La fede e la vita

Concludiamo, con questa domenica, l’itinerario pasquale prima delle due grandi feste che chiudono questo tempo di grazia: l’Ascensione (domenica 24 maggio) e Pentecoste (domenica 31 maggio).

I testi della liturgia si aprono con il diacono Filippo che predica la parola di Dio e le folle che ci vengono descritte come unanimi nell’ascolto, perché vedono i segni che accompagnano l’annuncio di Filippo.

Sostiamo su questi due particolari: la coerenza persuasiva di Filippo e le folle unanimi.

Filippo era un uomo noto e stimato, per questo era stato scelto come diacono per il servizio alle mense. Tuttavia, il racconto degli Atti ce lo mostra tutto dedito all’annuncio del vangelo. Proprio per la “coerenza” che lo caratterizza, non abbiamo alcun motivo per pensare che non si sia dedicato al servizio di carità. Anzi, dobbiamo credere che proprio quel servizio fa parte dei “segni” che tutti vedono e ammirano e da esso viene – quasi come forza intrinseca – la necessità di annunciare Gesù.

Questo discorso di Filippo, il suo stile, mette tutti d’accordo. È la migliore concretizzazione dell’invito nella seconda lettura ad essere pronti a rendere ragione della speranza cristiana, con uno stile inoppugnabile.

Domani riprenderanno le messe. Abbiamo vissuto tutta la Quaresima e quasi tutto il tempo di Pasqua senza la celebrazione dell’Eucaristia, ma non senza vivere e testimoniare la nostra fede in molti modi. Ritornare a messa domani (lunedì 18) non può certo essere un “riprendere da dove ci eravamo lasciati”, come se nulla fosse successo.

A me sembra che proprio questa lezione che impariamo dall’esempio di Filippo ci possa aiutare. Tornare a messa è la conseguenza delle nostre azioni, coerenti con la nostra fede. In questo tempo ci abbiamo messo tutta la carità possibile, non da soli e insieme a tanti altri fratelli e sorelle. Ma questo avere partecipato alla crisi del mondo ci fa sentire ancora più l’urgenza di ascoltare la Parola di Dio insieme, di esprimere il frutto della terra, della vite e del nostro lavoro, di annunciare la Pasqua del Signore finché egli venga. La fede che ha sempre i piedi ben piantati nella vita e la vita che sbocca spontaneamente nell’espressione della fede sono per noi due poli inscindibili. Fede e vita, vita e fede. Sempre insieme o accanto a tutti gli uomini e le donne che desiderano considerarsi fratelli e sorelle, o amici. Il collante di tutto è l’amore.

L’amore che per noi cristiani ha la forma concreta dei sentieri che Gesù ci indica. In essi noi riconosciamo di non essere orfani di indicazioni, al contrario, riscopriamo di avere un Padre amorevole e buono, un papà con cui abbiamo un ottimo rapporto, che ci indica le vie della vita.

Don Davide

fede e vita




Vedere la gloria di Dio

Ci sei o non ci sei? 

La grande domanda che guida il racconto della resurrezione di Lazzaro – il Vangelo di questa V Domenica di Quaresima – la domanda identica che esprimono sia Marta che Maria è legata all’assenza di Gesù, che ci fa sentire soli, o alla sua presenza, che ci custodisce: Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”. 

Ci sei, Gesù, nella mia vita di credente? 

Ci sei, quando mi sento solo e affaticato? 

Ci sei in mezzo a questa epidemia, per curare le persone che muoiono o non ci sei? 

A differenza del famoso racconto di Gesù nella casa di Marta e Maria, qui scopriamo che è Marta ad avere una fede più grande, è radicata nel rapporto con Gesù, dialoga con lui e raggiunge una delle più grandi professioni di fede che si possano immaginare, forse la più grande di tutto il vangelo: “Io credo che tu sei il Messia, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo!”. Dire di più di così, non si può. 

Questa sua professione di fede, però, non chiude il discorso. Al contrario, coinvolge il cammino di tutti, il cammino dei singoli, il cammino dell’esperienza di un popolo, e il cammino di una comunità. 

Marta va a chiamare sua sorella, la interpella, le lascia spazio, accetta che anche lei compia un cammino e faccia i suoi passi, favorisce il suo incontro. 

“Il Maestro è qui, e ti chiama!” 

Il Maestro è qui, c’è eccome. Entra in tutte le situazioni, non fa venire meno la sua presenza. Sa che Lazzaro è morto. Si è accorto che c’è tanta sofferenza e difficoltà. E chiama te!  

Questo è il momento di incontrarlo. 

Questo è il momento di una vocazione. 

