Un tesoro

Il regno dei cieli è simile a un tesoro.

tesoro

Ci sono due condizioni per apprezzare un tesoro: la prima è che sia una cosa oggettivamente di valore. La seconda che sia qualcosa di prezioso per chi lo incontra.

Alla prima condizione noi associamo, ad esempio, l’immagine di un forziere pieno di cose preziose, ritrovato in un’isola misteriosa. In questo caso, può darsi che i trovatori aprano lo scrigno e vedano brillare tante monete d’oro e che ne facciano bottino; oppure potrebbe accadere che in mezzo a una cassa piena di fango sia nascosto un diamante di inestimabile valore, e che si rischi di perderlo, ingannati dall’apparenza.

Con questo inizio del suo insegnamento, Gesù sembra rivolgerci quindi molto direttamente alcune domande:

◆Il “regno dei cieli”, ossia il desiderio di Dio è qualcosa che noi consideriamo prezioso?

◆Abbiamo cura di fare esperienza della dimensione spirituale e di approfondirla, come – ad esempio – abbiamo cura di stare in salute o di fare le cose che ci piacciono?

◆Abbiamo la saggezza di riconoscere che la spiritualità è una parte preziosa e indispensabile della nostra vita?

◆Se non abbiamo ancora fatto esperienza che l’incontro con Gesù è un tesoro per la nostra vita, abbiamo la pazienza di scavare un po’ e la disponibilità di accordare la fiducia a qualcuno che ci possa guidare?

Tante persone sono degli ottimi professionisti, lavorano tanto, si impegniamo nei loro doveri, ma il loro spirito è atrofizzato… non sono in sintonia con l’esistenza e con gli altri… sono svuotati di energie di amore e di bene.

Si chiedono come mai, nonostante tanto impegno, le cose non funzionino come dovrebbero. Rimpiangono di non avere tempo per apprezzare la vita, qualche spazio di riflessione e consapevolezza, più momenti da dedicare alle persone care.

In questi casi, i sensi di colpa cominciano ad affastellarsi uno sull’altro, e così il dispiacere, che facilmente si trasforma in risentimento spesso senza neanche capire il perché.

Il tema è sempre lo stesso: non c’è solo la sorgente biologica della nostra vita, ma anche altre… lo spirito è quella che le lega tutte. Se il nostro spirito si spegne… tutte le altre sono come una rete che pian piano perde le sue fibre, fino a spezzarsi.

Per questo Gesù insiste, nelle prime due parabole, sul fatto che quando si è trovato questo tesoro o questa perla, quando si è capito che è un tesoro, si deve fare di tutto per “possederlo”. Non si tratta di carpirlo, ma di non privarsi di questa risorsa.

Poi, nell’ultima parabola, Gesù ci incoraggia, ricordandoci che questa ricerca non avviene in condizioni ottimali, in una camera sterile dal male… Il regno dei cieli, ci dice, è come una rete in cui ci sono tanti pesci, buoni e cattivi. Viviamo la nostra tensione a Dio in un continuo destreggiarci tra altre tensioni meno buone, in un continuo esercizio di discernimento, in una continua preghiera di lasciarci scegliere da lui.

Ad un certo punto, mentre cerchiamo il tesoro di Dio, scopriamo di essere noi un tesoro per lui e che lui ha dato tutto – compreso il suo figlio – e continua a fare tutto, per averci con sé.

Don Davide




Come la pioggia e la neve

Siamo in piena estate e la liturgia della Parola, in questa domenica, inizia evocando la pioggia e la neve. Sembrano immagini lontane, ma proprio nei mesi più caldi e secchi dell’anno siamo aiutati a considerare la preziosità dell’acqua che disseta la terra e del ciclo delle stagioni.

La pioggia e la neve – dice il profeta Isaia – scendono dal cielo e irrigano e fecondano la terra, perché germogli, dia il seme e poi il raccolto. È una metafora stupenda e celebre, usata sempre per indicare l’efficacia della Parola di Dio, che non torna al cielo senza avere irrigato la vita di chi raggiunge.

Oggi, però, pensando all’estate, in questo paragone vorrei cogliere la dilazione del tempo. Tra l’autunno e l’inverno che preparano la terra irrigandola e la gioia del raccolto, passa un tempo lungo, di attesa, in cui l’agricoltore può curare un po’ il campo, ma non può operare più di tanto.

Mi sembra che nella pastorale delle nostre comunità, dovremmo riscoprire e coltivare il tempo lungo. La semina della parola – come ben manifesta la parabola evangelica, che pare esprimere un aspetto complementare a quello della prima lettura – è difficile. Nonostante l’abbondanza e la generosità del seminatore, che non è uno sprovveduto, c’è una difficoltà intrinseca in questa seminagione.

