Resurrezione per la vita

Gesù parla nel tempio di Gerusalemme. È la punta e il riassunto del suo magistero. Davvero Gesù è il volto delle nozze tra Dio e l’umanità, è lui stesso lo sposo e il dibattito tra sadducei e farisei circa la risurrezione dei morti diventa occasione della rivelazione della vita nuova in Dio. I figli di Dio “sono figli della risurrezione” perché vivono in comunione con il Signore che “non è Dio dei morti, ma dei viventi”. Nella pagina di questa domenica non si parla di matrimonio fecondo, ma del matrimonio immagine della comunione tra Dio e noi e la fede nella resurrezione è essenziale perché, se non ci fosse, non si sarebbe neppure il discorso di Dio. La risurrezione non è solo la nostra sorte dopo la morte, ma la condizione nuova di vita, di figli della risurrezione. Nati dalla risurrezione di Cristo, già viviamo la vita eterna perché vita con Dio.

Il livello dell’argomento dei sadducei, che vorrebbero mettere in difficoltà Gesù con una parabola ironica (la donna andata in sposa sette volte), è molto basso, erede di una cultura che ben lontana dal concetto cristiano di matrimonio, dove l’uomo e la donna si donano reciprocamente e fino in fondo e nessuno “possiede” l’altro, ma ognuno si “offre” all’altro. Per i sadducei – e tutti a quel tempo – il dominio è del maschio e la passività è della donna.

Non è facile lasciarsi incontrare dal Signore; molti sono gli inciampi. Nel Vangelo di oggi il Signore ci rassicura che neppure il “nemico” assoluto, la morte, sarà di ostacolo alla nostra unione con lui che, proprio nell’immagine data dai sadducei, prende faccia di sposalizio. Gesù mostra anche l’incredibile profondità dell’amore che unisce l’uomo e la donna – non il dominio e la sottomissione – segno misterioso ma credibile dell’Amore e del mistero stesso di Dio.

(d. Angelo Sceppacerca)




Il cuore incandescente di Dio

La scena del vangelo di oggi è di quelle che ci invitano a vedere oltre: Gesù accoglie immediatamente la supplica di dieci lebbrosi e li esorta a presentarsi dal sacerdote, come prescrivevano la Legge e le usanze sociali. Essendo la lebbra una malattia che aveva influenza nel campo della purità cultuale, infatti, solo il sacerdote poteva attestare i casi di guarigione e riammettere la persona guarita nella società (altrimenti i lebbrosi dovevano stare in disparte) e al culto (da cui i lebbrosi erano esclusi).

Invitando ad andare dal sacerdote, quindi, Gesù chiede agli ammalati di fare un duplice atto di fede: il primo, nella sua parola che ha il potere di guarirli; il secondo, nel fatto che anche se non c’è stato ancora alcun segno, mentre andranno dal sacerdote, la guarigione avverrà. Potrebbero essere ingannati, potrebbero pensare che è una scusa di Gesù per toglierseli dai piedi, invece devono fidarsi. Prontamente, mentre sono in cammino, vengono guariti.

A quel punto, solo uno abbandona la preoccupazione di farsi dichiarare guarito, per tornare indietro a ringraziare Gesù. Non è che i nove restanti abbiano fatto una cosa brutta: hanno messo in pratica l’indicazione di Gesù; la certificazione del sacerdote era indispensabile e dobbiamo pensare a quale dovesse essere il loro entusiasmo, di vedersi guariti e potere finalmente tornare alla vita normale.

Perché Gesù allora sembra così severo?

Le sue parole ci invitano a scrutare ciò che è più prezioso della vita stessa, in quanto ne è la vera sorgente, ciò che ci rende uomini e donne “spirituali” e non solo uomini e donne “animali”: ossia la capacità di riconoscere che la vita è un regalo e possiamo esserne grati. Nel momento in cui percepiamo che qualcosa ci è stato donato, sentiamo vividamente cos’è l’amore. È un amore che guarisce, che sana, che rigenera, ancora prima della salute, del benessere e delle nostre relazioni sociali. Forse possiamo capire meglio di cosa si tratti con un esempio.