È stupendo che Gesù non consumi l’incontro come un fuoco con la stoppia. Lui aspetta la sua amica fuori dal villaggio. Le concede il tempo di un piccolo cammino, di uscire da se stessa, di pensare quello che lei vuole dirgli. 

Maria è più in difficoltà di Marta. Forse è arrabbiata con Gesù, si ferma all’obiezione, non ha altre parole. Dice solo: “Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto.” Non aggiunge nessuna professione di fede, anche se già questo lamento agli occhi di Dio è una supplica piena di amore e di fiducia. 

E piange. 

Maria è in crisi, ha bisogno di attraversare  il dolore e la commozione insieme a Gesù. E Gesù piange con lei. E di fronte a questa scena di dolore così intensa, tutti piangono. Gli abitanti di Betania sono scettici: “Costui che ha ridato la vista al cieco, non poteva fare sì che il suo amico Lazzaro non morisse?”. 

Anche Marta, che pure aveva fatto quella professione di fede grandiosa, vacilla, ed è sopraffatta dal dolore. Pensa che in fondo, nemmeno Gesù lo possa affrontare davvero. “Signore è già tardi… in realtà le nostre speranze sono svanite. Rimane solo l’amicizia, l’affetto, il conforto umano.” 

Qui Gesù tiene il punto: “Non ti ho detto che se crederai, vedrai la gloria di Dio?” 

La gloria di Dio, per gli ebrei, non è qualcosa di spirituale, di astratto. Al contrario è un’esperienza molto concretauna presenza ingombrante. Il segno tipico della gloria di Dio era il fumo denso che riempiva la tenda del santuario di Dio, al punto che nessuno, quando la Gloria era sulla tenda, poteva entrare o uscire.   

Qual è dunque, quest’esperienza così concreta e decisiva? È la fede di un singolo e di una comunità che viene suscitata nei nostri giorni fragili, e il fatto di condividere la lotta contro la morte di un intero popolo. 

Attenzione perché qui si rischia il più grande fraintendimento alla storia di Lazzaro. Il messaggio non è la sua rivitalizzazione, perché di fronte a quella, noi pensiamo subito all’illusione di non morire mai, e diciamo: “Eh, ma i nostri morti non li fai rivivere!”. Il punto decisivo, per noi, è che possiamo credere in Gesù, come singoli e come popolo, e avere una nuova esperienza di vita solo affrontando e attraversando la questione della morte. 

Soltanto in questa luce trova senso la decisione apparentemente assurda e macabra di Gesù di tardare la visita a Betania, per poi andare dopo a resuscitare Lazzaro. Gesù vuole che non esorcizziamo la morte, ma che la consideriamo nella nostra vita, compiendo il cammino della fede e tenendo ferma la speranza.  

Ve lo immaginate Lazzaro, fuori dal sepolcro? Gesù gli dice, vieni fuori, ma doveva essere ben difficile camminare mummificato! 

Allo stesso modo, guidati dalla fede e chiamati dalla speranza, anche noi compiamo piccoli passi, legati, incerti, in equilibrio precario, e veniamo sciolti dalle bende della morte che ci avvolge e vorrebbe impedirci di andare. 

Ieri un amico mi ha scritto: “Io posso anche morire domani, se ho imparato ad amare.” 

Cos’è che rende piena improvvisamente la mia vita con un atto d’amore? 

Questo è il punto cruciale del racconto della resurrezione di Lazzaro: ed è bellissimo vedere come inizia da una professione di fede, incontra una fede in difficoltà, attraversa il dolore e la compassione, suscita la fede di una comunità intera. 

Forse, una testimonianza resa così, sarà la vera nuova evangelizzazione della Chiesa. 

Don Davide

Nebbia




Riflessione sul messaggio di Papa Francesco

RIFLESSIONE SUL MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO IN OCCASIONE DELLA III GIORNATA MONDIALE DEI POVERI
17 novembre 2019

 

INTRODUZIONE. Tema della SPERANZA: darla o toglierla?

Ci sono due livelli a cui ai poveri viene tolta la speranza.