Lo dico in modo provocatorio, ma ho l’impressione che nel tempo che viviamo, invece, per evitare il rischio della dispersione dei semi e del periodo lungo per vedere il frutto, preferiamo fare come l’esperimento scientifico per eccellenza di tutti i bimbi, cioé mettere il semino in un bicchiere con un po’ di cotone, per vedere il germoglio e la piantina e dire: “Wow!”. I bimbi, giustamente, ne rimangono meravigliati, ma gli adulti sanno che non si raccoglierà nulla da quella piantina… ma è come se ci rassicurasse vedere qualcosa.

Lo si fa con il catechismo, in cui ci rassicura vedere i bimbi nei quattro anni del catechismo, ma sapendo che poi – sia per loro che per le loro famiglie – rimane ben poco di quella esperienza.

Lo si fa con i ragazzi e i giovani, con i quali usiamo quasi sempre il criterio del “così vengono”, ma alla fine non insegniamo loro a pregare, la vita spirituale, il valore dei sacramenti, di avere una guida. Fare queste cose “spirituali” è difficile: è impopolare, non interessano, ci vuole tempo… mi chiedo, però, se non siano proprio questi percorsi difficili a manifestare l’efficacia di cui parla il profeta Isaia. Quando questi ragazzi saranno diventati uomini e donne, che cosa li aiuterà?

Anche la carità corre lo stesso pericolo. Sembra che sia l’unica cosa che conti nella Chiesa, agli occhi del mondo: della fede cristiana non interessa più niente, anzi, non di rado si manifesta un certo fastidio, però la Chiesa che fa tanta carità piace a tutti: “Così dovrebbe essere!” si dice. Ma cosa sostiene la carità? Tutte le persone che animano in maniera non improvvisata, costante e con sapiente dedizione la carità, sono persone che sanno precisamente il motivo per cui lo fanno: per Gesù. Gli altri ci girano attorno, ma se non ci fossero i primi, l’immenso impianto della carità nella Chiesa semplicemente crollerebbe.

seminaAllora, cosa dobbiamo fare? La semina della Parola di Dio è difficile e, diciamolo senza mezzi termini, è fuori moda. Ma pare che Gesù non abbia escluso questa eventualità, citando il profeta Isaia.

“A chi ha sarà dato, e sarà nell’abbondanza, ma a colui che non ha sarà tolto anche quello che ha.” È una delle frasi più scandalose e irritanti del Vangelo, a fronte di un certo modo di pensare in termini di aurea mediocritas. Ma quello che vuole dire Gesù, parlando della Parola di Dio, è che la Parola è legata a un desiderio e la ricchezza cristiana a un’adesione. Chi rifiuta questo tesoro, si troverà sprovvisto e non ne rimarrà nulla. Chi invece lo cerca e vi si apre, a prezzo di fatica e pazientando nel tempo lungo, non avrà nemmeno bisogno di scoprirlo, ma sarà ricolmato di ricchezza.

Don Davide




Ogni cosa è illuminata

“Hai tenuto nascoste” afferma laconicamente Gesù, indicando un tratto misterioso di Dio Padre.

Queste cose nascoste sono impedite ai dotti e ai sapienti, ma sono rivelate ai piccoli. Non è una requisitoria contro lo studio o contro il desiderio di saggezza; né tantomeno la volontà di denigrare chi si impegna nella formazione: qui l’elemento chiave è il tema della piccolezza, dell’umiltà e della semplicità.

In questo ambito di un’adesione alla realtà senza sovrastrutture, con umile accoglienza e immediatezza, si rivelano le cose che altrimenti Dio tiene nascoste.

Domenica scorsa Gesù ci consegnava l’insegnamento di un bicchiere d’acqua offerto, che può cambiare le sorti di una vita e fare sperimentare la salvezza a chi offre e a chi riceve: una cosa piccolissima, che forse senza l’adesione alla realtà, sfuggirebbe alla nostra attenzione. Invece Dio rivela ai semplici la potenza di questo gesto.

In questo sguardo della semplicità posata sull’esistenza, ogni cosa è illuminata: la gratitudine, un sorriso, il gesto paziente e quotidiano che fra molti anni produrrà un grande risultato, come studiare qualche pagina di un libro difficile, che un giorno si trasformerà in una laurea e, molto di più, in una competenza; o il solfeggio degli studenti di musica, pratica noiosa che prelude alla composizione di una sinfonia.

