Fortezza

Forti come la roccia, teneri come un abbraccio

Tutta la forza del cristiano dipende dalla sua unione con Gesù. Possiamo e dobbiamo cercarlo nei sacramenti, vivere l’intimità con lui nella preghiera con la Parola e nell’Adorazione, e seguirlo e imitarlo in ogni nostra azione quotidiana. Si tratta di stare attaccati a Gesù, come i tralci alla vite, in modo da godere di quella linfa vitale che irrobustisce e dà vigore.

Senza di lui non possiamo fare nulla, non perché lui sia geloso o ce lo impedisca, ma semplicemente perché non avremmo forza. Senza di lui, i tralci diventano secchi e servono solo per essere gettati nel fuoco.

In questa unione si rende presente e si manifesta lo Spirito Santo, che “rivela nei deboli la sua potenza e dona agli inermi la forza del martirio” (Prefazio dei martiri).

Dall’insegnamento di Gesù sulla vite e i tralci, cogliamo anche una sfumatura importante tra la forza e la fortezza. Sicuramente la fortezza ha a che fare con la forza, ma è qualcosa di più. Possiamo giocare con le parole, per capirlo meglio. Una persona può essere forte, senza avere la fortezza. Pensiamo, ad esempio, a quel tipo di edificio che chiamiamo fortezza. Qual è la differenza tra un presidio militare e una fortezza? Il primo può godere di molti armamenti e di vari strumenti offensivi e difensivi, ma non essere sufficientemente robusto da resistere a un assalto strutturale. La fortezza, invece, è concepita con un impianto incredibilmente solido e robusto.

Ugualmente il dono della Fortezza. Esso non ci rende forti di una forza che potremmo usare prepotentemente o violentemente, ma solidi, robusti, capaci di resistere nelle avversità e di portare frutto.

La fortezza è quel dono che rende la nostra casa fondata sulla roccia e il nostro terreno buono.

Il dono della fortezza ci rende duri come la pietra o teneri come l’affetto, gentili o fermi, determinati o condiscendenti.

Ad esempio, come leggiamo nella seconda lettura, il dono della fortezza è quello che ci rasserena in Gesù, senza farci essere troppo indulgenti con noi stessi. Insieme al dono del Consiglio, di cui abbiamo parlato domenica scorsa, ci rende interpreti sensibili e adatti alle situazioni.

La Fortezza è anche il dono che ci aiuta a custodire la purezza: non solo rispetto alla volgarità del mondo, ma anche negli intenti, perché siano trasparenti, nei pensieri, perché non abbiano secondi fini, nelle relazioni, perché siano autentiche e sincere.

Questo tipo di purezza toglie dal nostro spirito le scorie dei materiali poco resistenti, come i vizi, la pigrizia, le cattive intenzioni,

e ci rende forti come una fortezza, appunto, e capaci di portare molto frutto.

Così, possiamo chiedere al Signore il dono di essere una “fortezza” dello Spirito, alcune volte, tenerissima.

Don Davide




Omelia Venerdì Santo

Nella prima scena di questo racconto, si fronteggiano Gesù e Giuda. Sono amici, anche se Giuda non è rimasto nel cenacolo fino ad ascoltare le parole di Gesù: “Non vi chiamo più servi, ma amici”. Gesù lo aveva voluto personalmente tra quegli amici che erano destinati per primi a conoscere l’amore di Dio per il mondo, gli aveva lavato i piedi e gli aveva offerto il suo affetto, perché si allontanasse dal suo proposito e si affidasse all’amore. 

Ma, nel momento in cui aveva accolto quel boccone e aveva deciso di andarsene, Giuda era sprofondato nella notte, in balia di Satana. 

Il loro incontro al Getsemani è impressionante. È un posto che Giuda conosce, perché era un luogo di preghiera condiviso. Com’è possibile che si sia tramutato in uno spazio di lacerazione così profonda? 

Gesù è lì con i discepoli. Giuda arriva con il suo seguito. Non è un assalto, ma uno schieramento di due fronti opposti: Gesù davanti ai suoi, Giuda con i soldati e le guardie. 