  1. La condizione negativa: disparità (fine n. 1) e schiavitù (n. 2).
  2. Trattati come nemici: come se avessero ancora, come in certe interpretazioni del mondo antico, già contrarie al Dio di Israele. «Diventati loro stessi parte di una discarica umana sono trattati da rifiuti, senza che alcun senso di colpa investa quanti sono complici di questo scandalo. Giudicati spesso parassiti della società, ai poveri non si perdona neppure la loro povertà. Il giudizio è sempre all’erta. Non possono permettersi di essere timidi o scoraggiati, sono percepiti come minacciosi o incapaci, solo perché poveri. Dramma nel dramma, non è consentito loro di vedere la fine del tunnel della miseria.» (n. 2)

1. È in gioco la fede in Dio

Di fronte alle sofferenze dei poveri, verrebbe da interpellare Dio (piuttosto che noi stessi):

«Come può Dio tollerare questa disparità? Come può permettere che il povero venga umiliato, senza intervenire in suo aiuto? Perché consente che chi opprime abbia vita felice mentre il suo comportamento andrebbe condannato proprio dinanzi alla sofferenza del povero?» (n. 1)

Invece i poveri sono coloro che hanno un particolare rapporto con Dio:

«Egli – il povero – conosce il suo Signore: nel linguaggio biblico questo “conoscere” indica un rapporto personale di affetto e di amore. […] Il povero sa che Dio non lo può abbandonare; perciò vive sempre alla presenza di quel Dio che si ricorda di lui.» (n. 3)

Notare bene che non è una condizione morale del povero, quella di vivere alla presenza di Dio, ma è Dio che sta sempre accanto e di fronte alla vita del povero.

Che il Signore prenda le parti dei poveri è espresso nel passaggio più severo di tutto il discorso:

«Si possono costruire tanti muri e sbarrare gli ingressi per illudersi di sentirsi sicuri con le proprie ricchezze a danno di quanti si lasciano fuori. Non sarà così per sempre. Il “giorno del Signore”, come descritto dai profeti (cfr Am 5,18; Is 2-5; Gl 1-3), distruggerà le barriere create tra Paesi e sostituirà l’arroganza di pochi con la solidarietà di tanti. La condizione di emarginazione in cui sono vessati milioni di persone non potrà durare ancora a lungo. Il loro grido aumenta e abbraccia la terra intera.» (n. 4)

2. Gesù

È lui che ha inaugurato la speranza per i poveri, essendo veramente fedele al Dio d’Israele.

«Gesù che ha inaugurato il suo Regno ponendo i poveri al centro, vuole dirci proprio questo: Lui ha inaugurato, ma ha affidato a noi, suoi discepoli, il compito di portarlo avanti, con la responsabilità di dare speranza ai poveri.» (n. 5)

3. Da Gesù a noi

  • Realismo della fede: «La promozione anche sociale dei poveri non è un impegno esterno all’’annuncio del Vangelo, al contrario, manifesta il realismo della fede cristiana e la sua validità storica.» (n. 6)
  • Credibilità del Vangelo: «L’opzione per gli ultimi per quelli che la società scarta e getta via è una scelta prioritaria che i discepoli di Cristo sono chiamati a perseguire per non tradire la credibilità della Chiesa e donare speranza fattiva a tanti indifesi. La carità cristiana trova in essi la sua verifica.» (n. 7)

CONCLUSIONE. Cosa possiamo e dobbiamo fare noi?

  1. Un’attenzione d’amore: «Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per i poveri nella ricerca del loro vero bene.» (n. 7)
  2. Una conversione: lo scopo della celebrazione della Giornata/Festa dell’Incontro (n. 10).
  3. Un incoraggiamento: «A tanti volontari, ai quali va spesso il merito di aver intuito per primi l’importanza di questa attenzione ai poveri, chiedo di crescere nella loro dedizione. Cari fratelli e sorelle, vi esorto a cercare in ogni povero che incontrate ciò di cui ha veramente bisogno; a non fermarvi alla prima necessità materiale, ma a scoprire la bontà che si nasconde nel loro cuore, facendovi attenti alla loro cultura e ai loro modi di esprimersi, per poter iniziare un vero dialogo fraterno. Mettiamo da parte le divisioni che provengono da visioni ideologiche o politiche, fissiamo lo sguardo sull’essenziale che non ha bisogno di tante parole, ma di uno sguardo di amore e di una mano tesa. Non dimenticate mai che «la peggiore discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale.» (n. 8)

 

MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO PER LA III GIORNATA MONDIALE DEI POVERI

 




Solo ragazzi?

Quarantotto ragazze e ragazzi della nostra parrocchia ricevono la Cresima e questo comporta un duplice passaggio, se lo vorranno accettare: prima di tutto scegliere la propria fede in modo consapevole e libero, come un percorso che vorranno portare avanti non perché glielo dice qualcun altro, la società, le convenzioni, ma perché ne hanno fatto e ne faranno esperienza sempre più diretta.