Ogni cosa è illuminata, come un genitore che cambia il pannolino a un bimbo piccolo e – alla fine – avrà donato la vita a una persona; o l’impegno di un* giovan* a modificare in meglio il proprio temperamento, che un giorno produrrà una cultura di pace.

In una foto artistica, quando la luce è quella giusta, anche le cose che rimangono nell’ombra appaiono rilevanti. Parlandoci di Dio Padre come fa nel vangelo, Gesù sembra tratteggiarlo come un maestro fotografo, che usa l’esposizione perfetta, perché ogni cosa sia illuminata, e anche quelle nascoste siano nella giusta luce.

Così facendo, innanzitutto, Dio ci fa apprezzare la profondità del reale, come appunto in una splendida fotografia, e ci fa ammirare le sfumature senza stancarci.

Ma soprattutto, stimola la nostra curiosità, perché rimaniamo con le domande che ci fanno cercare e vivere:

-Che cosa è essenziale?

-Qual è il segreto nascosto che posso scoprire?

-Come posso guardare la mia vita, per vedere che ogni cosa è illuminata?

Nella prima lettura, il profeta preannuncia come l’incontro con il Messia sarà anche frutto di questo sguardo.

Nella seconda lettura, l’apostolo Paolo ci spiega che così la vita spirituale assume una forma concreta e viene sottratta a quell’interpretazione “spiritualistica” che spesso la squalifica.

Può accadere, quindi, che educarci continuamente ad aderire alla realtà con cuore semplice e umile ci aiuti a fare esperienza di Gesù e a seguire un sentiero spirituale che si dipana man mano che si rivela.

In una giornata di pieno sole in estate, saremo sicuramente aiutati a vedere che ogni cosa è illuminata.

Don Davide




Molti posti

Nella “casa del Padre” – dice Gesù – c’è un sacco di posto, che bello! Lì non ci sarà distanziamento fisico che tenga: ci staremo tutti, senza problemi! Ma… poi… ci sarà il “fisico” in cielo? A quanto pare sì, un fisico trasfigurato, ma reale: quello di Gesù che, risorto, mangiava con i suoi discepoli sulle sponde del lago.

StadioLo hanno chiamato (lo abbiamo tutti chiamato) “distanziamento sociale” e anche solo questa piccola nota dovrebbe renderci avveduti della crisi in cui siamo sprofondati! Macché distanziamento sociale! Il distanziamento è stato solo fisico e guai a chi vorrebbe latentemente proporre – quasi come un messaggio subliminale – la frammentazione della società. Il nome più antico del Diavolo, ci insegna Gesù, è Divisore e Menzognero.

Nella “casa del Padre” niente distanza, di nessun tipo! Anzi, dove è Gesù, lì saremo anche noi, come se ci tenesse in braccio, come sue pecorelle.

In questi giorni, questa consapevolezza è la base su cui risuona l’invito di Gesù a “non essere turbati”. Ce ne sarebbero parecchie di ragioni per essere turbati, almeno per me: in primis l’idea di tornare a celebrare la messa, che è fatta di carne e di sangue, in una distanza fisica forzata.

Ma voglio dare credito alla parola di Gesù, non voglio che il mio cuore sia turbato. Desidero avere fede in Dio e fiducia in Gesù, che “nella casa del Padre” c’è posto e la possibilità di essere vicini per tutti. E so che la “casa del Padre” non sarà solo il Cielo, il Paradiso, ma è già oggi quell’edificio spirituale costruito dai legami d’affetto, dalla comunione di intenti, dalla stessa partecipazione alle fatiche di tanti fratelli e sorelle nella fede e non solo, di tanti uomini e donne di buona volontà.

Non sappiamo davvero quale sia la strada: non lo sappiamo per la nostra pastorale, non lo sappiamo riguardo al convivere sociale, non lo sappiamo ancora negli aspetti sanitari.

Il Vangelo ancora una volta ci conferma che non è un problema drammatico essere disorientati e non individuare la meta lontana. Possiamo pensare a Gesù, guardare il suo volto, fare riferimento a lui. Possiamo chiederci: cosa farebbe Gesù qui al mio posto? Quale passo muoverebbe lui, in questo cammino così urgente che devo percorrere? Che scelta percorrerebbe lui, con la sua mitezza, il suo amore, la sua saggezza?

