliano tanto a quel lavacro di rigenerazione che è il Battesimo e preparano la Pasqua.

 

Così, il vangelo di Lazzaro è come il terzo tempo di una grande sinfonia in quattro movimenti. La samaritana (Gv 4), il cieco nato (Gv 9), Lazzaro (Gv 11) e la Settimana Santa.

La Settimana Santa è la grande medicina del mondo.

Essa ci offre l’ulivo della pace, la tenerezza dei gesti nella Cena di Gesù, la commozione di fronte alla sua morte, la fede che si accende nella notte della morte.

Allora potremo cantare con vera consapevolezza, nella notte di Pasqua: “Mandi il tuo Spirito Signore, e guarisci tutta la terra”.

Don Davide




La fede

“Troverà ancora la fede?” (Lc 18,8)

Da varie domeniche la liturgia interpella la nostra fede, il nostro vivere e comportarci come uomini e donne credenti.

In molte fiabe, in molti racconti, in tante storie edificanti e di avventura, uno dei protagonisti ad un certo punto, spesso nei momenti più difficili, invita “ad avere fede”, basandosi sul fatto che il bene trionferà, che c’è una sorta di energia cosmica a cui attingere, che dispiega la sua potenza e guida il tutto verso l’armonia e l’eventuale soluzione della vicenda.

L’insegnamento di Gesù sulla necessità di “pregar sempre, senza stancarsi mai” – che sembra impossibile anche solo a sentirlo – si trova tra l’invito alla vigilanza e al discernimento e questa domanda enigmatica sulla fede.

Pregare, quindi, significa esercitarsi tenacemente a essere vigili rispetto alla vibrazione del mondo e accedere a quella sapiente linfa vitale che lo tiene nell’esistenza e lo riporta all’armonia.

Questo dell’allenamento dei sensi spirituali è uno sport per lo più disatteso.

Invece, la possibilità di toccare con mano la potenza di Dio c’è, dice Gesù.

Ma come tutte le cose che contano bisogna scovarne la magia con un autentico desiderio.

Don Davide




Semplici e umili

Semplici e umili, anche di fronte alla vita.

“Quando avrete fatto tutto ciò che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare.” (Lc 17,10).

Ogni vita è piena di difficoltà, di angustie, di corse, di affanni alternati a qualche momento di quiete e di affetto. Tutti abbiamo bisogno di un sollievo, di un riconoscimento. È molto importante potere avere un riscontro positivo e motivazionale; invece, Gesù ci sorprende con un’affermazione che assume un tratto durissimo, che non lascia margine a nessuna indulgenza.

Qual è il significato?

Tutta la liturgia di questa domenica parla con grande insistenza della fede che fa vivere.

Avere fede, in questo caso, è il fondamento della possibilità di essere semplici e umili in tutte le cose che facciamo e che viviamo, anche di fronte alla vita. Tutto al contrario di chi pensa che avere fede sia un modo per lasciare le cose “ad altri” o “ad Altro”, avere fede è la disposizione dello spirito al nostro impegno, con tutti noi stessi, con la consapevolezza di cosa siamo chiamati a compiere, la fermezza negli obiettivi e una certa imperturbabilità dell’anima.

Quando abbiamo adempiuto il nostro impegno, possiamo dire con il cuore leggero: “Ok, era la mia parte. So verso cosa sto camminando.”

Don Davide




Nella misericordia

Non avrei potuto immaginare né desiderare una liturgia migliore per riprendere il nuovo anno pastorale.

Sabato 10 il vescovo ha presentato le linee guida per quest’anno alla diocesi, da lunedì 12 i preti si trovano insieme alcuni giorni per aggiornarsi e condividere il cammino della nostra chiesa, martedì 13 abbiamo l’importante assemblea parrocchiale, giovedì 15 nella nostra Regione ricomincia la scuola; tutto questo avviene nell’ispirazione di parole pervase dalla misericordia.

Mi sembra, in un certo senso, che sia già detto tutto.

Come dobbiamo interpretare e vivere il nostro impegno pastorale? Con misericordia, comprensione, tenerezza, dolcezza, bontà, vicinanza.

A fine agosto, al campo itinerante con i giovani, anch’io ho vissuto una grande esperienza di misericordia. Prima di arrivare ad Assisi sono stato ispirato a riconciliarmi con una persona con cui non ero in pace. L’ho fatto e, dopo, la città serafica e le vite di Francesco e Chiara ai miei occhi splendevano di una luce aurea, diversa.

Tra tutte c’è una parola che mi colpisce più delle altre: “cerca accuratamente finché non la trova” (Lc 15,8).

Il Signore ci cerca con cura, finché non ci trova.

È meticoloso, costante, tenace.

Questo vale per tutti ed è molto consolante.

Ciascuno di noi può affidarsi a lui e “lasciarsi trovare”.

A nostra volta, possiamo farlo per altri.

Cercare, curare, affidare al Signore.

Possiamo essere grati per questa ispirazione iniziale.

Don Davide