In secondo luogo, essere cristiani testimoni del Signore risorto e dello Spirito Santo che anima la vita della Chiesa e del mondo. I cresimati hanno il dovere di portare il sigillo: in genere, nelle avventure fantasy o nei film di avventura, il marchio indelebile lo portano i loschi figuri, i personaggi negativi delle storie; in questo caso il marchio indelebile è portato dai testimoni dello Spirito Santo e si dovrebbe vedere sulla loro fronte per il brillare del Sacro Crisma (l’olio misto a balsamo consacrato) e per la chiarezza della loro testimonianza.

Troppo presto a dieci o undici anni per assumersi questo impegno?

In questi giorni ho visto con piacere lo spot dell’Unicef sull’importanza del protagonismo dei ragazzi. Recita così: “Loro dicono: capirai quando sarai più grande, ora sei solo un bambino. Ma un bambino ha nuotato in mare aperto per tre ore per salvare diciotto vite… un bambino ha superato le barriere di protezione per tenere insieme la sua famiglia di migranti… Un ragazzo era stato costretto a fare il soldato in una brutale guerra civile e ora è diventato un paladino dei diritti umani e della pace liberando altri bambini dalla violenza… Una ragazza ha combattuto per il diritto delle bambine all’educazione… ed ha vinto il premio nobel per la pace… E una ragazza ha detto la verità ai potenti ispirando un movimento storico contro il cambiamento climatico… […] I ragazzi stanno prendendo la parola; i ragazzi stanno reclamando i loro diritti; i ragazzi stanno agendo ora per un domani migliore.” (Unicef, Just a Kid)

Nella foto della manifestazione contro il cambiamento climatico, una delle protagoniste porta un cartello che dice: “Abbastanza grande per salvare il pianeta.”

Sì, ragazze e ragazzi: siete abbastanza grandi per fare cose belle e importanti. Non importa che siano piccole o grandi, conta che sia la vostra azione. Lo Spirito della Cresima vi abilita a farlo.

La cosa che mi pare più sorprendente e clamorosa, in questo giorno della Cresima, è che i ragazzi ispirano la nostra responsabilità e risvegliano le nostre coscienze, ecclesiali e civili.

Sono proprio loro a farlo. Prendo ad esempio le parole che ritengo meravigliose di Greta Thunberg, che nel suo libro – per inciso – risponde puntualmente a tutte le becere obiezioni che le sono state fatte. E non cambia niente che l’abbia scritto lei o che sia stata aiutata a farlo. La potenza di queste parole rimane intatta e diventa l’augurio più bello e forte che possiamo fare a voi, ragazzi e ragazze della Cresima, e per noi adulti.

“Noi, ragazzini, non dovremmo fare questo. Mi auguro invece che siano gli adulti a prendersi le loro responsabilità e a fare questo, ma finché nessuno farà qualcosa, lo dobbiamo fare noi.” (Greta Thunberg)

Giovani amiche e amici, noi non vogliamo sottrarci al nostro compito e cercheremo di esserci, di pensare al futuro, di farvi spazio e non di lasciarvi solo macerie, ma una chiesa e un mondo migliori. Ma anche se noi non fossimo sempre capaci, non abbiate paura: lo Spirito Santo vi dà tutto ciò di cui avete bisogno.

Ora siete voi i protagonisti.

Don Davide




Riscoprire il nostro Battesimo, per generare la Chiesa

Battesimo

In questo anno il vescovo ci ha affidato l’immagine della Pentecoste, come guida del cammino pastorale della diocesi, per richiamarci all’effusione dello Spirito Santo che genera la Chiesa.

Tale effusione si realizza per la Chiesa nel giorno di Pentecoste e, in modo particolare, ogni volta che si raduna per celebrare l’Eucaristia. Per ogni credente, invece, si realizza nel modo più alto possibile nel Battesimo.

Il battesimo (con la “b” minuscola) di Gesù al Giordano richiama il Battesimo sacramento (con la “B” maiuscola) proprio per questa discesa dello Spirito Santo: lo Spirito discende su Gesù in forma di colomba, come discende e impregna ciascuno di noi nel sacro rito dell’immersione nell’acqua battesimale.

Non c’è modo più adatto, per entrare in sintonia con l’invito del vescovo, che riscoprire, in questo giorno il nostro personale Battesimo: il giorno in cui il grembo della Chiesa ci ha generato alla Vita nuova e in cui lo Spirito Santo ha incominciato ad animare la nostra esistenza cristiana.

Ma cosa significa riscoprire il nostro Battesimo?

Quando avevo quindici anni, nel 1993, il Cardinale Biffi indisse il “Biennio della fede” in cui l’obiettivo era la riscoperta del nostro Battesimo, per poter considerare la nostra fede cristiana una cosa preziosa, un dono.