Dallo scambio che segue, pare che Giuda non riconosca Gesù: Gesù è lì davanti ai suoi occhi, con tutta la loro storia condivisa e chiede: “Chi cercate?” e Giuda parla di lui in terza persona: “Gesù il Nazareno”. 

Come è stato lo scambio di sguardi tra Giuda e Gesù? 

La passione degli uomini e delle donne inizia quando uno non riconosce più l’altro, con il quale ha condiviso una storia insieme e una speranza di bene per il futuro. 

Le croci del mondo cominciano ad essere piantate quando in una coppia che ha deciso un progetto di vita insieme non ci si riconosce più, si diventa avversari e nemici; quando due popoli che parlano una lingua simile come i russi e gli ucraini, o che vivono da decenni nella stessa terra come gli ebrei e i palestinesi, cominciano vedere nell’altro nient’altro che un nemico; quando un essere umano non riconosce più un essere umano, con la stessa dignità e lo stesso bisogno di essere rispettato e amato; quando fra amici si litiga e non ci si riconcilia più, dimenticando tutto ciò che di bene c’è stato. 

Si tratta di non riconoscere la verità sulla nostra vita, sugli incontri che abbiamo fatto e le relazioni che abbiamo costruito. 

Che cos’è la verità? Chiede Pilato a Gesù, ma poi non si ferma ad ascoltare la risposta.  

Che cos’è la verità? È una domanda che sta letteralmente al centro di questo racconto e avrebbe potuto segnare una svolta. Pilato sa che Gesù è senza colpa. Per tre volte lo dice di fronte agli accusatori e per altrettante volte cerca di liberare Gesù, ma alla fine volta lo sguardo dall’altra parte.  

Questo accecamento di fronte alla verità delle cose stordisce tutti quelli che hanno a che fare con Gesù e non si lasciano illuminare dalla luce che potrebbe riportali a se stessi:  

  • Pietro, che nega platealmente di conoscerlo; 
  • i suoi accusatori, che possono voler uccidere ingiustamente un uomo con il consenso dell’Impero, ma non si vogliono contaminare calpestando il cortile del governatore; 
  • i capi dei sacerdoti – la classe dirigente, il governo del popolo – che proclamano di avere come unico re l’Imperatore di Roma. Questa affermazione è un tale infarto teologico, che tutte le Scritture di Israele potrebbero bruciare al sentirla. 

Tutte le croci e la passione del mondo sono simboleggiate nella passione e croce di Gesù, proprio in questo stare di fronte alla realtà, riconoscere la verità… e fare finta di niente. È una obliterazione totale della coscienza e del senso della propria esistenza. 

Di fronte a questo scenario Gesù svela a sua madre e al discepolo la verità della loro esistenza, così che lo stesso discepolo possa finalmente dare testimonianza della verità. 

Qual è, dunque, la nostra verità? È generare ed essere generati. È essere madre e figli e riconoscere la Chiesa, madre e discepola, come lo spazio di comunione dove possiamo rispondere alla nostra vocazione.  

Credo che sia importantissimo sentire questo dovere di generare, ma allo stesso tempo di lasciarsi generare; di proporre un esempio e di lasciarsi educare; di insegnare e di apprendere; di guidare e farsi condurre; di trasmettere vita e accettare che la vita si riceve sempre in dono dagli altri. 

È così che ogni discepolo rende una testimonianza vera dell’amore di Gesù e della rivelazione di Dio. In tutta quella confusione e allontanamento dalla verità di se stessi, il cuore aperto del Crocifisso ci riporta alla possibilità di affermare che questa è la verità, non un’altra: l’amore incondizionato di Dio riversato senza misura su ogni uomo e su ogni donna. 

Fra poco faremo il rito dell’adorazione e, per chi vuole, del bacio della croce. Al termine della processione e del canto vorrei poi lasciare uno momento di silenzio per stare davanti alla croce e chiedere al Signore di aiutarci a fare verità in stessi. 

Che Gesù possa illuminare i nostri sentimenti, rischiarare i pensieri, aiutarci a riconoscere chi siamo, cosa abbiamo costruito, quali sono i nostri desideri profondi. 

Che la sua croce ci aiuti a riconoscere le nostre paure e ad affrontarle, e ad apprezzare il senso della nostra vita e la nostra vocazione. 