Possiamo considerare tutti quei casi in cui la vita “esteriore” sembra sfortunata: problemi di lavoro, relazioni faticose, fallimenti… Siamo tutti talmente presi dall’ansia dell’autorealizzazione (che sembra diventata la nuova parola d’ordine del nostro mondo) da pensare che una vita non “realizzata” secondo i nostri canoni valga di meno. No! Siamo noi uomini che facciamo questa deduzione. Se invece fossimo capaci tenere fermo che l’amore di Gesù non viene meno, e con esso la nostra dignità di figli di Dio, probabilmente genereremmo meno sofferenze, e noi stessi vivremmo più fiduciosamente e sereni.

Mi capita spesso, quando vado a benedire, che le persone mi dicano: “Speriamo che il Signore mi dia un po’ di salute, perché quando c’è la salute c’è tutto!”. Capisco il discorso, ma nell’intimo mi ribello. Perché non è vero: ci sono persone straordinarie, che non godono affatto di buona salute (e neanche di una salute mediocre, a dirla tutta) e persone meschine come poche che sono in perfetta forma fisica. San Paolo scrive una frase folgorante nella Seconda lettera ai Corinzi: «Siamo afflitti, ma sempre lieti; poveri, facciamo ricchi molti; gente senza nulla e invece possediamo tutto, il Signore del cielo e della terra» (2Cor 6,10). Questo è esattamente il senso del Vangelo di oggi: c’è qualcosa di più profondo che caratterizza la nostra esistenza, ed è la consapevolezza dell’amore creativo e rigenerativo di Dio Padre, che si manifesta in Gesù.

C’è da aspettarsi che l’unico che vivrà davvero bene la sua condizione di uomo guarito e rigenerato sia colui che è tornato da Gesù, mentre quegli altri saranno “solo” in salute, senza avere afferrato il segreto della vita.

Oggi la nostra comunità affida il “Mandato” a tutti i catechisti, gli educatori e i responsabili delle attività pastorali della parrocchia. Non c’è altro augurio che possiamo fare di questo: che siano guide capaci di fare vedere oltre, di posare lo sguardo nel cuore incandescente di Dio, dove arde il dono della vita e splende l’amore concreto di Gesù per noi.

Don Davide




Fede o non fede? Questo è il problema

«La fede ci fa essere credenti, la speranza ci fa essere credibili, ma è solo la carità che ci fa essere creduti».

Purtroppo, questa bella sentenza non è mia. L’ho sentita dalla testimonianza dei ragazzi di Castenaso, sabato scorso, durante la consacrazione della loro nuova chiesa, e ho notato con gusto che aveva colpito tutti. La sfrutto, in occasione di questa riflessione domenicale, perché mi sembra una buona sintesi delle letture della liturgia.

Al centro del vangelo c’è la questione della fede. I discepoli chiedono a Gesù di averne un po’ di più, ma lui corregge la loro domanda, ricordando che la fede non è una questione di misura. La fede o c’è o non c’è. Tanto che ne basterebbe la “misura” più piccola che l’occhio nudo riesce a vedere, per vedere la potenza della fede stessa. Invece noi diciamo sempre: “Mi fido, ma non abbastanza”… “Ci credo, ma mi comporto come se non ci credessi fino in fondo”… “So che il Signore è vicino, ma penso che tutto dipenda da me”… Dobbiamo ammetterlo: in questi casi, in realtà, la fede non c’è, perché la fede è un’esperienza sintetica della nostra esistenza, e non può essere vissuta se non integralmente. Diverso è il caso del dubbio, che sta sul piano del razionale, e certo può toccare anche qualche nostra paura. Però io posso avere qualche dubbio, e allo stesso tempo consegnarmi con fiducia, quasi facendo una scommessa.