Per due anni sentivo parlare in tutte le salse – quando andavo in parrocchia, ai gruppi e ai ritiri – del bisogno di riscoprire il proprio Battesimo.

Ero positivamente disposto, e volevo riscoprire il mio Battesimo, ma non sapevo davvero che cosa significasse, o come si facesse.

Poi il “Biennio della fede” passò, come tutte le cose ecclesiali e io non pensai più all’urgenza di riscoprire il mio Battesimo. C’erano altre ansie nella mia vita… (Ancora oggi, il ricordo di questa esperienza mi fa pensare a quanto effetto abbiano alcuni nostri slogan ecclesiali… ma questa è un’altra storia…).

Fatto sta, che quando entrai in seminario e iniziai il corso di ecclesiologia (una “parolaccia” che vuol dire: teologia della chiesa) un professore illuminato che adesso è il vescovo di Modena cominciò a insegnarci che il Battesimo è il sacramento della nostra dignità, che un battezzato ha la stessa dignità del vescovo e del papa, e che riscoprire il proprio Battesimo significava sapere che io sono protagonista della vita della Chiesa e che non ho bisogno dell’autorizzazione o del mandato di nessuno per darmi da fare, per costruire la Chiesa, per essere annunciatore del Vangelo e testimone del Risorto.

Insomma, in pochi mesi diventai consapevole che la fede era una cosa di cui essere orgoglioso, e che era messa nelle mie mani – o meglio, nel mio cuore – perché io fossi protagonista della Chiesa che volevo generare.

Erano passati cinque anni da quando avevo sentito parlare dell’importanza di riscoprire il nostro Battesimo. “Ecco, cosa significava! – pensai – Potevano dirmelo prima!”.

Don Davide




La preghiera

Avvicinandoci ormai alla Pasqua, prendiamo in considerazione l’ultima delle opere della Quaresima, che mirano a creare in noi le condizioni di una vera conversione.

La prossimità della Pasqua è tanto più significativa, in questo caso, in quanto la preghiera ci mette in relazione diretta con il Dio della vita: il Signore presente e vivo nella nostra vita e il Padre suo, che ogni vita raccoglie nelle sue mani, donando a ciascuna il suo amore.

La preghiera, quindi, specialmente in Quaresima, si intende senza dubbio come fedeltà pratica: l’impegno a partecipare a un’eucaristia settimanale, o il proposito di leggere le letture della messa quotidianamente, o la scelta di qualche momento di raccoglimento in chiesa.

Questa atteggiamento programmatico e concreto è indispensabile nel cammino della Quaresima e riflette anche un bel grado di umiltà: piegarsi a una fedeltà piccola, quotidiana, con la fiducia che il Signore ne farà un’occasione per la sua grazia.

Ma la preghiera, soprattutto, è una questione di fiducia. La preghiera nella luce della Pasqua ci interpella su questo punto: abbiamo fiducia che la nostra supplica non sia vana? (cf. 1Cor 15, 58). Riusciamo a vincere quella resistenza tremenda che ci fa dire che in fondo non conta niente, che noi preghiamo ma tanto il Signore non ci esaudisce, che le cose non cambiano, pensando che un atto di fiducia nel Dio della Vita non può che essere assoluto? Viene in mente la stupenda preghiera dei tre condannati nel libro di Daniele, forse uno dei passaggi più belli sulla preghiera dell’intera Bibbia.

Tre giudei alla corte di Nabucodonosor si rifiutano di adorare la statua d’oro che il re ha fatto erigere. Con la tracotanza che caratterizza i sovrani, Nabucodonosor li minaccia, arrivando a chiedere loro: “Quale dio vi potrà liberare dalla mia mano?” (Dn 3,15). I ragazzi danno una risposta che in un paio di versetti è il miglior trattato sulla preghiera che possiamo immaginare: “Noi non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta in proposito; sappi però che il nostro Dio, che serviamo, può liberarci dalla fornace di fuoco ardente e dalla tua mano, o re. Ma anche se non ci liberasse, sappi o re che noi non adoreremo mai i tuoi dei e la statua d’oro che hai fatto erigere.” (Dn 3,16-18).

I punti cruciali sono due.

Il primo: “non abbiamo bisogno di darti alcuna risposta in proposito”. La fiducia in Dio è assoluta: non richiede prove, non esige conferme. Accetta lo scherno e la tracotanza di chi pensa di sottolineare l’evidenza, mostrando che Dio non c’è.