Non basteranno questi pochi minuti, ma potrebbero essere un inizio verso un contatto sempre più vero con noi stessi 

C’è un’ultima verità, da scoprire. Gesù viene deposto in un giardino, in una tomba in cui nessuno era stato ancora deposto. Una tomba nuova, che non aveva ancora conosciuto la morte.  

Il giardino richiama il dono della Creazione. Gesù viene deposto in un giardino, in una tomba vergine che rispedirà la morte al mittente, perché sia chiaro a tutti che, in verità, non c’è proprio più posto per la morte in questo giardino. 

Don Davide




Omelia Giovedì Santo

La cena pasquale degli ebrei aveva assunto un valore rituale importantissimo. Era celebrata come la fonte di vita per tutta la comunità di Israele. L’inizio da cui derivava l’esperienza di appartenere al Signore e la libertà di essere popolo, che potrebbero essere due aspetti significativi anche per noi, tradotti nel modo seguente: che cosa significa essere cristiani? Che cosa significa essere chiesa?  

Nella cena pasquale l’aspetto rituale è fortissimo: l’agnello non deve avanzare fino al mattino e se uno mangiasse il lievito dovrebbe essere escluso dalla comunità, perché in quella notte il passaggio del Signore è avvenuto prima del mattino e il popolo di Israele parti dall’Egitto in gran fretta, prima che il pane fosse lievitato. 

Tutto deve essere racchiuso in quella notte. 

Come abbiamo sentito dalla II lettura, anche per i cristiani è rimasta questa impronta rituale fortissima: Gesù ha detto le parole di quella che sarebbe diventata la Cena del Signore – l’Eucaristia – nella cena pasquale. 

La comunità di Giovanni e, con essa, il redattore del IV vangelo – riflettendo molti decenni dopo su cosa distingua la vita cristiana dal mondo – ricordano che in un contesto rituale molto importante, quello della cena pasquale, Gesù ha compiuto un’azione totalmente irrituale: un servizio che doveva essere compiuto prima di prendere cibo, appena entrati in casa, perché era la soglia di passaggio tra l’impurità e la purità.  

Quindi nel solenne rito della Pasqua assistiamo a questo impressionante atto di Gesù, che sintetizza l’insegnamento del Maestro e Signore: lavare i piedi.  

Lavare i piedi: gesto ospitale per eccellenza (che vuol dire: ti accolgo e sei il benvenuto nella mia casa) e gesto di servizio nel ruolo del servo, anche se sei il padrone di casa. 

Questo fanno i cristiani come segno distintivo della loro fede e opera sorgiva del loro essere chiesa e comunità. 

Pietro, invece, esprime perfettamente la logica del mondo: “Io sono un servo fedele al suo capo”. Ma è esattamente l’opposto che conta: il capo vuole insegnare a servire, non se ne fa nulla di qualcuno che dica: “Io darò la mia vita per te”. È lui che ha dato la vita per noi una volta per tutti, e noi dobbiamo darla per i fratelli e le sorelle. 

Molto diversamente dai capi e dai potenti del mondo, Gesù non ha bisogno di sottoposti, ma di amore-posti. Gesù non vuole schiavi, ma persone libere e fraterne. 

Mentre si consuma la terza guerra mondiale a pezzi, sperando che i pezzi non si congiungano, ma anzi diminuiscano, e che i focolai si spengano, sento la grande responsabilità di essere una comunità cristiana autentica ed originale nel vivere la fede, il servizio fraterno e l’amicizia reciproca. 

Di fronte ai poveri, all’individualismo, alla solitudine e all’indifferenza, sento il bisogno di essere una comunità cristiana che fa spazio nella propria casa, insegna lo stile di lavarsi i piedi e di servirsi, invece di sopraffarsi. 

Qualche giorno fa, è stato celebrato qui in questa chiesa il funerale di Pilar, una ragazza di 22 anni, non della nostra parrocchia, morta di anoressia. Al cospetto delle sofferenze dei giovani (e delle loro famiglie e amici), e pensando alla vitalità esplosiva che potrebbero esprimere e alla loro capacità di fare nuovo il mondo, sento il dovere di stare vicini, di essere una comunità cristiana affettuosa, un cenacolo dove si dicono e si vivono le cose più vere e dove si può aprire il cuore all’amore e a un’incoraggiante promessa di vita.  

