Riposo

“Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi…” (Mt 11,28) e farete vacanza!

Il vangelo non dice proprio così, ma per due volte Gesù afferma che troveremo ristoro.

Andare da Gesù come fare vacanza.

Oppure, fare vacanza e approfittare di un tempo disteso per stare un po’ con Gesù.

Facciamo sempre l’esperienza della fretta, di non avere tempo, di non poterci ritagliare un momento di pace. L’occasione delle ferie estive può riservare almeno una porzione del nostro tempo per questo. Non serve immaginare grandi cose o darsi dei nuovi impegni anche quando ci si dovrebbe riposare. Gesù dice: “Imparate da me che sono mite e umile di cuore” (Mt 11,29) e subito prima ha proclamato “beati i piccoli” (Mt 11,25).

Penso, allora a tre atteggiamenti per questo tempo.

Il primo: godere delle cose semplici, soprattutto degli affetti più vicini. Magari abbiamo in programma il viaggio della vita, l’avventura nelle isole esotiche, ma ciò che farà la differenza sarà sempre la compagnia affettuosa dei nostri compagni di viaggio e la capacità di apprezzare anche le cose più piccole. Oppure sedersi in un prato e gustare la magia di sapere che esistiamo e viviamo, all’ombra dell’amore di Dio.

Il secondo: consegnare i pesi a Gesù, che lui li sa portare e rendere leggeri. Entrare in una chiesina di montagna, fermarci davanti a un’edicola della Madonna, visitare un piccolo santuario sconosciuto, e lì sedersi un attimo e dire: “Gesù, Maria, vi affido questa mia preoccupazione, queste persone, questa fatica…”, magari accendere una candela, sentire il calore che si diffonde nell’anima e poi ripartire, rasserenati da questo aver sfiorato il lembo del mantello di Gesù.

Il terzo: ringraziare i giovani. Facilmente ci si lamenta di loro; spesso la loro esuberanza li porta alla ribalta nel bene e talvolta anche nel male. Qualche volta, mentre tu cerchi la quiete loro schiamazzano. E sia. Non mi stancavo di guardarli, all’Estate Ragazzi, scherzosi, gradassi, allegri, disponibili e tenerissimi con i bimbi. Un cocktail che fa esplodere in un grande ringraziamento anche Gesù: “Ti rendo lode Padre!” (Mt 11,25). L’evangelista non dice: “per i giovani”, non era neanche una categoria usata, a quel tempo, ma il vangelo va sempre attualizzato, e oggi ci sentiamo di tradurlo così: “Ti ringraziamo, Padre, per i ragazzi e i giovani. Siamo stati tutti giovani. Fa’ che si sentano stimati e accompagnati, non troppo custoditi, non troppo abbandonati, liberi di esprimersi e di portare nel mondo le forze buone che lo rinnovano”.

Don Davide




Dentro il cuore di Gesù

Il Signore ci ha fatto una grazia speciale lasciandoci salutare per un anno la Chiesa di S. Maria della Carità celebrando la solennità del Sacro Cuore di Gesù.

Non contano infatti le mura di pietra, anche se ci siamo legati, anche se sono prestigiose, anche se sono piene di arte e di splendore: quello che conta è essere dentro il cuore di Gesù.

Il cuore di Gesù è la nostra cattedrale.

È una comunità tutta raccolta nel suo amore che testimonia il Vangelo e – spingendoci a cambiare luogo celebrativo e rompendo le abitudini – ci aiuta a rinnovarci e ad essere ancora più aperti alle novità di Dio che ce lo dona.

Il primo segno della provvidenza è la Chiesa di S. Valentino, che è deliziosa.

È solo più piccola di quella della Carità, ma per il tempo estivo andrà più che bene.

In ogni caso, ho pensato a lungo, in questi giorni, alle parole di Gesù rivolte alla Samaritana: “Né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete Dio. Adorerete Dio in Spirito e Verità” (Gv 4,21.24).

Lo Spirito ci dà un’indicazione molto precisa in questa domenica. Gesù vede le folle ed è preoccupato che possano ricevere l’annuncio del Vangelo. Costituisce quindi una comunità, inizialmente piccola, fatta del numero dei Dodici, ma poi destinata a crescere a vari livelli.