Nella stupenda prima lettura del profeta Abacuc, invece, siamo incoraggiati ad avere speranza: «E’ una visione che attesta un termine, se indugia attendila…» e subito prima: «Scrivila bene e incidila sulle tavolette…». Il profeta vede l’intervento del Signore a sollevare una condizione difficile come imminente. L’atteggiamento di chi non dispera, di chi guarda al futuro con serena fiducia e con abnegazione per il suo lavoro, è la condizione necessaria perché qualcuno possa cogliere un segno significativo a partire dalla nostra testimonianza.

Infine, la seconda lettura ci ricorda di ravvivare il dono che ci è stato dato, quel dono che caratterizza e orienta la nostra vocazione. Il primo di questi doni è lo Spirito Santo ricevuto nel Battesimo; poi ogni persona sposata e ogni persona che ha dato un orientamento definitivo alla propria vita ha ricevuto questo dono. Per “carità” si intende questo: vivere con amore e con determinazione la nostra chiamata particolare. Non abbiamo ricevuto uno spirito di timidezza, ma di forza! Questo dono lo custodiamo soprattutto donandolo agli altri, mettendolo in circolo e trasmettendolo ai più piccoli, perché davvero se la fede non può non esserci, e la speranza sostiene il nostro sguardo fiducioso al futuro, è solo la carità che condensa il senso della nostra esistenza.

Don Davide




Troppo facile fare i profeti “low cost”….

Le letture di oggi feriscono e non sono per nulla politicamente corrette o rassicuranti. Colpisce la serietà con cui Gesù ci chiede di guardare alla disuguaglianza presente nel mondo, con immagini vivide e alquanto realistiche. Le attenzioni riguardo alle povertà e ai bisogni a cui ci richiamano il papa e il nostro vescovo, che appaiono belle e incoraggianti, e danno un po’ di lustro all’immagine della chiesa, in realtà chiedono una conversione profondissima da parte di ciascuno di noi. Sarebbe troppo facile fare i profeti low cost amplificando le accuse di Amos o mettendoci nella schiera di quelli che non avrebbero mai fatto come il ricco epulone con il povero Lazzaro, ma purtroppo so che non sarebbe autentico. Sento un profondo bisogno di colmare una distanza che è presente prima di tutto in me, una vera esigenza di conversione. Bello che i nostri pastori ci richiamino, ma poi ci tocca fare sul serio!

Invece che dire: “Ecco! È giusto quello che dice Amos, o che dice Gesù! Il mondo è brutto e cattivo! Voi siete brutti e cattivi!”, provo a chiedermi: e chi sarebbe “il mondo”? E chi è rappresentato in quel “voi”? Non sarà che invece il Signore chiede in primo luogo al suo popolo di ascoltare il richiamo presente nelle letture di oggi? Troppo facile dire: “noi che siamo la chiesa, noi che siamo i cristiani, richiamiamo voi – gli altri alle cose giuste”. Sarebbe bello, e forse sentiremmo anche il bisogno di poter dire una parola di rivincita contro “le orge dei buontemponi” che, effettivamente, ci stanno dinanzi. Ma la liturgia di oggi ci spinge a cogliere quale sia la ragione di questo messaggio.

Cos’è che effettivamente sbagliano i “buontemponi”? Cos’è che sfugge clamorosamente al ricco epulone? Mi sembra che sia la consapevolezza di un destino comune. Il ricco epulone non può dire: “Fortunatamente a me va bene, io mangio, mi vesto, non mi mancano i soldi… e pazienza per i poveri Lazzari…”. Questo bene, in una forma o in un’altra finirà. È questo il punto: non è che si voglia fare gli avvoltoi, della serie: “Non vedo l’ora di vedere la tua disgrazia, così impari!” è che il mondo è voluto da Dio con una solidarietà che lega le sue realtà e i suoi membri, e laddove questa manca, tutto viene trascinato nella rovina.