 Fra poco ripeteremo il gesto della lavanda dei piedi. Dobbiamo ricordarci che io lavo i piedi a te, mentre a me li ha già lavati Gesù. Coloro che si lasciano lavare i piedi da Gesù la smettono di pensare a quello che possono fare per lui, accettano il grande dono di imparare l’amore, e che sia lui il modello di cui abbiamo bisogno. 

“Lo capirai dopo” dice Gesù a Pietro. Questi sono i giorni di ricevere l’esempio da Gesù e di dare amore alla comunità. Nell’Eucaristia, noi celebriamo continuamente questa sorgente zampillante che permette la vita nostra, della comunità cristiana e anche del mondo intero, se accettiamo questo insegnamento di deporre le vesti e di lavare i piedi nel ruolo del servo. 

 Che cos’è dunque l’eucaristia? È la scuola dove impariamo l’amore. 

Che cosa significa celebrare? Significa allenarsi a servire. 

Come si vive da cristiani? Accogliendo l’altro nella casa che edifichiamo insieme, la chiesa, e scoprendo la bellezza della nostra vita che serve. 

Don Davide




Tre ore di buio

Tre ore di buio su tutta la terra, nella parte più luminosa del giorno, subito dopo l’inizio della primavera, quando la luce, di solito, è più carica di promesse.

In queste tre ore di buio Gesù è esanime.

Le sue ultime forze si consumano dopo lo sforzo di ogni respiro. È una prova durissima, in cui il dolore lo spinge a sperimentare persino il dubbio dell’abbandono di Dio. Ma quel grido, Gesù lo sapeva bene, è anche un atto di affidamento: il salmo inizia con quelle parole e finisce con la fiducia nella vita donata da Dio.

In queste tre ore di buio c’è la nostra vita,

quando accogliamo Gesù con entusiasmo di fronte a illusioni di regale potere, e poi andiamo in stato confusionale quando prospetta l’amore nel tradimento, il perdono per la comunione, la pace nella violenza, la verità di fronte alla menzogna, il rifiuto dei troni per diventare il re dei consumati.

In queste tre ore di buio c’è anche la storia del mondo,

quando si perseguono consapevolmente pensieri e azioni malvagi, quando la religione si esprime con accusa e condanna, quando l’autorità diventa ipocrita, quando ci si scaglia contro i poveri e i sofferenti, quando i soldati abusano della forza, quando – infine – non si riesce nemmeno a vedere la sofferenza di un uomo, una persona.

In tenebre spaventose e sospette, si irradia invece un atto d’amore di consegna e di abbandono a Dio, talmente lucente da indurre la prima fede proprio in un soldato, uno lontano, uno di quelli che prima si erano divertiti a perseguitare Gesù, a giocare con le sue vesti e a schernirlo.

Non c’è oscurità, dunque, che possa opporsi a questa luce dimessa, silenziosa, gentile e vera,

che Gesù ha acceso nella parte più nascosta del buio, dove le tenebre di solito inghiottono il chiarore, invece questa volta vengono soffocate.

Entriamo nella Grande Settimana, la Settimana Santa, muovendo i passi dentro queste ombre, nostre e del mondo, per imparare da Gesù, che lava i piedi perché la comunità non sia distrutta dalla prova, e che si offre perché davanti alla croce lasciamo che il suo mistero inafferrabile tocchi qualcosa del nostro cuore, quello di cui abbiamo bisogno, quello che il Signore sa.

In questo percorso, non impaurito, ma fiducioso e sereno, una piccola luce ci guida:

la luce di una candelina con un paravento.

Ci spingeremo fino a metà della notte, per prenderla in mano e scoprire che tutto si riaccenderà.

È per me, insieme con quelli che considero nemici e lontani, per i miei fratelli e sorelle, per la mia comunità, la mia chiesa e il mio mondo, che Gesù ha posto una piccola luce nel buio.

La Luce della Vita sta per illuminare tutto.