Dobbiamo, quindi, solo preoccuparci di essere una comunità ancora più unita, partecipe e accogliente.

Si tratta di cogliere questo evento così raro qual è il restauro di una chiesa importante e il trasloco della celebrazione, come uno stimolo per rimetterci in gioco umilmente e provando ad ascoltare cosa il Signore ci vorrà dire.

Perché il mondo, la chiesa e tutti noi abbiamo bisogno di essere guariti dalle ferite del male e purificati dagli sfregi dell’egoismo e di quelle forze negative che rovinano la vita delle persone; in una parola, abbiamo bisogno di sentire la vicinanza di Dio.

E non importa da quale campanile si parta, ma che si cominci dal cuore di Gesù e dalla sua missione.

Don Davide




Abbeverarsi, in cima

“Tutti siamo stati dissetati a un solo Spirito” (1Cor 12,13).

Siamo arrivati in cima. L’ascensione è stata bella, ma faticosa (chiedetelo a chi ha riportato la B.V. di S. Luca al santuario, in un torrido e improvviso pomeriggio estivo dopo giorni di freddo e di pioggia!).

Come la Pentecoste è la pienezza della Pasqua, perché lo Spirito rendere sempre presente il Risorto, così raggiungere la meta di una gita dà un senso di compiutezza, anche se rimane tutto il ritorno!

Riposo

Ora, però, è il momento di mangiare e di dissetarsi.

Non importa se durante il cammino abbiamo finito l’acqua: c’è una fonte, a cui riempire le nostre borracce.

È acqua di sorgente, fresca, perfetta per accompagnare un buon panino, un frutto e un dolcetto.

Tutti sanno, in realtà, che quando arrivi al traguardo di un bel sentiero, quello che ti ristora veramente è la vista del panorama aperto, la policromia della roccia, dei prati e dei laghetti.

Eravamo idealmente rimasti al Rifugio Locatelli… perciò attingiamo forza ed entusiasmo dalla maestosità delle Tre Cime di Lavaredo.

Le Tre Cime come la Santissima Trinità, spero che mi perdonino i teologi…

ma lo scrive anche Paolo nella Lettera ai Romani: l’amore di Dio viene versato nei nostri cuori per opera dello Spirito Santo che ci è stato dato, grazie a Gesù (cf. Rm 5).

Ritorno

Nei momenti in cui ti senti rincuorato dallo Spirito, ti verrebbe voglia di fermarti in quel calore, di goderti tutta quella pace. Ma i discepoli avevano imparato la lezione sul Tabor. E ora dal Cenacolo, vengono spinti fuori, come quando, dopo il riposo, ti senti ricaricato di energie e sei pronto a scendere a valle e a completare il tuo itinerario.

Non c’è in gioco solo una gita, ma il terminare un’impresa.

Ci sono ancora molti e nuovi paesaggi da contemplare. Gli itinerari belli, sono quelli che ritornano “per un’altra strada” come i Re Magi.

Ho ancora negli occhi, scendendo dal famigerato anello delle Tre Cime, un tappeto di prati irrigati da piccoli ruscelletti, una copia del Paradiso Terrestre – o forse l’originale? – ricamato da una miriade di fiori bianchi e lievi come piccoli batufoli di cotone. Mi fecero pensare alla manna nel deserto: doveva proprio essere così!

Ogni ritorno è caratterizzato da un dono di forze che sostiene il cammino: può essere la meraviglia negli occhi, il cuore grato, una parola che ricevi e che ti accompagna, le gambe – anche quelle spirituali – che ormai vanno da sole o qualsiasi altro segno di bellezza.

Il ritorno è sempre segnato dalla gratitudine per il cammino alle spalle, e dal fatto che non cessano nuove scoperte.

Racconto

Infine, il racconto. Quando hai fatto un’esperienza così bella, non puoi fare a meno di condividerla. Qualcosa racconti, qualcosa rimane nel tuo intimo. Di un paesaggio puoi fare una descrizione, ma alcune emozioni sono come una cassaforte personale, perché non si possono tradurre a parole.