Dobbiamo ancorarci con una certa dose di umiltà e di immediatezza alla sua parola, proprio alla parola di Gesù viva che risuona in quella scritta del Vangelo ed è per questo che vorrei, nei prossimi mesi, suscitare dei piccoli gruppi informali che si trovino a leggere il vangelo per qualche minuto, nei cortili della parrocchia o delle case, per lasciarci guidare da lui. Torneremo su questa possibilità.

Ora, desidero consegnarvi queste righe bellissime, scritte da San Giovanni Crisostomo, che mettendo insieme la certezza di essere chiesa anche “in pochi”, l’unione spirituale che varca i numeri esigui a cui siamo costretti, il tesoro della Parola di Dio e –

– la presenza accanto a noi del Risorto, compendia tutti i motivi per cui non dobbiamo davvero lasciarci turbare:

“Non senti il Signore che dice: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro»? (Mt 18, 20). E non sarà presente là dove si trova un popolo così numeroso, unito dai vincoli della carità? Mi appoggio forse sulle mie forze? No, perché ho il suo pegno, ho con me la sua parola: questa è il mio bastone, la mia sicurezza, il mio porto tranquillo. Anche se tutto il mondo è sconvolto, ho tra le mani la sua Scrittura, leggo la sua parola. Essa è la mia sicurezza e la mia difesa. Egli dice: «Io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20)”.

Don Davide




Rinascere dell’alto

“Ripartire” o “essere rigenerati”?

Si parla ovunque di “ripartenza” dopo i mesi di chiusura totale a causa della fase acuta della pandemia. All’inizio dell’emergenza sanitaria, nel silenzio surreale delle città e con ritmi improvvisamente lentissimi (eccetto che per il personale sanitario e tutti coloro che tenevano aperte le attività emergenziali), si vagheggiava un “ritorno” diverso, più umano, più rispettoso degli affetti, di uno stile di vita sano e della natura. Si facevano propositi e proclami e si esprimeva il desiderio che questa esperienza, nonostante il dramma e attraverso esso, ci cambiasse.

Ora, vicino al traguardo, prevale solo la frenesia della ripartenza. Comprensibilmente, per la grave situazione lavorativa ed economica che il fermo ha comportato. Nonostante siano apparsi lunghissimi, tre mesi sono troppo pochi per permettere un reale ripensamento e una riorganizzazione dei nostri stili di vita. Pare che il mondo “economico” difficilmente possa fare diverso.

Questo linguaggio della “ripartenza” circola anche a livello ecclesiale: si riparte con le messe e ci si organizza per ripartire come si può con qualche attività pastorale. Una tale assunzione acritica manifesta il rischio dell’appiattimento della Chiesa sulla dimensione secolarizzata dell’esistenza. Sembra che il nostro problema sia quello di un certo attivismo, la preoccupazione di fare, spesso ammantata dalle migliori intenzioni, ma come un soggetto tra gli altri nel palcoscenico del mondo.

Ma come è possibile immaginare di “ripartire” dopo tre mesi che non celebriamo la messa con il popolo, e che abbiamo saltato le celebrazioni di Pasqua, come se potessimo riprendere semplicemente dal punto in cui eravamo rimasti?

La liturgia del tempo di Pasqua insiste su un altro tipo di linguaggio: quello di “rinascere dall’alto” nel famoso dialogo di Nicodemo, autorevole membro del sinedrio, e Gesù (Gv 3,1-21). Il colloquio avviene “di notte” (Gv 3,2), che è un simbolo eloquente della pandemia. Durante questa notte, Gesù dice senza mezzi termini che bisogna “rinascere dall’alto” (Gv 3,3), essere rigenerati dalla riscoperta di un’esistenza cristiana autentica. Quest’esperienza spirituale è l’unica che può dare una chiave di lettura non secolarizzata, non appiattita sulle dinamiche mondane e non preoccupata di scimmiottare la frenesia del fare.

Gesù afferma che chi vive nella disponibilità a farsi rigenerare spiritualmente viene verso la luce, come se ritornasse in superficie dopo essere sprofondato nelle acque della notte, e in questo modo le sue opere saranno luminose, piene di senso ed efficaci.

Certo, dobbiamo ripartire, ma soprattutto con la docilità di farci rigenerare dallo Spirito. Perché l’esperienza che tutti abbiamo vissuto è stata troppo assurda e dolorosa per non capire che non basta la buona volontà umana, ma che abbiamo bisogno di rinascere dall’alto. Senza questo, la nostra ripartenza sarebbe troppo ferita e claudicante. Se invece accogliamo il dono di Dio, allora potremo vivere da risorti, trasfigurati come Gesù le cui ferite restano, ma non fanno più male.