Don Davide




Abitare e ospitare

“Maestro dove abiti?” (Gv 1,38)

Riprendiamo l’anno pastorale con il tempo ordinario e tutto il cammino che faremo frequentando il vangelo di Gesù secondo Marco è un tentativo continuo di trovare dimora presso di lui, cioè di abitare stabilmente con lui. Come succede a chi abita insieme, si tratta di salutarlo al mattino, di ritrovarlo quando torniamo a casa, di sapere che abbiamo un punto di riferimento durante la giornata, di “avvisarlo” quando facciamo qualcosa e di contattarlo quando succedono cose belle.

Significa cercare questo rapporto con Gesù che ci dà una casa.

L’inizio di questo tempo liturgico è caratterizzato dall’impegno di stabilire un legame al quale possiamo sempre ritornare e nel quale trovare rifugio e riposo (cf. Mt 11,25-30).

È un’esperienza emozionante, perché sappiamo di poter riprendere a muovere i nostri passi con lui:

se siamo neofiti c’è tutta la scoperta del dell’incontro con Gesù, se siamo cristiani da tanto tempo possiamo sentire la gioia di sentirci nuovamente messi in gioco, di conoscerlo più profondamente, di sperimentare con più sorpresa la sua grazia e la sua provvidenza. E poi si tratta anche di fare sentire questa vicinanza di Gesù a tutti coloro che ancora non la conoscono e non l’hanno sperimentata.

Questa esperienza spirituale ci spinga a ricambiare l’ospitalità

e, come accadde ai discepoli di Emmaus, a fare spazio a Gesù nella nostra casa: nella nostra casa interiore, cioè il nostro spirito, e nella nostra casa esteriore, cioè nelle nostre vite.

Così possiamo rendere tutta la parrocchia una casa in cui Gesù è nostro gradito ospite,

sia per i nostri fratelli e sorelle che sono invitati nello stesso amorevole clima domestico, sia riconoscendo Gesù in loro stessi come presenza del Maestro che chiama ciascuno di noi.

Don Davide




Il Battesimo di Gesù

Leggendo il Vangelo di Marco nella narrazione del Battesimo di Gesù, come gli altri Vangeli che riportano questo evento deflagrante nella storia e nelle vite dei cristiani, siamo invitati a chiederci:

cosa avranno pensato le persone che erano radunate sulle rive del fiume Giordano?

Sappiamo che venivano da Gerusalemme, da tutta la Giudea e dalle regioni intorno al Giordano e possiamo immaginare che fossero fedeli che riconoscevano in Giovanni un profeta o forse persone curiose di incontrare questo uomo carismatico che ripeteva con insistenza che il Regno di Dio stava arrivando, che occorreva per questo convertirsi e che aiutava a farlo attraverso un rito che usava l’acqua del fiume Giordano come strumento di purificazione, in continuità con quanto profetizzava Ezechiele.

Certamente, come seguaci di Giovanni o, semplicemente, persone che lo avevano ascoltato, erano rimasti colpiti sentendolo dire: “Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non sono degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali; costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco…”.

Immaginiamo, quindi, che ogni volta che questo rituale di purificazione e perdono avveniva, nei pressi del Mar Morto, dovessero esserci una moltitudine di persone piene di fede, desiderose di riconciliazione e nell’attesa di conoscere chi potesse essere il Messia che Giovanni annunciava.

Quel giorno, fra i tanti che chiedevano di essere battezzati, c’era Gesù, che ai più doveva semplicemente apparire come uno dei tanti fedeli penitenti.

Chissà cosa hanno pensato quelli che hanno sentito Giovanni rispondere a Gesù che gli chiedeva il battesimo: “Io ho bisogno di essere battezzato da te e tu vieni da me?”. Possiamo immaginare una folla stupita, perplessa e in questo clima sospeso di fede e interrogazione ecco l’inimmaginabile.

È ragionevole pensare che siano tutti stati travolti da una luce indescrivibile, inondati dallo Spirito, forse atterriti dalla parola di Dio e certamente nessuna di quelle vite è più stata la stessa di prima.

Noi apparteniamo alle generazioni di coloro che pur non avendo veduto credono, e Gesù ci ha definiti beati per questo.

