Un tempo stra-ordinario

Con il battesimo di Gesù, riprende il Tempo Ordinario: incominciamo a seguire il Maestro come i suoi discepoli, dagli inizi della sua predicazione.

Tuttavia, per la nostra comunità, quest’anno, non c’è nulla di “ordinario” nei due mesi che precedono la Quaresima.

Ci prepariamo, infatti, all’ordinazione diaconale di uno dei ministri della nostra parrocchia: Francesco Paolo Monaco. Non siamo abituati alla presenza di un diacono permanente all’interno della comunità. C’era Luigi Morara nella Parrocchia di S. Valentino, ma dalla sua morte il 30 giugno 2010, le nostre due parrocchie unite non hanno più avuto un diacono.

Il diacono è un cristiano che ha risposto ha una vocazione specifica, ha fatto un cammino di formazione nella sua chiesa diocesana e riceve il Sacramento dell’Ordine nel suo primo grado, quello del Diaconato, appunto. Il secondo grado è quello del presbiterato. Il terzo è quello dell’Episcopato.

Diaconato “permanente” significa che il sacramento viene conferito a una persona sposata, e che quindi non è inteso come una tappa verso il presbiterato, ma si configura come un ministero specifico all’interno della comunità: in primo luogo, un ministero di comunione.

Il diacono, cioè, deve essere più di ogni altro tessitore di legami e mediatore di comunione e di armonia.

Per fare questo, il diacono usa soprattutto il servizio della predicazione (proclama il Vangelo nella messa e in qualche occasione può e deve fare anche l’omelia) e il servizio della carità, con uno sguardo sempre teso all’amore fraterno, all’incontro delle generazioni e ad avvicinare e accogliere chi è lontano o inesperto della vita della Chiesa.

È chiaro, quindi, che la presenza di un diacono è un grande dono per la parrocchia e per la diocesi, a cui i diaconi fanno sempre riferimento, essendo anch’essi, come i preti, al servizio diretto della Chiesa locale e del vescovo.

Perciò è opportuno che ci prepariamo bene e con partecipazione a questo momento.

Nella lettera del vescovo in cui è stato confermato il discernimento favorevole all’ordinazione, ci è stato chiesto esplicitamente di compiere un cammino di preparazione insieme, anche per accompagnare Francesco Paolo e la sua famiglia.

L’impegno pastorale di tutti, quindi, fino al 12 febbraio si concentra sugli appuntamenti che prevedono un incontro con don Angelo Baldassarri, Vicario Episcopale e responsabile della formazione dei diaconi, e un incontro in stile di testimonianza con un diacono permanente e la sua famiglia, per dialogare su come si configura la presenza di un diacono nella comunità.

Ci sarà poi un momento di preghiera, a ridosso dell’ordinazione, per invocare lo Spirito e affidare all’intercessione di Maria il ministero di Francesco Paolo.

Come detto, ci concentriamo su queste occasioni di formazione e di preghiera, senza aggiungere altre iniziative alle attività ordinarie.

Infine, siamo davvero tutti invitati all’Ordinazione Diaconale in Cattedrale, il 12 febbraio, alle ore 17.30, dando la precedenza, chi può, alla partecipazione a quella messa invece di quelle che si celebrano in parrocchia in quella domenica.

Don Davide




Quattro filari

La storia dei lavoratori nella vigna ci parla di quattro filari, dove si coltivano uve diverse, da cui produrre altrettanti vini pregiati.

È una storia in cui Gesù, nascosto nelle pieghe di un racconto, vuole parlarci di un risveglio. Il risveglio della nostra vita. Il dono di mettersi all’opera per servire l’amore del Padre.

Ecco questi quattro filari da percorrere, con l’uva da assaggiare e da lavorare perché ci allieti un vino sublime, “il vino che rallegra il cuore dell’uomo” (Sal 103/104,15).

Il Signore è in cerca

Il Diavolo va in giro come leone ruggente, cercando chi divorare (1Pt 5,8). Il Signore va in giro come agnello mansueto, cercando chi assumere. Sappi che il Signore è in cerca; che il “regno di Dio” passa e ripassa dalla tua vita, è prossimo, non è lontano. È così poco distante che è a suono di voce, che le occasioni non ti mancano. “Cercate il Signore mentre si fa trovare – ci ricorda Isaia – invocatelo mentre è vicino!” (Is 55,6).

Ascolta la chiamata

Ascolta la sua chiamata, senti che qualcuno ti sta parlando: “cosa fai lì?”. Dedicati all’ascolto di una guida, di un punto di riferimento, di qualcuno che ti ispiri e ti illumini.