Così è la testimonianza dell’amore di Dio nello Spirito Santo. Non puoi tenerla con te, non per fare proseliti, ma perché semplicemente è impossibile non condividere tanta bellezza. Eppure, l’ampiezza, la profondità e la luce di quel paesaggio incantato, così come gli orizzonti molteplici definiti dalle catene montuose che si inseguono e sovrappongono, possono essere raccontate solo per approssimazione.

Così è anche l’esperienza spirituale.

Qual è la vastità e il miracolo dell’opera di Dio nella vita di una persona, magari di un giovane nei passaggi decisivi della sua esistenza? Che cosa accade, davvero, tra Dio e ciascuno di noi?

Raccontare è come scrivere la pagina della Pentecoste. E tuttavia, quello che è successo avrà sempre il “di più” che trabocca in ogni storia d’amore.

 

Don Davide




Come i sentieri di montagna

“Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per servire alle mense…” (At 6,2).

Non è che gli apostoli fossero restii al servizio, ovviamente, ma avevano riconosciuto con precisione la loro vocazione, soprattutto in un momento delicato e di possibile disorientamento della comunità. Quindi, decidono con coraggio e consapevolezza di custodire il dono che avevano ricevuto.

Era la loro “parte migliore”.

Quella che – secondo le parole del Maestro (guarda caso riportate proprio nell’opera di Luca, lo stesso autore degli Atti) – non poteva essere tolta (Lc 10,42).

Gli uomini che vengono scelti come diaconi, erano ben conosciuti dalla comunità, apprezzati per il loro servizio e la loro fede, autorevoli. Non erano certo lontani dalla Parola di Dio. Semplicemente, l’ascoltavano in quella forma particolare e la mettevano in pratica così.

In questo modo, il racconto degli Atti ci mostra l’apertura delle vie della santità.

Sono i tanti fiori belli che sbocciano dai semi del Battesimo, e abbelliscono il prato della Chiesa e del mondo.

La via è Gesù, ma ben lungi dall’essere univoca, è poliedrica: si concretizza nelle tante forme di seguire, imitare e ascoltare Gesù.

La meta è unica: il Padre e l’esperienza commovente del suo amore.

C’è chi ama leggere, studiare, meditare e pregare la Parola di Dio scritta; c’è chi questa Parola la legge nei poveri e la impara nei poveri; c’è chi adora fare l’adorazione e chi, dopo cinque minuti che è in ginocchio davanti al SS.mo comincia a pensare a quale sugo preparare per la cena, ma in compenso è un fenomeno all’oratorio. C’è chi organizzerebbe mille incontri di formazione in parrocchia, e chi ha la pazienza di ascoltare fino all’eroismo chi ha bisogno anche solo di parlare o di compagnia…

È come salire sulla vetta di una montagna, raggiunta da molti sentieri, magari anche una via di scalata.

Qualcuno preferirà fare il sentiero più diretto e ripido; un altro sceglierà il percorso più panoramico; un gruppo si fermerà alla malga a rifiatare, gli altri non vedranno l’ora di mangiarsi il panino in cima. Qualche intrepido preferirà fare la scalata, ma ad alcuni farebbe venire le vertigini, e quindi percorreranno il lento percorso a zig-zag che si configura negli ultimi tratti di salita.

La cosa stupenda è che, a pensarci bene, man mano che si raggiunge la cima, i percorsi sono più vicini e, a un certo punto, magari proprio sotto la croce di vetta, convergono.

Così è la vocazione cristiana.

È importante che sia un saggio equilibrio: che chi ama la Parola di Dio dedichi spazio alla carità, e che chi farebbe centomila partite a biliardino in oratorio vada a dire i vespri in chiesa con la comunità.

Ma sia benedetta la passione che ciascuno mette per vivere il proprio Battesimo e percorrere una vita santa. E sia benedetto il momento meraviglioso, in cui ci si siede insieme dove il mondo sembra finire e rimane solo il cielo sopra di noi a rifiatare, ristorarsi, ricordare il cammino fatto e raccontarlo a chi ne ha percorso uno diverso.

Don Davide




Il cuore trafitto

Il prodigio più grande operato dallo Spirito nel giorno di Pentecoste, non è probabilmente il miracolo delle lingue, ma la conformazione degli uditori della Parola a Gesù.