Don Davide




Il ridicolo sasso e la tenda leggera

Abbiamo talmente impressa nella mente l’immagine del sepolcro aperto, che ci immaginiamo sempre le donne sorprese di fronte a questo segno, all’alba del mattino di Pasqua.

La nostra logica, quindi, funziona spontaneamente pensando a questa sequenza: Gesù risorge e apre il sepolcro per uscire.

Ma non è così.

Matteo, a differenza degli altri tre evangelisti, racconta che quando le donne arrivarono, il sepolcro era ancora chiuso. Solo quando loro si trovano lì davanti un angelo disceso dal cielo rotola via la pietra e vi siede sopra, in segno di trionfo su quel misero ostacolo e quasi di scherno.

FiestraGesù, evidentemente, è già risorto e non poteva essere certo un ridicolo sasso a trattenerlo nel sepolcro, lui che aveva già superato il limite più grande di tutti. La morte, per lui, è poco più di una tenda leggera, che si scosta con un lieve movimento del braccio, e non c’è parete di roccia o altro muro o rifiuto che possa contenere la sua resurrezione, la possibilità che lui ci incontri, dove vuole e quando vuole.

L’unica certezza è che Gesù non è nella morte, tantomeno – figuriamoci – nel sepolcro! Così dice l’angelo: c’è da incontrarlo; noi lo desideriamo e lui salta gli ostacoli e colma le distanze (Mt 28,6-7). Il suo potere non è incatenato.

Davvero, come abbiamo testimoniato più volte, in questi giorni, nulla resiste / a questo vincitore: / egli passa / a porte chiuse / dall’altra parte del muro.

Così, anche se il nostro cuore fosse di pietra, egli salta la dura crosta per toccare la parte morbida: è l’unico capace di farlo. Anche se ci sentiamo peccatori, e abbiamo imparato fin da piccoli che il nostro peccato è un freno all’appuntamento con Dio, scopriamo oggi che questo è vero per noi, ma non per lui. Il giorno di Pasqua ci fa una sorpresa e, con i suoi angeli, ride delle separazioni che dovrebbero impedirgli di farci sentire il suo amore.

Anche se siamo dispiaciuti per tutto quello che ci è mancato in questi giorni, o pieni di paure, Gesù ci viene incontro e ci dice: “Ciao!” (Mt 28,9) come nulla fosse.

Non svilisce le nostre fatiche, ma le rassicura con un saluto.

Dev’essere stata questa l’esperienza di Pietro sulle sponde del Lago di Tiberiade o di Saulo sulla via di Damasco, quando il Risorto li ha incontrati, perdonati e chiamati. Il tradimento, il rifiuto, la distanza… ostacoli che apparivano invalicabili si sono polverizzati di fronte alla forza della sua presenza, sciolti come neve al sole del suo interesse per i discepoli.

Forse è stato pensando a questa esperienza del Risorto, che Paolo – divenuto apostolo – ha potuto scrivere quelle parole magnifiche della lettera ai Romani: “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” (Rm 8,35). Vi consiglio di andare a leggere come prosegue…

Così, siamo rincuorati e consolati. Sappiamo che non sarà nemmeno una pandemia a impedire la nostra esperienza di fede e l’incontro con il Risorto. Lui ci è accanto, in tutti i nostri sforzi a favore della vita.

Sappiamo che si varcherà anche questo ostacolo. E che, nonostante le ferite e attraverso i lutti, torneremo a impegnarci nella nostra responsabilità verso la storia, peccatori perdonati, cuori inteneriti, paurosi divenuti intrepidi, sconsolati entusiasti e discepoli mesti resi felici.

Don Davide




Noi e Gesù

Il nostro vescovo Matteo ha spiegato che le palme e i rami d’ulivo erano le cose più a portata di mano che le folle avevano da sventolare per fare festa e dare onore a Gesù. Non avevano un significato religioso di per sé, anche se poi è rimasta fino ad oggi l’efficacia e la potenza di quei simboli.

Quest’anno non possiamo ripetere la gioiosa processione delle Palme e, per ragioni connesse alle limitazioni di tutte le attività, non abbiamo nemmeno i rami d’ulivo da distribuire.

Pensando che Gesù entra nelle nostre case, come entra a Gerusalemme nell’imminenza delle celebrazioni pasquali, per invitarci a fare Pasqua con lui, voglio figurarmi come lo accoglieremmo noi, oggi, non potendo preparare niente di meglio che quello che abbiamo immediatamente a disposizione.