Ricorda la vigna

Non sei chiamato ad andare in un posto indefinito, poco piacevole, dove non sai cosa fare. Sei chiamato nella sua vigna, dove ci sono tanti operai e dove il Signore vuole tutti. Non importa che tu sia il primo o l’ultimo, la prima o l’ultima, conta che sei invitato. Chiama altri! Aiuta qualcuno a sentirsi coinvolto, non ragionare solo in termini di “giustizia”, di “cosa ci guadagno”, di “chi se lo merita”, ma pensa al regno di Dio: un grande spazio di bene, in cui siano coinvolti tutti.

A giornata

Non c’è l’assunzione a tempo indeterminato e non si vive di rendita. La chiamata con cui il Signore ti risveglia dal tuo torpore è un lavoro “a giornata”. Ti devi dedicare tutti i giorni, quotidianamente, anche poco, ma sempre. A che cosa?! A quello che ti serve per “risvegliarti”. Vuoi crescere nella fede? Inizia a lavorare “a giornata”. Vuoi raggiungere risultati nello studio? Inizia oggi. Vuoi migliorare la tua relazione? Fai qualcosa di meglio a partire da adesso. Rammenta che uno dei drammi della nostra società e della maturità umana di questi tempi è che c’è una grandissima superficialità proprio su questo punto. Non si prende sul serio che bisogna lavorare quotidianamente, se si vuole “ricevere” in dono il “regno”. E non ti scoraggiare: le piccole vittorie contano. Anche se hai fatto ancora pochissimo, hai incominciato. Il traguardo non mancherà.

Don Davide




Come la pioggia e la neve

Siamo in piena estate e la liturgia della Parola, in questa domenica, inizia evocando la pioggia e la neve. Sembrano immagini lontane, ma proprio nei mesi più caldi e secchi dell’anno siamo aiutati a considerare la preziosità dell’acqua che disseta la terra e del ciclo delle stagioni.

La pioggia e la neve – dice il profeta Isaia – scendono dal cielo e irrigano e fecondano la terra, perché germogli, dia il seme e poi il raccolto. È una metafora stupenda e celebre, usata sempre per indicare l’efficacia della Parola di Dio, che non torna al cielo senza avere irrigato la vita di chi raggiunge.

Oggi, però, pensando all’estate, in questo paragone vorrei cogliere la dilazione del tempo. Tra l’autunno e l’inverno che preparano la terra irrigandola e la gioia del raccolto, passa un tempo lungo, di attesa, in cui l’agricoltore può curare un po’ il campo, ma non può operare più di tanto.

Mi sembra che nella pastorale delle nostre comunità, dovremmo riscoprire e coltivare il tempo lungo. La semina della parola – come ben manifesta la parabola evangelica, che pare esprimere un aspetto complementare a quello della prima lettura – è difficile. Nonostante l’abbondanza e la generosità del seminatore, che non è uno sprovveduto, c’è una difficoltà intrinseca in questa seminagione.

Lo dico in modo provocatorio, ma ho l’impressione che nel tempo che viviamo, invece, per evitare il rischio della dispersione dei semi e del periodo lungo per vedere il frutto, preferiamo fare come l’esperimento scientifico per eccellenza di tutti i bimbi, cioé mettere il semino in un bicchiere con un po’ di cotone, per vedere il germoglio e la piantina e dire: “Wow!”. I bimbi, giustamente, ne rimangono meravigliati, ma gli adulti sanno che non si raccoglierà nulla da quella piantina… ma è come se ci rassicurasse vedere qualcosa.

Lo si fa con il catechismo, in cui ci rassicura vedere i bimbi nei quattro anni del catechismo, ma sapendo che poi – sia per loro che per le loro famiglie – rimane ben poco di quella esperienza.

Lo si fa con i ragazzi e i giovani, con i quali usiamo quasi sempre il criterio del “così vengono”, ma alla fine non insegniamo loro a pregare, la vita spirituale, il valore dei sacramenti, di avere una guida. Fare queste cose “spirituali” è difficile: è impopolare, non interessano, ci vuole tempo… mi chiedo, però, se non siano proprio questi percorsi difficili a manifestare l’efficacia di cui parla il profeta Isaia. Quando questi ragazzi saranno diventati uomini e donne, che cosa li aiuterà?