Il secondo: “anche se non ci liberasse”. La fiducia e la forza della preghiera non è per nulla condizionata dal suo esaudimento inteso come lo vorremmo noi. Potremmo rileggere la frase così: “Anche se non ci liberasse come vogliamo noi, noi sappiamo che lui effettivamente ci libererà…”.

Viene in mente l’atroce preghiera di Gesù nel Getsemani, la sua morte senza risposte, il misterioso esaudimento nella resurrezione.

La preghiera è così: un atto puro di dialogo d’amore con il Dio della vita che si svolge in un credito di fiducia totale, per nulla condizionato a un tornaconto. Il gustare l’amicizia con Dio e l’affidarsi a lui, con la fiducia piena, assoluta, mai incrinata, che la sua bontà e sapienza sorpassano ogni cosa.

Don Davide




L’autorità di Gesù

Gesù ha iniziato ad annunciare l’amore di Dio Padre. Ha chiamato i suoi discepoli, è appena entrato in sinagoga e subito la sua autorità travolgente si manifesta e non può non essere riconosciuta.

È un’autorità che comunica un amore che trasforma, una parola che guida alla verità (prima di tutto del cuore) e che ha il potere di strappare dalla nostra vita le inclinazioni maligne. È la parola che ci apre alla fraternità e alla guarigione.

Questa autorità di Gesù è quella che produce gli effetti del Vangelo. Gesù compare sulla scena e succede di tutto: gli spiriti maligni vengono scacciati, i lebbrosi accolti e guariti, i malati sanati, gli ipocriti smascherati, i poveri diventano oggetto di attenzione, gli sconsolati recuperano un senso alla loro vita.

Oggi abbiamo il dono essere richiamati a questa autorità di Gesù, quasi come premessa dei tanti discorsi che sono stati fatti, e che faremo, sui grandi temi del mondo di oggi: i poveri, gli emarginati, i migranti, le sfide della carità, il rinnovamento pastorale della nostra diocesi, la chiesa “in uscita”.

Al centro di tutto, come fonte irradiante; prima di tutto, come inizio generativo, ci sta Gesù, l’incontro con lui, il risuonare della sua parola nella nostra vita, il fatto di vedere raccontato nel suo essere l’amore del Padre. Siamo messi di fronte alla sua autorità: è quest’esperienza che ci trasforma e ci dà l’energia necessaria.

È l’incontro con Gesù che ci spinge ad essere discepoli-missionari autentici. È l’assiduità con lui che ci rende più sensibili alle esigenze dei poveri, a cui “è annunciata la buona novella”. È lo sguardo posato su di lui che ci fa vedere negli emarginati, nei migranti il suo stesso volto. È assimilando i suoi criteri che noi possiamo rinnovare la Chiesa perché sia ancora e sempre testimone della resurrezione.

Mentre ci dedichiamo e ci preoccupiamo giustamente delle tante sfide concrete che ci si pongono come credenti e come comunità cristiana, la domenica di oggi ci dà l’opportunità di ricordarci che tutte queste cose trovano la loro unica risposta autorevole a partire da Gesù, dalla fede e dal nostro rapporto con lui, di cui ci dovremmo preoccupare in maniera NON meno concreta del resto.

Colgo pertanto l’occasione, pertanto, di proporre una piccola verifica del nostro legame personale con Gesù come suoi amici e discepoli.

  1. Che intensità relazionale ho con Gesù? Lo credo una persona viva e presente? Ho un modo concreto e personale (come si ha con tutti gli amici) di stare con lui?
  2. L’amicizia con Gesù orienta la mia vita? Determino le mie scelte, i miei comportamenti, il mio stesso modo di amare, in base a quello che riesco a capire di Gesù, dal Vangelo?
  3. La mia preghiera ha una dimensione affettiva con Gesù? Quando prego, prego magari con fede, ma solo in maniera precisa o comunitaria, oppure riesco a metterci qualcosa di mio? Dialogo con Gesù? Gli dico i miei sentimenti, i miei stati d’animo, le mie emozioni, i miei progetti, il bisogno di chiarezza nelle mie scelte?

In questo modo, la nostra amicizia con Gesù non sarà come quella con qualsiasi altro maestro, ma come quella con uno che ha autorità sulla nostra vita: un’autorità che ci rende liberi e che ci inclina al desiderio di amore… e DI AMARE.

Don Davide




La Scuola di Formazione Teologica

Il grande Aristotele, nella sua opera più famosa scriveva che la teologia è la scienza più importante di tutte e la meno utile.