Papa Francesco, in Israele, ha operato con una semplice considerazione un rovesciamento di paradigma. Non cito letteralmente, ma il concetto è questo: durante gli orrori della guerra, e nelle riflessioni che ne sono seguite dopo, ci siamo sentiti in diritto di chiedere per tanto tempo: “Dov’era Dio?”, ma è troppo facile dare la colpa a lui di azioni che abbiamo compiuto noi. Dov’erano gli uomini che hanno venduto la propria coscienza al Male? E dov’erano tutti gli altri che avrebbero dovuto alzare la voce per impedire i massacri? E dove sono oggi gli uomini che si assumono la propria responsabilità, invece che dire: “Perché Dio permette che i bimbi muoiano di fame?”. Dove siamo noi?

Il Signore quindi ci interpella perché non dimentichiamo questa comunione fondante, che sfocia direttamente nel dovere e nel bisogno di solidarietà, comunione e condivisione. Certamente, al contrario di quanto si pensi quando si dice “Dov’è Dio?” con troppa leggerezza, le letture di oggi ci ammoniscono anche severamente che ci sarà un intervento di Dio, il suo giudizio, che sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia. Ben lungi dall’essere uno spettatore imparziale, quasi un legittimatore di quelli che bevono il vino in larghe coppe e vestono abiti smodatamente costosi, il Signore si erge come giudice dalla parte delle vittime e non tollererà la loro esclusione. Nella chiesa si è troppo accentuato il tema del giudizio su singoli atti morali di buon comportamento, al punto che sembra che dire le parolacce sia più grave che depredare il povero o disinteressarsi del misero, ma il giudizio di Dio, ossia il suo intervento nella storia, inequivocabile e severo, si consuma soprattutto quando gli uomini trascurano, escludono o violano altri uomini. Nessuno tocchi Caino, ci ammonisce Dio nella Genesi, ma perché la vendetta è riservata a lui in persona!

Ci sono, tuttavia, anche esempi e stimoli belli, e vorrei concludere con uno sguardo positivo e incoraggiante posato su uno di questi. Insieme a tante altre circostanze, in verità, in occasione della raccolta per il terremoto ho osservato e apprezzato una disponibilità rara ed edificante, e abbiamo raccolto una somma significativa. Magari si poteva fare anche meglio, ma almeno ho l’impressione che non siano solo le briciole che cadono dalla nostra tavola, e questo mi edifica e mi fa essere in dovere, in quanto a servizio della comunione, di ringraziarvi di cuore.

Don Davide




La vita alle porte della città

Con un paragone ardito mi verrebbe da leggere la scena del Vangelo di oggi in relazione a due eventi importanti di questi giorni: le elezioni amministrative nella nostra città e l’inizio dell’Estate Ragazzi nella nostra parrocchia.

In questo racconto suggestivo, infatti, Gesù incontra una processione funebre che esce dalla città, e la incontra proprio alla porta, mentre lui – portatore di vita – vi sta entrando. Ho sempre visualizzato la scena come se si svolgesse davanti a una delle nostre meravigliose dodici porte, ad esempio a Porta San Felice.

Credo che sia una questione fondamentale per chi si occupa della polis, della città, con gli incarichi che verranno affidati. Vorrei che tutti si chiedessero: quali dinamiche mortifere “escono” dalla città? E quali forze di vita possiamo portarci dentro? Sarebbe bello se i nostri amministratori potessero avere sempre davanti agli occhi questa scena: una sorta di sfida, sulla soglia di questo meraviglioso agglomerato dove vivono gli uomini e le donne, per farne uscire tutte le potenze mortifere e per iniettarvi invece le migliori forze vitali.