Anche la carità corre lo stesso pericolo. Sembra che sia l’unica cosa che conti nella Chiesa, agli occhi del mondo: della fede cristiana non interessa più niente, anzi, non di rado si manifesta un certo fastidio, però la Chiesa che fa tanta carità piace a tutti: “Così dovrebbe essere!” si dice. Ma cosa sostiene la carità? Tutte le persone che animano in maniera non improvvisata, costante e con sapiente dedizione la carità, sono persone che sanno precisamente il motivo per cui lo fanno: per Gesù. Gli altri ci girano attorno, ma se non ci fossero i primi, l’immenso impianto della carità nella Chiesa semplicemente crollerebbe.

seminaAllora, cosa dobbiamo fare? La semina della Parola di Dio è difficile e, diciamolo senza mezzi termini, è fuori moda. Ma pare che Gesù non abbia escluso questa eventualità, citando il profeta Isaia.

“A chi ha sarà dato, e sarà nell’abbondanza, ma a colui che non ha sarà tolto anche quello che ha.” È una delle frasi più scandalose e irritanti del Vangelo, a fronte di un certo modo di pensare in termini di aurea mediocritas. Ma quello che vuole dire Gesù, parlando della Parola di Dio, è che la Parola è legata a un desiderio e la ricchezza cristiana a un’adesione. Chi rifiuta questo tesoro, si troverà sprovvisto e non ne rimarrà nulla. Chi invece lo cerca e vi si apre, a prezzo di fatica e pazientando nel tempo lungo, non avrà nemmeno bisogno di scoprirlo, ma sarà ricolmato di ricchezza.

Don Davide




Omelia 6° domenica di Pasqua

“Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi.” (Gv 15,12)

Esistiamo, perché un atto d’amore ci ha preceduti.

Veniamo generati da un atto d’amore.

Fino dal primo istante della nostra esistenza terrena, è lo sguardo d’amore e di tenerezza che si posa su di noi che ci mantiene integri e ci fa crescere.

Dopo, tutto facciamo nel bene e tante volte anche nel male, col desiderio di ricevere amore. Cerchiamo di compiacere i nostri genitori, di essere simpatici coi nostri amici, di lusingare chi stimiamo per stare nella dimensione rassicurante del loro amore. Oppure, viceversa, siamo ribelli e cerchiamo il nostro spazio, facciamo magari i bulletti e siamo fastidiosi, facciamo finta di disinteressarci dei nostri insegnanti, dei nostri maestri e dei nostri educatori perché speriamo che qualcuno riesca a convincerci che siamo amati così come siamo, che la grande ribellione può finire, che abbiamo trovato casa.

Poi ci si innamora per la prima volta, da ragazzi, e tocchiamo il cielo con un dito. Ogni cosa ci parla, ci parlano i fiori, gli uccellini, una bella canzone, il sole nella nostra città. Ci sentiamo avvolti e coinvolti in una comunione quasi cosmica, universale. Per quel breve e fugace attimo in cui il primo amore si manifesta, così immediato, genuino ancora non corrotto e non sovrastrutturato, con la persona amata siamo le persone migliori del mondo: ogni conflitto sembra risolto, ogni equilibrio ricostituito. Se idealmente potessimo dilatare quel momento per ogni persona, estenderlo, condensarlo in una pozione o formula magica, forse non ci sarebbero più le guerre.

Poi subentra il primo disincanto, a cui ne seguiranno mille altri, che possono o sorprendere la nostra percezione buona dell’esperienza dell’amore, disilluderci – come si dice – oppure confermare le nostre paure, le nostre fatiche, la percezione di non essere noi i fortunati destinatari dell’amore del mondo, e quindi, in ultimo, subentra la rabbia, il rancore.

Cominciamo a scoprire che l’amore è un lavoro faticoso, di ogni giorno, che può partire solo da noi stessi. Se abbiamo la fortuna di incontrare qualcuno che ci guida in questa consapevolezza, nella vita, siamo salvi.

Quando otteniamo un traguardo sperato – una vittoria sportiva, la maturità, la laurea, una professione che ci soddisfa – ci sembra di potere porre finalmente una parola di riscatto definitiva. Ci sembra di poter dire: “Finalmente le cose stanno così: posso essere amato”, ma poi ci dobbiamo subito mettere a lavorare di nuovo a tessere con l’ago e con il filo la nostra capacità di amare e la gratitudine totalmente libera da pretese di essere amati.

Quando incontriamo l’amore della vita e decidiamo di portarlo all’altare, oppure di consacrarlo, intuiamo sì qualcosa di definitivo. Io ti voglio amare e mi sento amato o amata nel modo giusto così, nel modo che mi fa bene e che ti fa bene. C’è una scintilla di verità profonda in quella scelta. A questa verità bisognerebbe cercare di stare ancorati e di essere fedeli.