Forse è questo il motivo per cui tanti sarebbero interessati a conoscere la teologia, magari anche a studiarla seriamente, ma poi non si sceglie perché non si veda come possa tornare utile (come si dice in gergo) per portare a casa la pagnotta…

È anche per venire incontro a queste esigenze che la Scuola di formazione teologica di Bologna, sotto l’alto patrocinio della Facoltà di teologia dell’Emilia Romagna, propone un corso base di teologia strutturato in modo che ciascuno possa partecipare, senza dover rinunciare ai suoi oneri quotidiani. Il corso base prevede infatti lezioni serali, un giorno alla settimana, di una o due materie a semestre. I quattro corsi che compongono il corso base sono: Teologia fondamentale; Mistero cristiano; Introduzione generale alla Sacra Scrittura e Ecclesiologia. Tradizionalmente, la scuola di formazione teologica (sigla SFT), oltre alla sede principale del seminario, ha altre sedi dislocate sul territorio.

Quest’anno, per la prima volta, si apre una sede anche nel vicariato ovest, che prevede un corso di Teologia fondamentale il martedì a partire dal 16 di febbraio, presso le nuove strutture della parrocchia di Ponte Ronca.

A questo punto, a molti verrà la domanda: e perché studiare teologia?

Per rispondere al nostro amico Aristotele, diremmo noi! Studiare teologia, infatti, da una parte ci permette di uscire dalla logica delle cose che ottengono un risultato a breve termine, dall’altra ci permette di dare un respiro alla nostra fede. Nella vita delle nostre parrocchie, soprattutto per chi è più impegnato, si rischia sempre di fare una formazione finalizzata ad acquisire capacità di fare qualcosa: un incontro, un’animazione ecc. Lo studio della teologia ha una finalità di più ampio raggio: esso intende dare al credente disponibile qualche struttura fondamentale per operare un discernimento evangelico, di fede ed ecclesiale in maniera minimamente attrezzata alle grandi sfide dei nostri giorni. Studiare un po’ di teologia, quindi, è un investimento a lungo termine, sia per i singoli – che ne avranno sicuramente da guadagnarci – sia per le parrocchie – che possono solo beneficiare da un investimento a lunga scadenza. A questo proposito, sarebbe bello che per ogni parrocchia non ci fossero solo dei singoli a frequentare questi corsi, ma magari un piccolo gruppo, in modo che possa diventare anche un’esperienza condivisa e da riportare nella propria comunità.

Credo che la scelta molto forte e voluta del vicariato ovest di avere una sede nel proprio territorio vada in questa direzione.

La seconda domanda che a qualcuno potrebbe saltare fuori è la seguente: e che cos’à la teologia fondamentale? Beh, per questa risposta… vi rimandiamo al corso! Possiamo solo dire che è la disciplina che si interroga su come si fa a rendere ragione della speranza che è noi (cfr. 1Pt 3,15).

Rendere ragione della speranza è la sfida delle sfide, come vedremo. Il papa stesso ci ha richiamati nelle ultime due encicliche alla dimensione della speranza e alla dimensione di una carità fattiva. Bisogna cioè sperare e credere in maniera che sia credibile la testimonianza del nostro amore. La teologia fondamentale prova a capire quali sono le sfide di oggi e quali sono stati i percorsi della chiesa nella storia per corrispondere a questa responsabilità.

In genere, un corso di teologia riserva piacevoli sorprese, anche per la propria fede.

Speriamo vivamente che questa occasione possa fare riscoprire anche la gioia, l’entusiasmo e la convinzione di essere credenti.

Don Davide




La nostra fede tra chiese, strade e case

Stavo pensando, in questi giorni, che il termine “parrocchia” gode di una bellissima contraddizione. Nella lingua greca, deriva dall’immagine di essere per strada, dal concetto di viandante, quindi è collegato all’idea di pellegrinaggio, di instabilità e di precarietà. Questo significato è passato nella configurazione della parrocchia intesa come casa tra le case delle persone e come luogo che si affaccia sulle strade, però nel tempo la parrocchia è diventato il simbolo di qualcosa di radicato, di molto stabile, alcune volte anche di pesante.

Senza volere fare dell’inutile retorica, vorrei perciò che cogliessimo questi giorni in cui la chiesa di S. Maria della Carità, la nostra chiesa principale, è chiusa, come un’occasione per essere richiamati al significato originario della “parrocchia”. Non è facile, è un esercizio ascetico, perché avere la chiesa comoda, in ordine, capiente e funzionale rende tutto più facile. Eppure, così ci ricordiamo che la parrocchia non è fatta dalle mura della chiesa, ma è fatta di pietre vive, delle persone; è fatta per muoversi snella tra la vita di donne e uomini, lungo le nostre strade.