Immagino che Gesù passi attraversando le nostre case, come se percorresse ad esempio una delle nostre strade, e noi tutti alla finestra per fargli festa. Penso che i bimbi terrebbero in mano un loro pupazzo, e le bimbe una bambola di pezza, quella inseparabile. I più grandini forse si presenterebbero con il pallone da basket in mano o con il nastro della ginnastica ritmica che viene fatto volteggiare, o con la maglietta della propria squadra di calcio preferita. Qualcuno suonerebbe con la chitarra sul balcone della finestra, qualcun altro scatterebbe foto, mi figuro qualche anziana signora che getterebbe fiori al passaggio.

Sono gli oggetti della nostra vita. Su consiglio del Vescovo, usiamo quelli per accogliere una benedizione nella nostra casa e per ricordarci che dobbiamo a tutti i costi celebrare la speranza pasquale.

In questa domenica, nella liturgia, si pone l’accento sulla morte di Gesù e si legge il racconto della sua Passione. In questa narrazione l’evangelista Matteo sembra dirci che si sprofonda in un’esperienza terribile, senza alcuna attenuazione.

Dal momento in cui Gesù è consapevole che un traditore siede alla sua mensa, ne svela la presenza e pare che tutti siano incapaci di reagire, ogni passaggio è segnato da una durezza sempre maggiore. I migliori amici si addormentano nel momento più drammatico di Gesù. Il traditore, lasciato libero di agire, lo consegna con un bacio. Tutti i discepoli scappano, lasciando Gesù solo. I sacerdoti e gli anziani del popolo mentono, sapendo di mentire, e in un crescendo terribile, prima loro, poi Pilato, infine i soldati sfogano su di lui una violenza gratuita.

C’è un passaggio micidiale, in cui persino gli astanti, pii Israeliti, citano un salmo che hanno sicuramente pregato migliaia di volte, sovvertendone completamente il significato. Il salmo è il 22; nella preghiera, il pio israelita ricorda che nel momento del bisogno i malvagi – i nemici – si fanno beffe di lui dicendo: “Si è affidato al Signore, lo liberi se gli vuole bene!”. Quanti abitanti di Gerusalemme avranno trovato conforto, nelle fatiche e nelle delusioni dei loro giorni, in quel salmo! Eppure, vedendo Gesù lo citano come uno sfottò. “E’ proprio come dice il salmo: Si è affidato a Dio, lo liberi lui se gli vuole bene!”. Così, quelli che avevano usato quella preghiera per consolarsi e per affermare la vicinanza del Dio di Israele, lo citano come se legittimasse l’oppressione dell’umile, la presa in giro, e negando l’esistenza del loro Dio! E senza rendersene conto!

Infine, Gesù crocifisso rifiuta la bevanda drogante, per non essere stordito e affrontare tutto il dolore lucidamente. Nel racconto di Matteo (come in quello di Marco) non c’è nessun ladro convertito ad addolcire la scena. Il secondo grido di Gesù, quello che per pudore l’evangelista non ci fa risentire, esprime il dramma dell’abbandono.

Eppure, in tutta questa durezza, leggendo, non si ha l’impressione che il cuore si irrigidisca, ma che si apra. Paradossalmente, sentiamo crescere la tenerezza. Alle domande che sorgono: “Chi è costui che spezza il pane con chi lo tradisce?”; “Chi è costui che accetta che nessuno slancio resista?”; “Chi è costui che è solo, offeso e picchiato e rimane pieno di dignità?” le risposte sfuggono, ma il nostro sguardo si focalizza sul protagonista, su Gesù.

Sentiamo che è lo Spirito che ci parla dell’amore di Dio per lui; è qualcosa di molto più misterioso e vero di quello che noi possiamo semplicemente percepire o afferrare. Veniamo persuasi, senza sapere come, che il salmo si avvererà, che Dio lo libererà, perché gli vuole bene e che libererà anche noi, da tutte le nostre schiavitù, meschinità e durezze, se gli vogliamo bene.

Don Davide




Egli passa

La Pasqua di Gesù e la nostra

Niente resiste a questo vincitore.
Egli passa
a porte chiuse dall’altra parte del muro.

(Paul Claudel, La notte di Pasqua)

Questo verso folgorante di Paul Claudel fa esplicito riferimento alla scena di Gesù che, la sera della resurrezione e otto giorni dopo, visita i suoi discepoli entrando nella stanza a porte chiuse – il testo evangelico lo dice per due volte (Gv 20,19.26) – e si colloca proprio “nel mezzo”.