L’altro elemento di confronto è l’inizio dell’Estate Ragazzi. Non posso non pensare a Gesù che con il suo tocco ferma la processione funebre fregandosene delle convenzioni religiose (toccare un morto era un gesto di impurità rituale) e fa rivivere un giovane in uno scenario che “sa di tristezza”. Con l’Estate Ragazzi mi sembra che le cose stiano allo stesso modo. Gesù “tocca” la vita di questi bimbi e degli adolescenti, magari senza troppo seguire le regole del protocollo, e la anima sfrenatamente. A noi adulti, talvolta, “piace” descrivere i ragazzi come svogliati, disinteressati, attaccati solo ai video game e bla bla bla… Poi li scopriamo impegnati per tre settimane, a divertirsi insieme, a seguire dei bambini urlanti, ad arrivare – magari con le occhiaie fino alle ginocchia – alle 8.00 di mattina puntuali nei giorni dopo la fine della scuola.

Ogni tanto ho proprio l’impressione che il rapporto della chiesa coi giovani sia descritto da questo episodio della vita di Gesù: noi siamo un po’ spenti, mesti, forse anche un po’ noiosi e ci lamentiamo che i ragazzi sono “smorti” (“morti” mi sembrava un’affermazione un po’ forte…). L’unica cosa che abbiamo da portare “fuori” è questo clima. Poi arriva Gesù e, con un tocco, fa un casino. So già che qualcuno mi dirà: “Don Davide, non si scrive casino nell’Agenda della Domenica!”. So già anche che qualcuno si lamenterà, puntualmente, perché in queste tre settimane ci sarà un po’ di casino, e non solo si lamenterà nelle ore in cui è doveroso rispettare il riposo e la quiete, ma anche nelle altre… giusto per lamentarsi.

Ma cosa volete farci… non sono io che lo dico… Prima di me l’ha detto il papa, nella cattedrale di Rio De Janeiro ai giovani argentini durante la Giornata Mondiale della Gioventù: ha detto loro, testualmente: “Mi auguro che facciate casino!”. Poi certo, la traduzione ufficiale del Vaticano ha attenuato in un più corretto: “chiasso”, ma il papa ha usato: “casino”. Il papa voleva dire: “Mi auguro che vi facciate sentire, che siate protagonisti della chiesa, che mettiate in gioco la vostra vivacità”.

La cosa più bella di questa scena è che Gesù “prende” metaforicamente questo morto tornato in vita e lo restituisce a sua madre, come a dire: “Io vi restituisco la vita di questi ragazzi. Ora sta a voi farli vivere”.

Ok, Gesù, abbiamo capito. Ci proviamo.

Don Davide




Il disgusto e la torre di Siloe

È un’abitudine che non siamo ancora riusciti a sradicare, tra noi cristiani, quella di ritenerci in fondo superiori agli altri, o migliori, non tanto per le nostre qualità morali personali, ma per il fatto di credere, di seguire Gesù, di conoscere Dio e di cercare di seguire la strada che lui ci indica.

Ci sembra che questa cosa sia oggettiva, e che unita alla nostra personale umiltà faccia una buona sintesi: noi non siamo migliori di tutti gli altri, però per il fatto di credere, in realtà un po’ sì.

Nelle letture di questa domenica la parola di Dio ci aiuta a smascherare questo pensiero nocivo.

Nella prima lettura, la rivelazione di Dio a Mosè nel roveto ardente ci ricorda che tutte le volte che ci accostiamo al mistero di Dio, noi entriamo in un luogo santo, qualcosa che non possiamo né afferrare né carpire fino in fondo, e tanto meno padroneggiare, perciò bisogna toglierci i sandali, cioè sapere che non possiamo in alcun modo piegare Dio a nostro favore, ritenere che sia per forza dalla nostra parte.

Nella seconda lettura, il monito di San Paolo è esplicito: «Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere» (1Cor 10,12). Credo che non ci sia da aggiungere altro.

Nel vangelo, Gesù stesso richiama due fatti tragici per dirci che non dobbiamo risolvere l’enigma del male pensando semplicemente che “erano più cattivi di tutti gli altri e se lo sono meritati”. L’invito di Gesù è anzi all’opposto: ci ricorda che non dobbiamo mai pensare che altri siano più cattivi di noi, e sentire sempre questo profondo richiamo ed esigenza di conversione.