“Si sentirono trafiggere il cuore.” (At 2,36).

È Gesù l’uomo dal cuore trafitto (Gv 2,34): un varco per accogliere le ferite del mondo, da cui ne viene un parto di vita.

È, dunque, il suo cuore trafitto la porta delle pecore (Gv 10,7): non abbiamo altra possibilità, come dei novelli Tommaso, che entrare nel cuore di Gesù e imparare i suoi sentimenti, la sua sensibilità.

“Che voi avete crocifisso – dice Pietro – e si sentirono trafiggere il cuore.” (At 2,36).

Don Tonino Bello parlava dei «crocifissi della storia». Papa Francesco parla degli «scarti».

Chiediamo la grazia di sentirci trafiggere il cuore, perché ne venga un parto di vita.

Che il dispiacere sia così insopportabile da spingerci a fermare le guerre, da anelare alla giustizia, da farci carico del destino dei fratelli e delle sorelle in difficoltà e del pianeta avvelenato.

Chiediamo la grazia di sentirci trafiggere il cuore per la tanta sofferenza che ci circonda, l’amore ferito e tradito, l’amicizia affaticata, le vite che invece di espandersi incontrano difficoltà e i giovani angustiati o bloccati.

Chiediamo, infine, la grazia di sentirci trafiggere il cuore per i nostri peccati, perché possiamo riconoscerli e non restarne indifferenti, e perché la vita in abbondanza (Gv 10,10) entri in questo cuore trafitto, e quindi aperto, come esperienza e conferma della grande amorevolezza di Dio.

Don Davide




Com’era quel giorno?

Chissà com’era il mattino del giorno di Pasqua, nei pressi del sepolcro di Gesù, poco fuori Gerusalemme.

Mi sono sempre chiesto se c’erano dei segnali, ai quali le donne non avevano prestato attenzione, o che non erano in grado di percepire a causa del turbamento che ancora agitava il loro animo.

C’era forse un silenzio surreale – quasi meravigliato – oppure gli uccellini volavano più festosi del solito e le rondini facevano le loro evoluzioni tra il porticato del Tempio?

Le persone che si svegliarono presto percepirono qualcosa di diverso? L’aria era frizzante o lieve?

Ci fu almeno un soldato rapito da un presagio di pace o un sacerdote ammansito dalla dolcezza del pentimento?

E l’alba com’era? Rossa come il fuoco, rosa come i fori di pesco, gialla come un campo di girasoli o azzurra come lo specchio del Mare di Galilea circondato dai colli?

Infine, la pietra rotolata era luminosa od oscura? La luce entrava nel sepolcro aperto, oppure usciva da esso un bagliore più chiaro del giorno, come l’acqua dolce quando si mescola con quella salata nell’estuario di un fiume?

A queste mie curiosità non c’è risposta.

In quel misterioso tempo intermedio, una cesura è avvenuta nella storia del mondo, il sepolcro è diventato una porta d’accesso tra l’uomo e il divino, una frattura nella crosta dura dell’esistenza, attraverso la quale Dio è entrato nel tempo.

Credo che tutto annunciasse la resurrezione, pur essendo tutto perfettamente uguale agli altri giorni.

Era una vibrazione improvvisa, inattesa, come un colore fuori dallo spettro visivo, come una melodia oltre il nostro campo uditivo.

Una sorpresa, che da allora in poi chiede di essere riconosciuta attraverso la fede.

È un senso spirituale, che si aggiunge ai nostri cinque sensi e che non è solo un sesto senso, ma una facoltà che va allenata, riconoscendo le ferite che diventano feritoie, come le piaghe di Gesù, e le porte chiuse che vengono aperte, ogni volta che l’amore trova un pertugio.

Celebriamo la Pasqua con la consapevolezza di questa sorpresa, che può sempre raggiungere la nostra vita, mentre ci chiede di allenare la fiducia che ci permette di accoglierla.

Don Davide




Il privilegio di Dio

Tu sei magnifico e onnipotente, Signore. Nella tua dimora regale, seduto sul trono di gloria, come ogni sovrano, chissà quanti privilegi hai!