Ma anche in questo caso, il lavoro dell’amore è solo all’inizio.

Sentiremo che ci alterniamo fra il desiderio di essere amati e il bisogno di amare, e che quando riusciamo a fare vincere il bisogno di amare, sul desiderio di esserlo, viene svelato un segreto nascosto, tocchiamo un mistero e scopriamo tesoro. Quando veniamo all’esistenza, l’amore ci precede e ci segue e ci circonda, ma in realtà non abbiamo tanto bisogno di essere amati, quanto di amare. Essere amati è una pedagogia per amare. Essere amati è l’inizio, amare è la meta.

Quando staremo per chiudere gli occhi, non ci rimarrà più niente a rassicurarci, se non questo conforto: “Ho amato”, oppure questo dramma: “Non ho amato”.

Se le cose stanno così, perché allora facciamo così tanto – talvolta in maniera scomposta – per essere amati e così poco per amare?

Il comando di Gesù va a intercettare questo punto onnicomprensivo dell’esistenza umana. Non è un comando oppressivo, sconveniente e privativo. La parola decisiva è ridotta all’essenziale, l’unica cosa necessaria: amate, amatevi! È un comando per la vita.

Lo Spirito Santo spinge la Chiesa ad assumersi nessun altro compito che tenere viva la memoria di questa via. Anche superando barriere o convenzioni che ci autoimponiamo.

Beata Vergine della Salute, Maria, nell’attimo in cui ti sei sentita amata e hai deciso di amare, non solo hai avuto la vita, ma l’hai generata. Sei stata costituita come donna completa: ragazza, giovane, adulta, donna, madre, anziana. Dona a ciascuno di noi, quasi come una fata delle favole, il tocco dell’amore che ci indica il tuo figlio, Gesù.

Don Davide




Invitare alle nozze

«Mandò i suoi servi ad invitare alle nozze» (Mt 22,2).

In questa domenica, viene conferito il Mandato a tutti i catechisti, educatori e responsabili della nostra parrocchia. È un rito festoso, in cui, a nome di tutta la comunità, si affida ufficialmente l’incarico alle persone disponibili, si ricorda loro che sono al servizio e non dentro un’impresa personale, e che il Signore manda i suoi servi ad invitare alle nozze, non a una cosa triste.

Il servizio ecclesiale dovrebbe essere come quegli amici che organizzano i giochi festosi per gli sposi: richiede impegno, ma con quanto entusiasmo e affetto lo fanno!

Ancora di più, l’appartenenza alla chiesa dovrebbe essere come una festa di nozze: un’esperienza gioiosa, estremamente curata, dove si mangiano cibi succulenti e bevande deliziose – talvolta spirituali, come l’ascolto della parola di Dio, un ritiro, una bella celebrazione; talvolta materiali, come le merende o i bei pranzetti che ogni tanto si fanno.

Ci dobbiamo chiedere: stiamo invitando alle nozze o a un funerale? L’invito è curato? La partecipazione è bella o assomiglia di più a un necrologio? L’abbiamo spedita come si fa a un capo azienda che non possiamo non invitare per buona educazione, o c’è un rapporto personale e riusciamo a dire: “ci tengo che tu ci sia”?

E poi: la festa è pronta? O abbiamo cibo precotto, patatine confezionate, tovaglie sporche, location brutte e sedie scomode?

È interessante notare, nel vangelo, che tutto ciò non basta. Nonostante un invito alle nozze fatto come si deve e un banchetto eccellente, molti invitati rifiutano.

Niente paura. Timone dritto e obiettivo chiaro: qui c’è pronta una festa di nozze, non una merendina. La merendina la puoi rimettere nella scatola e mangiarla un altro giorno; la festa di nozze va goduta e ci sarà sicuramente qualcuno che ha il piacere di farlo. E allora: apriamo le porte! Oltre che una chiesa in uscita, che sia anche una chiesa aperta! Che tutti coloro che vogliono il privilegio di partecipare siano accolti! E che goda chi ha fame e sete!

E alla fine, si scopre che i servi stessi sono invitati alle nozze! Che strana festa, questa! Il padrone è così buono che, pur avendo servi numerosi, ha organizzato un catering esterno, in modo che anche i servi possano fare festa, essere serviti e mangiare leccornie!

Mi auguro davvero che tutti, tutti possiamo avere la chiara consapevolezza di essere invitati a una festa di nozze; che nessuno di noi ritenga il non esserci una cosa di poco conto; che non ci sia bisogno di insistere come il padrone nel vangelo e, anzi, ciascuno desideri non perdersi questa festa per nulla al mondo.

Don Davide