Siamo senz’altro beati quando riceviamo il Battesimo e rinnoviamo le promesse battesimali, grazie a Gesù, che nella sua umiltà e nel suo infinito amore ha creato questo nuovo Sacramento, sentiamo il cielo che si apre, la presenza di Dio che entra nelle nostre vite, lo Spirito Santo che ci abita, illuminando i nostri sentieri.

Ogni volta è come ritrovarsi sul Giordano, rimanere attoniti fissando il cielo che si squarcia, senza fiato sentendo la parola di Dio, ricolmi di quella gioia che fa sembrare il nostro cuore umano troppo piccolo per contenerla, per fortuna siamo diventati tutt’uno con il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

Elena e Luca




Credo il Natale

Credo che il Natale è la nascita di Gesù, il Figlio di Dio, il salvatore del mondo.

Credo che il Natale vada celebrato con la Chiesa e nella propria comunità. Credo che in questi rapporti, ci sia uno spazio speciale per le famiglie.

Credo il Dio di Gesù Cristo, che abbiamo conosciuto dentro la storia del popolo di Israele, come testimoniano le bellissime profezie di Isaia e di Michea che ascoltiamo in questi giorni. Soprattutto quella di Isaia 2, che vede il giorno in cui si smonteranno i missili e si costruiranno scuole.

Credo che il presepe è un dono che soltanto l’intuizione di uno come Francesco d’Assisi poteva lasciarci. È ancora più bello non solo quando puoi ammirarlo da fuori, o guardarci dentro, ma quando puoi guardare “da dentro” come in quello della nostra parrocchia.

Credo sia bello pure l’albero di Natale, soprattutto quando è fatto con i bambini. E – a proposito – credo ci rendano più lieti anche le lucine e gli addobbi, e tutti i segni di festa che ci sono, perché noi che lo viviamo spiritualmente sappiamo che alla fine il Natale coinvolge tutti. Mi colpisce quando si sentono nei locali le canzoni che parlano di Gesù bambino. E non possono essere ridotte solo a una favoletta, quando senti i cantanti più famosi del mondo che interpretano Silent Night e gridano: “Christ the Saviour is born!”.

Nessuno potrà farci dimenticare il Natale sacro, a meno che non lo lasciamo andare noi stessi.

Tuttavia è necessario che a Natale i negozi e le attività commerciali chiudano, e gli sport si fermino. Magari già dal pomeriggio della Vigilia.

Comunque una gara c’è e ci dev’essere: è quella della solidarietà e sì – certo – credo che siano meglio i panettoni e i pandori solidali, e anche le Stelle di Natale. Credo, però, che la vera solidarietà sia rivolta ad ogni sofferenza del mondo.

Credo che sia vero che a Natale possiamo essere tutti più buoni. Non è automatico, ma la liturgia dice:

“È apparsa la grazia di Dio, che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani” (Tt 2,11-12).

Credo che solo curando la vita spirituale si possa avere una luce, vedere il cielo aperto e ascoltare gli angeli, ossia Dio che ti guida.

Vedo, infine, in questa notte santa, una donna, un uomo, un bambino e una platea di persone di tutti i generi attorno. Credo che gli uomini non “devono” fare la guerra e che, fin da quella scena, dovesse essere fuori di dubbio e messa in pratica in ogni aspetto la perfetta uguaglianza in dignità e diritti delle donne, nelle loro differenze. Credo che i bambini debbano essere coperti da un magico scudo di paglia, talmente leggero da non sentirlo ma inscalfibile come l’armatura di un mandaloriano, e che chi vorrebbe violarli si scontri con le corna di un toro e il calcio di un asino.

Credo che tutti, proprio ogni persona sia invitata a celebrare Gesù, il Cristo, e che non ci sia anima sulla Terra che non sia sorella di Gesù e Figlia di Dio. È un legame di sangue che si può rifiutare, ma da quella notte la Luce splende e chi vuole l’accoglie.

Don Davide




L’uomo del deserto e il portavoce

Giovanni il precursore è il più grande fra i nati da una donna. Lo Spirito Santo in lui si manifesta ancora prima della sua venuta al mondo, quando è nel grembo materno.