Eppure, sei sceso ad abitare in mezzo a noi e non hai scelto un hotel a 5 stelle, ma il retro di un’abitazione, e anche i cherubini e i serafini – che di solito popolano il tuo palazzo – non hanno disdegnato, come te, la compagnia di qualche animale: un asino, un bue – chissà – forse anche due conigli, una capretta, qualche gallina e tre pecorelle.

L’apostolo Paolo ha preso pezzi di una canzone orale del tempo e ne ha composto un inno, su questo viaggio che hai compiuto, Gesù, dall’alto al basso e poi di nuovo verso l’alto, in un livello intermedio tra la terra il cielo, quello della croce. Noi l’abbiamo un po’ ammansita questa meditazione, ma potremmo renderla così: “Pur essendo Dio, non ritenne un privilegio essere Dio, ma svuotò se stesso” (Fil 2,6-7).

Cosa si può pensare di più atroce della situazione degli uomini e donne che vengono venduti, ancora oggi, in molte parti del mondo?

La fine del tuo viaggio – di questa discesa dal trono del cielo, al pagliericcio della terra, fino al giaciglio della croce a mezz’aria – inizia proprio così: sei venduto, per farti morire. Come gli schiavi, come le vittime dei trafficanti di organi, come i giovani e inesperti soldati mandati al macello da chi ha le ville con la piscina.

Qual è dunque il privilegio di Dio?

Qual è il tuo privilegio, Gesù?

Che cosa ritieni degno, tu, dell’esistenza di Dio?

Per rispondere a questa domanda, i narratori del tuo ultimo tratto sulle nostre strade, elencano una serie di situazioni vertiginose.

Sentirsi ingiustamente motivo di scandalo, solo per essere stato testimone di un Dio libero, mite e amorevole; fare parte dei rinnegati, i dissidenti dalla loro patria, gli omosessuali dalle loro famiglie, gli inefficienti dalla società dei consumi, i malati e gli anziani lasciati soli, chi si sente cacciato e rifiutato dagli affetti più cari.

Inoltre, il privilegio che scegli per te è, Gesù, condividere la sorte di quelli che vengono bullizzati, sostituirti ai prigionieri e ai carcerati, giungere perfino ad affiancarti nel dolore di chi viene torturato.

Infine, fermare il braccio di chi usa la violenza nel nome Dio.

Tutto questo è il privilegio di cui ti fregi, proprio perché sei Dio.

Ed ora, camminare di nuovo in quello che era il Paradiso Terrestre deturpato dal peccato, senza più fare paura agli esseri umani, anzi, facendoti vicino ad ogni uomo e ogni donna soli, che soffrono in terra, in mare e in ogni luogo, per consolarli come una madre che prende in braccio il suo bambino, per alleviare il dolore, perché nessuno abbia più paura del buio e degli orchi.

Il privilegio che rivendichi, Gesù, è entrare in tutte le sofferenze e coccolarle d’amore.

Ma il privilegio di Dio è anche sedere a tavola con gli amici, benedire il pasto e i doni della terra, scoprire – meraviglia inattesa – che ci sono fratelli e sorelle sconosciuti, pronti ad asciugarti il sangue e il sudore dal volto, disposti ad aiutarti a portare la croce.

Alla fine di questa contemplazione, ti preghiamo Signore Gesù – noi che siamo guardinghi e prudenti, e magari un po’ timorosi – insegnaci ad essere “invidiosi” dei tuoi privilegi, anzi a “morire di invidia” per te, nella Settimana Santa.

Don Davide




Il cieco e noi

Quando nasciamo, abbiamo gli occhi chiusi, accecati dalla luce di un mondo nuovo. Qualche tempo dopo cominciamo a guardare, con quell’espressione buffa tipica dei neonati che spalancano gli occhi e li richiudono, e poi iniziano a osservare chissà cosa e chissà dove, fino a che rivolgiamo alla mamma un sorriso, rapiti da quell’amore primordiale.

La cecità nel vangelo di oggi, non è né una condizione fisica, né una condizione morale, ma uno spazio vuoto, dove si possano rivelare le meraviglie di Dio. È la “terra informe e deserta, e l’abisso tenebroso” del mondo prima della Creazione (Gn 1,2). È l’essere umano prima che venisse posto in lui “un alito di vita” (cf. Gn 2,7). Siamo noi, prima della Creazione nuova del nostro Battesimo.