Siamo, poi, estremamente fortunati, di potere disporre anche della deliziosa chiesa di S. Valentino, che sempre di più vorrei sentissimo come un santuario nel nostro territorio parrocchiale, che in questi giorni diventa il luogo principale delle nostre celebrazioni… come una piccola città che diventasse la sede di un grande giubileo! Sappiamo che la chiesa è piccolina, ma cercheremo di distribuirci, in modo da poter celebrare tutti con gioia.

Infine, dobbiamo ringraziare, perché non sono molte le chiese a Bologna che si possono permettere di celebrare la messa perfino in una sagrestia abbastanza capiente, che svolge in questi giorni anch’essa la funzione di supplente della nostra chiesa.

C’è un altro segno che ci richiama al significato profondo della parrocchia, intesa come una chiesa-accanto-alle-case. In quest’ultima settimana abbiamo iniziato le benedizioni pasquali, che portano la liturgia – che di solito celebriamo in chiesa – nelle nostre case, insieme alla visita dei ministri della parrocchia.

Come comunità siamo in cammino, siamo pietre vive, e ci muoviamo con mille relazioni testimoniando il Signore Gesù lungo le strade, nelle case, mettendoci accanto alla vita delle persone.

In questo senso, sarebbe bello cogliere il momento della visita per la benedizione pasquale, come opportunità per riscoprire esplicitamente il nostro cammino di fede. Vi invito, perciò, se potete, ad apparecchiare un piccolo altare domestico, a mettere una tovaglietta con un crocifisso e ad accendere una candela (magari quella del nostro Battesimo), in modo da rendere evidente che – mentre siamo in movimento tra chiese, strade e case – l’incontro con le vostre famiglie diventa una celebrazione di amicizia, di prossimità e di vita.

Don Davide




Fede o non fede? Questo è il problema

«La fede ci fa essere credenti, la speranza ci fa essere credibili, ma è solo la carità che ci fa essere creduti».

Purtroppo, questa bella sentenza non è mia. L’ho sentita dalla testimonianza dei ragazzi di Castenaso, sabato scorso, durante la consacrazione della loro nuova chiesa, e ho notato con gusto che aveva colpito tutti. La sfrutto, in occasione di questa riflessione domenicale, perché mi sembra una buona sintesi delle letture della liturgia.

Al centro del vangelo c’è la questione della fede. I discepoli chiedono a Gesù di averne un po’ di più, ma lui corregge la loro domanda, ricordando che la fede non è una questione di misura. La fede o c’è o non c’è. Tanto che ne basterebbe la “misura” più piccola che l’occhio nudo riesce a vedere, per vedere la potenza della fede stessa. Invece noi diciamo sempre: “Mi fido, ma non abbastanza”… “Ci credo, ma mi comporto come se non ci credessi fino in fondo”… “So che il Signore è vicino, ma penso che tutto dipenda da me”… Dobbiamo ammetterlo: in questi casi, in realtà, la fede non c’è, perché la fede è un’esperienza sintetica della nostra esistenza, e non può essere vissuta se non integralmente. Diverso è il caso del dubbio, che sta sul piano del razionale, e certo può toccare anche qualche nostra paura. Però io posso avere qualche dubbio, e allo stesso tempo consegnarmi con fiducia, quasi facendo una scommessa.

Nella stupenda prima lettura del profeta Abacuc, invece, siamo incoraggiati ad avere speranza: «E’ una visione che attesta un termine, se indugia attendila…» e subito prima: «Scrivila bene e incidila sulle tavolette…». Il profeta vede l’intervento del Signore a sollevare una condizione difficile come imminente. L’atteggiamento di chi non dispera, di chi guarda al futuro con serena fiducia e con abnegazione per il suo lavoro, è la condizione necessaria perché qualcuno possa cogliere un segno significativo a partire dalla nostra testimonianza.

Infine, la seconda lettura ci ricorda di ravvivare il dono che ci è stato dato, quel dono che caratterizza e orienta la nostra vocazione. Il primo di questi doni è lo Spirito Santo ricevuto nel Battesimo; poi ogni persona sposata e ogni persona che ha dato un orientamento definitivo alla propria vita ha ricevuto questo dono. Per “carità” si intende questo: vivere con amore e con determinazione la nostra chiamata particolare. Non abbiamo ricevuto uno spirito di timidezza, ma di forza! Questo dono lo custodiamo soprattutto donandolo agli altri, mettendolo in circolo e trasmettendolo ai più piccoli, perché davvero se la fede non può non esserci, e la speranza sostiene il nostro sguardo fiducioso al futuro, è solo la carità che condensa il senso della nostra esistenza.

Don Davide