Gesù risorto non è ostacolato dal fatto che siano chiuse le nostre case, che siano chiuse le nostre attività, che siano chiuse le nostre chiese. Lui passa attraverso i muri e si fa trovare proprio al centro, dove conta e dove possiamo incontrarlo: in mezzo alle nostre famiglie, in mezzo alle nostre vite, perché possiamo celebrare la Pasqua.

Anche se le regole devono sigillare le porte, la pietra del sepolcro rotolerà. La morte sarà sconfitta.

È molto importante ricordare che Pasqua in ebraico significa passaggio e quindi questi versi del poeta possono essere interpretati anche con questo significato: “Egli fa Pasqua a porte chiuse…”

Nonostante il dispiacere di non potere celebrare insieme, dobbiamo riconoscere che non siamo noi a dovere garantire che si avveri la resurrezione. Non dobbiamo preoccuparci troppo di questo. È lui che passa. È lui che fa la Pasqua insieme con noi.

E il primo saluto che ci porta, ancora seguendo il vangelo di Giovanni è: “Pace a voi!” (Gv 20,19), affinché almeno attraversando questa notte, almeno in questo giorno, i nostri cuori non siano turbati.

E la seconda cosa che ci consegna è il mandato di riconciliare e di perdonare, di fare sentire a tutti la tenerezza di Dio.

E il terzo effetto che vuole operare in noi è l’esperienza di questa resurrezione, anche se rimpiangiamo di non essere stati lì a vederlo e toccarlo, ma con Tommaso possiamo dire: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28).

Si tratta, dunque, di accettare di incontrarlo o nelle nostre case, o personalmente. Possiamo richiamare la dimensione domestica delle prime celebrazioni della Pasqua, sia della Pasqua ebraica, che si ritualizzava con la propria famiglia, sia della Pasqua cristiana, che si viveva nelle case dei primi cristiani.

 




Vedere la gloria di Dio

Ci sei o non ci sei? 

La grande domanda che guida il racconto della resurrezione di Lazzaro – il Vangelo di questa V Domenica di Quaresima – la domanda identica che esprimono sia Marta che Maria è legata all’assenza di Gesù, che ci fa sentire soli, o alla sua presenza, che ci custodisce: Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”. 

Ci sei, Gesù, nella mia vita di credente? 

Ci sei, quando mi sento solo e affaticato? 

Ci sei in mezzo a questa epidemia, per curare le persone che muoiono o non ci sei? 

A differenza del famoso racconto di Gesù nella casa di Marta e Maria, qui scopriamo che è Marta ad avere una fede più grande, è radicata nel rapporto con Gesù, dialoga con lui e raggiunge una delle più grandi professioni di fede che si possano immaginare, forse la più grande di tutto il vangelo: “Io credo che tu sei il Messia, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo!”. Dire di più di così, non si può. 

Questa sua professione di fede, però, non chiude il discorso. Al contrario, coinvolge il cammino di tutti, il cammino dei singoli, il cammino dell’esperienza di un popolo, e il cammino di una comunità. 

Marta va a chiamare sua sorella, la interpella, le lascia spazio, accetta che anche lei compia un cammino e faccia i suoi passi, favorisce il suo incontro. 

“Il Maestro è qui, e ti chiama!” 

Il Maestro è qui, c’è eccome. Entra in tutte le situazioni, non fa venire meno la sua presenza. Sa che Lazzaro è morto. Si è accorto che c’è tanta sofferenza e difficoltà. E chiama te!  

Questo è il momento di incontrarlo. 

Questo è il momento di una vocazione. 

È stupendo che Gesù non consumi l’incontro come un fuoco con la stoppia. Lui aspetta la sua amica fuori dal villaggio. Le concede il tempo di un piccolo cammino, di uscire da se stessa, di pensare quello che lei vuole dirgli. 

Maria è più in difficoltà di Marta. Forse è arrabbiata con Gesù, si ferma all’obiezione, non ha altre parole. Dice solo: “Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto.” Non aggiunge nessuna professione di fede, anche se già questo lamento agli occhi di Dio è una supplica piena di amore e di fiducia. 

E piange. 

Maria è in crisi, ha bisogno di attraversare  il dolore e la commozione insieme a Gesù. E Gesù piange con lei. E di fronte a questa scena di dolore così intensa, tutti piangono. Gli abitanti di Betania sono scettici: “Costui che ha ridato la vista al cieco, non poteva fare sì che il suo amico Lazzaro non morisse?”. 

Anche Marta, che pure aveva fatto quella professione di fede grandiosa, vacilla, ed è sopraffatta dal dolore. Pensa che in fondo, nemmeno Gesù lo possa affrontare davvero. “Signore è già tardi… in realtà le nostre speranze sono svanite. Rimane solo l’amicizia, l’affetto, il conforto umano.” 