Mi pare che questo si traduca, per noi, in due attenzioni specifiche. La prima e più ovvia è quella di non “disgustarci” degli altri, come fa il fariseo con il pubblicano al tempio. Spesso noi ci sentiamo quasi in diritto di farlo, per difendere la verità, ma in realtà difendiamo noi stessi, ci dimentichiamo di distinguere il peccato dal peccatore, e spesso ci dimentichiamo anche che quel peccato caratterizza anche noi stessi.

La seconda è di non presumere di avere in tasca la verità, di sapere tutto di Dio e di ricavare una sorta di costituzione di leggi cristiane direttamente dal vangelo. Forse le vicende degli uomini e delle donne, come ci insegna la parabola del fico, ci spingono piuttosto a riconoscere la pazienza e la misericordia di Dio, che continua ad “adattarsi” alle nostre debolezze, finché non riuscirà a raccogliere qualche buon frutto.

 Don Davide




Parigi, 13 novembre 2015

Nella liturgia della 33° domenica del Tempo Ordinario, anno B, sia il profeta Daniele che Gesù nel Vangelo fanno uso un genere letterario molto specifico, quello dell’Apocalittica, che a noi risulta oscuro e minaccioso, ma ancora al tempo di Gesù doveva essere facilmente codificabile.

Tale genere letterario veniva usato per parlare di un evento nella storia, che ponga fine alla continuità della storia, in modo tale che attraverso questa cesura netta, la storia successiva risulti diversa da quella precedente, e soprattutto portata su un altro piano. Dio è il protagonista assoluto di questo intervento risolutivo, al punto che il primo dato dell’apocalittica è che il destino del cosmo, nonostante tutte le apparenze, non sfuggirà dalle mani di Dio.

Non dobbiamo pensare che qualcosa, nel corso degli eventi, possa rovinare definitivamente i piani di Dio, quasi da “rompergli le uova nel paniere”, sì da costringerlo ad intervenire per rimediare. La cosiddetta “fine” del mondo sarà invece un atto della volontà d’amore del Padre: la venuta del Signore che tirerà tutti i fili della storia e li porterà a compimento. Nell’immagine del vangelo, infatti, il Figlio dell’Uomo viene proprio nel momento in cui tutto sembra compromesso, con i segni della sua autorità e della sua presenza («grande potenza e gloria»), ed è lui che raduna tutti, raccogliendo il cosmo nel suo abbraccio.

Non possiamo non pensare ai terribili fatti di Parigi della sera di sabato 14/11, insieme a tutte le tante, troppe, atrocità che si consumano nel mondo. La sensazione che ci rimane è di sgomento e, certamente, anche di paura, eppure i cristiani devono imparare a leggere gli eventi con questa capacità di interpretazione della storia. Nelle letture, il contrasto tra queste due situazioni è impressionante: mentre si descrive «un tempo di angoscia, come non c’era mai stato» (Dn 12,1), la profezia di Daniele dice che proprio allora il popolo sarà salvato; quando evoca uno sconvolgimento cosmico, Gesù afferma che sarà quello il momento in cui il Figlio dell’Uomo interverrà nella storia a segnare un prima e un dopo. Paradossalmente, Gesù parla di un risveglio in questa situazione, come quando il ramo tenero del fico preannuncia la primavera (cf. Mc 13,28-29). Dobbiamo riconoscere questo risveglio, questo invito per le coscienze a rinnovarsi proprio nel mezzo dei tumulti che, altrimenti, ci paralizzerebbero.

L’evento che decifra il tempo da riconoscere è la resurrezione – «non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga» (Mc 13,30) – nel senso che tutte le volte che si configurano questi “sconvolgimenti”, il cristiano è chiamato a iniettare la potenza di vita della Pasqua nella storia; questa energia vitale discrimina il prima e il dopo, fa finire il mondo vecchio, abitato dalla violenza, dalla sopraffazione e dalla negazione della convivialità, e fa iniziare la Nuova Creazione di Dio. Sono solo le sue parole, quelle che invitano all’amore del prossimo e dei nemici, che non passeranno. Tutto il resto sì.