E l’epoca di Giovanni vide un fiorire di gioventù radicalmente votata al Signore. Il luogo della meditazione scelto da Giovanni e da quelli come lui è il deserto.

Persino Gesù si recherà nel deserto per pregare, digiunare e, nell’assoluto silenzio, nella più alta solitudine, unirsi a Dio nella contemplazione.

E nella perfetta solitudine del mistico Gesù verrà tentato dal demonio in quella lotta terribile che pone l’uomo, persino il figlio di Dio nella sua natura umana, innanzi alla scelta suprema fra Dio e i beni mondani. Il mistico rinuncia al caos mondano, si ciba di locuste e miele selvatico, diviene anche nella sua figura corporea un essere potentemente spirituale. La sua opera è invisa ai sacerdoti del tempio, poiché coloro che da lui vengono purificati dai peccati mediante il battesimo non sentono più l’esigenza di offrire olocausti. E allora i sommi sacerdoti mandano degli emissari a chiedergli chi egli sia.

Alla domanda Giovanni non si sottrae. Risponde di non essere il Cristo, rivela la sua identità triplice di testimone, profeta e sommo sacerdote del Messia che viene. Di se stesso Giovanni ha tutto: egli è una voce che grida nel deserto. Il deserto che è il luogo fisico e psichico nel quale si è ritirato affinché questa voce, profetica e sacerdotale, non potesse essere confusa con il clamore mondano: grida l’ultimo dei profeti e il primo di una nuova stirpe di sacerdoti, si presenta come il primo uomo chiamato da Dio a seguire una voce, Abramo. Giovanni il precursore, ha dentro di se la parola di quella voce che chiama Abramo, incarna quella voce di totale cambiamento che avrà l’apice del suo compimento in Gesù.

Giovanni sente dentro di sé la voce: “Vattene”. Sono uomini che sentono quel “Vattene nel deserto” esci dalla tua consuetudine, dal rumore mondano, vattene nel luogo del perfetto silenzio della contemplazione dove è Dio.

Chi è oggi l’uomo del deserto?

È quella scandalosa creatura che, con le parole del poeta Massimo Morasso, può essere chiamata “il portavoce”.

Qual è il deserto nel quale l’uomo del nostro tempo può ritirarsi per incontrare Dio?

Nel raccoglimento dentro se stesso, nell’attenzione che è un’attitudine in prima istanza interiore possiamo udire la voce che parlò ad Abramo, identica, nei millenni. L’anima è la depositaria della chiave, è la protagonista onnipotente della chiamata perché è divina. Un’anima digiuna di cibo terreno e per questo più affamata e delle parole dell’Eterno delle verità gloriose dei Cieli. Una volta tornati dal deserto con questo tesoro intangibile di cui l’anima è custode siamo chiamati a diventare, in quanto eredi di Giovanni, il portavoce. Questo è rendere testimonianza alla luce nel nostro tempo. “Vattene nel deserto, abbandona le tue comodità, conoscimi, custodiscimi, diventa il mio portavoce”.

Il Magnificat, la risposta data a Maria a sua cugina Elisabetta che salutandola ha sentito esultare dentro il suo grembo Giovanni: le prime protagoniste e depositarie del più grande mistero che Dio condivide con l’umanità sono due donne in gravidanza. Esse sono la radice della regalità e del sacerdozio, sono portatrici carnali del sacro. Il salmo ci parla di una totale adesione, la totale adesione di Maria al disegno divino che la riguarda. Un’adesione che non chiede garanzie, come è quella di Giovanni. L’uomo che sa affidarsi alla sua anima è, come ricorda san Paolo, un uomo intero. Il dio che chiama Abramo, Giovanni, Elia, Maria, non mente, non è una voce falsa, è una voce affidabile che promette la santificazione dell’uomo in spirito, anima e corpo, nella sua interezza e chiede solo in cambio di astenersi dal male: di amare.