È come se Gesù dicesse: “Sia la luce!” (Gn 1,3), ma anche: “Ricevi il Battesimo!”, perché “lo Spirito di Dio aleggia sulle acque” (cf. Gn 1,3).

Il cieco guarito testimonia un fatto. “Una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo” (Gv 9,25).

Come con la donna samaritana, quando Gesù le dice: “Sono io che ti parlo” (Gv 4,26), anche questo incontro progressivamente raggiunge un apice di consapevolezza: “Lo hai visto: è colui che parla con te!” (Gv 9,37).

Allo stesso modo di una mamma che parla alla sua bambina e l’accarezza, finché non apre gli occhi e la riconosce, così Dio, attraverso Gesù, parla alla nostra vita e ci accarezza, finché non apriamo gli occhi e lo riconosciamo.

Una prima volta è accaduto, quando i nostri genitori hanno scelto per noi il Battesimo (oppure lo abbiamo chiesto noi stessi).

Allora siamo stati immersi in un bagno di amore gratuito, che nulla chiede, ma testimonia solo l’affetto preveniente e incondizionato di Dio e di chi ci ama.

Ogni volta che ritorniamo a quella sorgente, come la piscina di Siloe, i nostri occhi si aprono e noi veniamo ricreati.

Ci sentiamo nuovi.

Possiamo testimoniare le grandi opere di Dio che si sono manifestate.

Se ci abituiamo a riconoscerle, anche in mezzo alle tempeste più nere, ne possiamo scorgere tante.

Ciechi alla nascita, vediamo nella vita.

Don Davide




Sete di acqua buona

Il ciclo liturgico dell’Anno A, quello in cui durante l’anno si legge il Vangelo di Matteo, ha la caratteristica che dalla terza domenica di Quaresima si ascoltano i lunghi racconti della Samaritana (Gv 4), del Cieco Nato (Gv 9) e di Lazzaro (Gv 11), che accompagnano l’ultima preparazione ai Sacramenti dell’Iniziazione Cristiana degli adulti.

L’icona biblica di Marta e Maria (Lc 10,38-42) ha abbondantemente accompagnato la riflessione della Chiesa italiana in questo anno.

In occasione della Pasqua, centro dell’anno liturgico e sorgente di ogni scelta pastorale, possiamo rileggere il testo di Marta e Maria in filigrana ai racconti quaresimali.

Quando arrivano ospiti a casa, prima di tutto si chiede loro se vogliono qualcosa da bere, oppure si fa un bell’aperitivo. È un’attenzione al bisogno più immediato, la sete, oppure il desiderio di fare stare bene le persone accolte fin dall’inizio con qualcosa di buono, magari delle bollicine prelibate.

Come la sollecitudine di Marta nell’accogliere Gesù, e come fa Gesù stesso, che svela la sete della Samaritana.

Dopo bisogna stare attenti a non perdere di vista i nostri ospiti. Spesso, per fare bella figura, ci si arrabatta in cucina e in mille servizi, godendosi poco la compagnia degli amici.

Gesù che ridona la vista al cieco è lo stesso che nella casa di Marta e Maria insegna a non perdere di vista l’essenziale.

Infine, quando abbiamo ospiti a casa, non è la cena succulenta o la perfetta osservanza del galateo a farci sperimentare un senso di pienezza e di gioia, ma la presenza degli amici, la mutua e affettuosa vicinanza gli uni degli altri.

Nella scena di Lazzaro, incontriamo lo stesso Gesù che dice qual è la parte migliore, quella che dà la vita.

Iniziamo dalla sete di cose buone, che è una sete vera, molto concreta anche per i nostri giorni. Se pensiamo a questo itinerario, sentiamo ancora più lacerante il dramma del naufragio a Cutro e di tutti i naufragi. Ci sono persone che hanno sete, e non dobbiamo perdere di vista l’essenziale, che è sempre salvare la vita.

Non c’è una parte migliore, nel mondo, che quella di sconfiggere le guerre, di invertire completamente questa cultura del nemico, dell’impossibilità di vivere insieme, che dà la morte, invece che la vita.