Chi riconosce questi segni come invito a una stagione nuova, sarà considerato saggio. Bisogna avvedersi definitivamente che invocare alla riduzione dell’altro, o addirittura il suo annientamento, è la matrice di tutta la violenza che vorrebbe soffocare il mondo; bisogna rifiutare una lettura geopolitica appiattita e semplicista, che non colga, almeno, come il Medio Oriente sia l’ultima identità antagonista che resista alla globalizzazione.  Bisogna bandire ogni superficialità, ogni semplificazione e ogni generalizzazione. Chi vuole abitare la storia, non può sottrarsi a questo compito.

Dall’altro canto, ci vuole un impegno e una responsabilità quanto mai necessaria nell’educazione, nella formazione alla convivialità delle e nelle differenze. I terroristi si fanno saltare in aria e uccidono; i violenti, i gretti e gli opportunisti non hanno né realismo né profezia, mentre «coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (Mc 13,3).

Per interpretare la storia e rispondere ai fatti di Parigi e di tutte le altre violenze del mondo, abbiamo bisogno di simili profeti, che sappiano educare molti “altri” alla giustizia e la cui luce possa essere come stelle quando più buia è la notte.

 

Don Davide




Un bambino posto nel mezzo

Il gesto di Gesù nel Vangelo di oggi ci dà l’occasione per uno spunto pastorale. Di fronte alle ambizioni dei discepoli, Gesù mette al centro un bambino, come segno della disponibilità ad accogliere Gesù stesso.

Allo stesso modo, se devo immaginare la metodologia pastorale di una comunità cristiana, penso che un programma pastorale debba partire mettendo al centro i bimbi e i ragazzi. Attenzione: so che vado contro corrente, nel senso che tuti i documenti importanti del magistero dicono che ci vuole un inversione di tendenza, che bisogna lavorare di più con i genitori, gli adulti e le famiglie… ma per me, mettere al centro i bimbi e i ragazzi non significa dedicare ore, tempo ed energie solo al catechismo o ai gruppi, trascurando le mille altre esigenze della pastorale parrocchiale.

Il punto è un altro. Per me significa mettere al centro il progetto che riguarda i più giovani, per coinvolgere, attivare, responsabilizzare e chiamare a condivisione tutta la parrocchia. Gesù lo dice senza mezzi termini: “Chi accoglie anche uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me”.

Concretamente, penso che il metodo per fare questa cosa sia di avere un’idea guida e un orizzonte condiviso. Con i gruppi facciamo questo attraverso gli strumenti dell’Azione Cattolica, che – per quest’anno – propongono come icona biblica la Visita di Maria a Elisabetta, come idea guida il tema del viaggio e come categoria di fondo la novità. Piano piano, sapendo che la formazione dei più giovani viene elaborata a partire da questo sfondo, mi piacerebbe che ci potesse essere una sintonia di tutta la comunità, una lunghezza d’onda condivisa, naturalmente calibrata sulla maturità e l’esperienza delle diverse fasce d’età.

In fondo, Gesù istruisce i suoi discepoli in un lungo viaggio attraverso le strade di Giudea e di Galilea, dove gli incontri, le parole, i problemi diventano occasione per annunciare e spiegare il Regno. Gesù non si è seduto in sinagoga, come facevano i maestri, per spiegare la Legge. Lo ha fatto “itinerando”, viaggiando.

La seconda lettura ci svela le passioni che emergono in questo viaggio, passioni spesso negative, che stanno rintanate nei nostri cuori, ed emergono quando smuoviamo le acque… Allora, lungo il cammino, sarà anche nostro compito imparare la sapienza che ci permette di neutralizzare queste passioni “tristi” (per usare una celebre formula usata nella psicologia) e imparare la passione per il Regno, attraverso lo sguardo posato su un bambino, posto nel mezzo.

Don Davide