Sarah Tardino

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Per tutti sarà Natale

In un’era di attese deluse
e risposte mancate,
mentre millenarie certezze
crollano annichilite
e ideologie di carta
balbettano il nulla,
nel paradosso di esistenziali antitesi
(frenesia di onnipotenza –
proclamata casualità del tutto)
che divorano l’uomo,
nel nostro cuore
che anela all’infinito
grida ancora l’attesa:
“Quando verrai, Signore? Perché indugi?
Grovigli d’ingiustizie
incatenano l’uomo,
soprusi intollerabili ne infrangono
l’innata dignità,
e noi, Tuoi figli,
nell’oscuro crepuscolo del mondo,
non abbiamo più mani
per raccogliere strazi senza voce!”
Ma il tempo del Signore
non contempla ritardi o fallimenti
né facili vendette:
nell’alveo dei millenni
scorre il fiume infinito
di una pietà sapiente
che attende,
con pazienza amorosa,
che ogni tralcio
si riannodi alla vite,
che ogni agnello perduto
sia riabbracciato.
Egli verrà, a illuminar le genti,
incendiando i colori dell’aurora,
a ricomporre stinti frammenti
di storia senza volto
in un mosaico denso
di trama e verità.
Respirando
nel diaframma del mondo,
cooperatori di pietà e giustizia,
ogni sole che sorge
accenda il nostro cuore,
ogni umano dolore
ci appartenga.
Solo così per tutti
sarà Natale.

Carla Roli




Vertigine

“Pur essendo nella condizione di Dio
[…] svuotò se stesso,
[…] umiliò se stesso
fino a una morte di croce…” (Fil 2, 6-9).

Impressiona questo antico inno ripreso da San Paolo, perché sembra di essere in una cengia di montagna e guardare giù nel burrone.

Così è il Dio di Gesù Cristo.

Ancora più vertiginosa è la considerazione che l’apostolo collega questo testo – precedentemente tramandato oralmente – non alla pagina principale della sua teologia più complessa, ma in un ambito di riflessioni affabili e di indicazioni quotidiane sui rapporti personali nella vita comunitaria.

In altre parole, sono le relazioni più quotidiane e concrete che ci portano sul bordo vertiginoso del Vangelo.

Vertiginosa è anche l’affermazione di Gesù: “I pubblicani e le prostitute vi passano davanti nel regno di Dio” (Mt 28,30). Il Maestro la dice in faccia ai sacerdoti e ai capi del popolo, dopo avere fatto un esempio del tutto comprensibile. Per tornare alla metafora precedente, è come se Gesù avesse accompagnato i suoi interlocutori attraverso un bel prato verde di montagna, scosceso, e poi svoltata la curva improvvisamente li avesse lasciati lì sopra una cengia degna dell’uscita dalla via ferrata Tommaselli sul Lagazuoi e avesse detto loro:

“Sperimentate l’abisso. Ma contemplate anche la vastità e la bellezza. Questo è il Vangelo di cui io sono profeta.”

Ma perché è così?

Perché proprio queste persone così compromesse ci sorpassano come una Formula 1 sul rettilineo, mentre noi, attoniti, guidiamo la nostra Panda?

Perché costoro sono sempre a contatto, volenti o nolenti, con l’amore spregiudicato e misericordioso di Dio.

Egli, pur essendo nella condizione divina, non considera nessuno indegno di sé, e si abbassa lui, salta nel vuoto pur di offrirgli vicinanza, consolazione, riscatto, condivisione, tenerezza, perdono e salvezza.

Questo fa la differenza. Dovremmo essere sempre consapevoli della bontà misericordiosa del Padre, che si manifesta in Gesù. Sempre sentire il suo amore. Sempre sapere che ci vuole bene e che apre per noi qualche possibilità. Mai pensare che ha chiuso con noi, o che ci considera distanti: lui addirittura scende dal Cielo e raggiunge il punto più basso della terra pur di trovarci e di stare vicino a noi.

Gesù conclude il suo insegnamento dicendo: “Avete viso queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti, così da credergli” (Mt 21,32).

Voglio trasformare quest’ultima considerazione in una preghiera per l’inizio dell’anno pastorale.

Per tutti i gruppi, per le persone che collaborano nella nostra comunità e per quelle che la incontreranno, anche attraverso di noi: che il Signore ci purifichi gli occhi, perché possiamo toccare con mano questo riconoscimento incondizionato e trasformante del Padre, che ci ama e del suo Figlio che ci si fa vicino. Sempre.

Don Davide