Abbiamo sete di cose buone per le ragazze e ragazzi, per la loro formazione, per l’amore nelle famiglie e tra le persone, per chi si sente discriminato, solo ed escluso.

Tutto questo ci chiede di fare maturare il Battesimo come un frutto d’estate. La Quaresima è il variegato cammino, attraverso il quale possiamo dare vigore a questo processo di maturazione.

Facciamo ogni sforzo per ospitare Gesù, eppure siamo ospitati da lui.

Vorremmo dissetarlo con il nostro amore, ma siamo noi che ci dissetiamo con i suoi sacramenti.

Teniamo gli occhi fissi su di lui e ogni volta lui ci mostra come vederlo e scoprirlo di nuovo.

Infine, desideriamo vivere e vivere bene, attingendo al suo amore l’energia per questa vita.

Quest’anno, avremo il Battesimo di due bimbe e un bimbo durante la Veglia di Pasqua. È un’occasione speciale.

Possiamo riscoprire il nostro Battesimo, cioè la bellezza della nostra vita cristiana.

Don Davide




Verso la vetta, prima dell’alba

“In quei giorni il Signore disse ad Abram: Vattene dalla tua terra, verso la terra che io ti indicherò.” (Gn 12,1)

Vattene! Sembra una minaccia, ma non è così.

Porta te stesso verso un luogo promesso, pieno di speranza; da un terra umana, a una terra indicata da Dio.

Inizia un cammino, segui un percorso, fidati di Dio e diventerai una benedizione.

Accogliere le occasioni di Dio e metterci in cammino, significa salire in un’intimità speciale con Gesù sul nostro personale monte della trasfigurazione.

È come salire la vetta di una montagna quando è ancora buio, e giunti in cima, anticipare l’alba.

Non sempre gli altri capiscono cosa ci stia succedendo durante il tragitto e, dopo, cosa abbiamo vissuto. Siamo stati per qualche tempo “in disparte” con Gesù e il riflesso della sua luce ha segnato la nostra pelle, è rimasto sul nostro viso, nei nostri occhi.

Che cosa ci è accaduto? È difficilissimo descriverlo.

Abbiamo visto Gesù luminoso e questo ha cambiato il nostro modo di guardare le cose.

Lo sintetizziamo con due parole: l’ascolto e l’amore.

È un’esperienza che facciamo tutte le volte che diciamo un “sì” sapendo – magari non perfettamente, magari solo intuendolo – che è un sì detto a Dio. È l’intimità che viviamo quando ci fermiamo ad adorare l’Eucaristia, in silenzio, o con la nostra comunità. È quello che ci accade quando ci dedichiamo a un servizio.

“Gesù ha vinto la morte e ha fatto risplendere la vita e l’incorruttibilità per mezzo del Vangelo.” (2Tm 1,10).

Contemplo un mondo trasfigurato, che è presente e minacciato allo stesso tempo; che ancora non c’è, ma ci sarà, non appena qualcuno avrà un sentimento d’amore per il Vangelo.

Vedo giovani uomini e giovani donne uscire dalla spirale infernale della guerra e incamminarsi verso la pace. I potenti si domanderanno sbigottiti: cos’è questa processione di persone pacifiche, laddove le abbiamo educate alle armi, all’odio e alla deterrenza militare?

Contemplo un creato purificato e custodito, e tutti noi che – faticosamente e con l’impaccio dei principianti – impariamo a rispettare le piante, gli animali, l’aria, i fiumi, i mari, i boschi, il suolo, i campi.

Gusto il giorno in cui si dilaterà il Magnificat.

Gli umili saranno innalzati, e non ci sarà più uomo e donna, ragazzo e ragazza, bambino e bambina, umiliati, sfruttati e offesi.

La luce è grande, abbacinante. Non riesco a fissarla oltre, ma so che c’è molto di più.

Incamminati verso la trasfigurazione abbiamo come un assaggio, che tu Signore, nella Pasqua mandi il tuo Spirito a rinnovare la Terra.

Sto un po’ con Gesù, in disparte, perché voglio essere protagonista di questa illuminazione del mondo.

Don Davide