Qui Gesù tiene il punto: “Non ti ho detto che se crederai, vedrai la gloria di Dio?” 

La gloria di Dio, per gli ebrei, non è qualcosa di spirituale, di astratto. Al contrario è un’esperienza molto concretauna presenza ingombrante. Il segno tipico della gloria di Dio era il fumo denso che riempiva la tenda del santuario di Dio, al punto che nessuno, quando la Gloria era sulla tenda, poteva entrare o uscire.   

Qual è dunque, quest’esperienza così concreta e decisiva? È la fede di un singolo e di una comunità che viene suscitata nei nostri giorni fragili, e il fatto di condividere la lotta contro la morte di un intero popolo. 

Attenzione perché qui si rischia il più grande fraintendimento alla storia di Lazzaro. Il messaggio non è la sua rivitalizzazione, perché di fronte a quella, noi pensiamo subito all’illusione di non morire mai, e diciamo: “Eh, ma i nostri morti non li fai rivivere!”. Il punto decisivo, per noi, è che possiamo credere in Gesù, come singoli e come popolo, e avere una nuova esperienza di vita solo affrontando e attraversando la questione della morte. 

Soltanto in questa luce trova senso la decisione apparentemente assurda e macabra di Gesù di tardare la visita a Betania, per poi andare dopo a resuscitare Lazzaro. Gesù vuole che non esorcizziamo la morte, ma che la consideriamo nella nostra vita, compiendo il cammino della fede e tenendo ferma la speranza.  

Ve lo immaginate Lazzaro, fuori dal sepolcro? Gesù gli dice, vieni fuori, ma doveva essere ben difficile camminare mummificato! 

Allo stesso modo, guidati dalla fede e chiamati dalla speranza, anche noi compiamo piccoli passi, legati, incerti, in equilibrio precario, e veniamo sciolti dalle bende della morte che ci avvolge e vorrebbe impedirci di andare. 

Ieri un amico mi ha scritto: “Io posso anche morire domani, se ho imparato ad amare.” 

Cos’è che rende piena improvvisamente la mia vita con un atto d’amore? 

Questo è il punto cruciale del racconto della resurrezione di Lazzaro: ed è bellissimo vedere come inizia da una professione di fede, incontra una fede in difficoltà, attraversa il dolore e la compassione, suscita la fede di una comunità intera. 

Forse, una testimonianza resa così, sarà la vera nuova evangelizzazione della Chiesa. 

Don Davide

Nebbia




La festa “giusta”

C’è qualcosa di profondamente giusto nel celebrare il Natale.  

Giuseppe riconosce che accogliere la gravidanza di Maria era la cosa giusta da fare. I pastori capiscono quanto fosse giusto rispondere all’invito degli angeli e quel segno loro dato. I Magi, infine, imparano senza ombra di dubbio che è Betlemme la città giusta. 

L’unica cosa sbagliata sembra il momento: lontano da casa, in condizioni precarie. Eppure, nel racconto non abbiamo davvero la percezione che sia così… 

A ben vedere, non poteva che essere a Betlemme, secondo i profeti. E anche quella tanto bistrattata mangiatoia – “perché non c’era posto per loro nell’alloggio” (Lc 2,7) – sembra piuttosto un tentativo di dare a tutti i costi un riparo, e un aiuto, a quella coppia. 

Infatti, il racconto descrive la scena senza tensione: “Diede alla luce il suo figlio primogenito” (Lc 2,6). 

Quando il Natale sboccia per noi possiamo abbandonarci fiduciosi alla provvidenza che porta; abbiamo sempre la convinzione di non esserci preparati abbastanza, che sia arrivato troppo in fretta, senza che ce ne rendessimo conto, ma in realtà… non importa. 

Ciò che conta è che possiamo percepire che la festa del Natale è una cosa giusta e buona che il Signore compie per noi: che ci regala un momento di intimità, un sussulto di sensibilità, un attimo di pace con noi stessi, una gioia in famiglia, uno scambio d’amore, un accenno di speranza. 

Non importa se e quanto piccoli siano queste esperienze. Se siano assediate da avversità o da tristezze, se appaiano inopportune. Gesù si rende presente e ritiene che sia giusto che tutta la gioia possibile di questo momento ti sia donata.  

Lo sai che non sei escluso dalla festaMa prova anche a capire cosa significa profondamente: la bontà di Dio ti riguarda. Il Signore ha acceso questa luce per te e non verrà offuscata dal buio.