L’esempio di Gesù

Nella Chiesa siamo tutti pecorelle del gregge di Dio, dove il Pastore supremo è Gesù, pieno di cura affettuosa per ciascuno di noi. In questo averlo come punto di riferimento e guida sicura, inoltre, anche noi riceviamo l’incarico di essere pastori, come accade per un atleta che si metta ad allenare i più piccoli, o viceversa come ogni fanciullo di Estate Ragazzi che sogna di imitare il suo animatore o la sua animatrice preferita.

È l’esempio di Gesù, da mettere in pratica in molte forme, gli uni per gli altri.

Questo pastore ho quattro tratti, che lo descrivono, ci affascinano e ci incoraggiano ad imitare il suo esempio:

1)ha cura delle sue pecore, non è un mercenario, non fugge di fronte al pericolo, se serve dà la vita per loro;

2)conosce ed è conosciuto, ha stabilito una relazione consueta, potremmo dire che “ha una casa, ha un ovile”;

3)ha il cuore aperto, non coltiva i suoi in modo chiuso, soffocante, ma sente un istinto di bene magnanimo e verso tutti;

4)fa della sua vita un dono, non solamente “da morirne”, ma vive la sua esistenza con animo generoso. Non è un oppresso, ma è libero di dare.

Questa bellissima sequenza del buon Pastore, dunque, ci permette di fare un intenso esame di coscienza.

Tutti siamo suoi agnellini, ma tutti siamo anche pastori di altre pecorelle: possono essere la nostra famiglia, i nostri studenti, i ragazzi e le ragazze del gruppo di cui siamo educatori, i giovani, i dipendenti del mondo del lavoro; i pazienti, gli anziani, coloro che aiutiamo.

Senza volere affrontare ciascuno di questi tratti, desidero coglierli complessivamente e chiedere a me stesso che cosa ne è stato, sperando che altri abbiano voglia di mettersi in trasparenza di fronte a questa parola.

Sento in me la domanda: quando è venuto il lupo di questa pandemia, mi ha trovato mercenario o pastore? Riconosco le mille tentazioni di fuggire di fronte al pericolo, all’eccesso di impegno e di responsabilità. Ho cercato di mantenere le attenzioni, di fare una telefonata a chi non sentivo da tempo, di informarmi sulla salute degli ammalati e di accogliere chi desiderava parlare, ma… quanto si poteva fare di più, e con il cuore più sensibile e lieto?

E poi so che c’era bisogno di parole molto più illuminate dalla fede. Quante volte mi sono fatto chiudere in discorsi solo umani, in ragionamenti di buon senso o poveri di approfondimento, mentre sarebbe stato utile accogliere una luce profetica, penetrante, che squarciasse il buio e indicasse sentieri?

E infine, rimane la vocazione delle vocazioni: non c’è un tempo migliore di un altro per vivere il Vangelo, per fare della propria vita un dono. Ripenso a tutte le volte, in quest’anno e mezzo, in cui ho pensato: “Che sfortuna vivere un periodo così!” e, con le parole del Pastore nelle orecchie, capisco: “Ci sarebbe stato un tempo migliore, per fare della propria vita un dono? Ha più valore quando è facile o quando è difficile?”.

Sento rivolte l’appello ispirato di Pietro, nella prima lettura, quando interpella riguardo a Gesù chi dovrebbe essere pastore e saggio. Ecco: la sequenza del buon Pastore mi mette in rapporto a Gesù. Forse, più nitidamente che in altri tempi, riconosco che un lupo è passato e che ancora si sentono gli ululati del branco.

Fisso il buon Pastore, risorto, e ascolto la sua voce ripetere quello che ha detto a ciascuno solo pochi giorni fa: “Vi ho dato un esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi, gli uni per gli altri” (cf. Gv 13,15).

Don Davide




Credere in Gesù risorto

Leggendo le letture di questa domenica, ci facciamo condurre da tre spunti che ci portano ad un incontro con Dio molto poco virtuale: sarà anzi molto vero e concreto.

L’ignoranza ci fa vedere il Risorto come un bravo legislatore e fondatore di una religione, un abile mago o come un grande liturgista e così via. Egli è invece l’autore della vita, il Giusto, il Santo, il Servo di Dio (cf At 3,13-15). L’ignoranza, travestita da capi di potere, da abitudini senza significato, comodità e convinzioni limitanti varie, è l’oblio della fede, è il regno della creduloneria e spegne la vita. Ma Dio attraversa sempre anche ciò che l’uomo spegne, lasciando tracce di guarigione luminosa per tutti coloro che si riconoscono infermi (come lo storpio dell’episodio che precede il brano che leggiamo oggi, At 3,1-10). L’infermità riconosciuta è conforme alle mani e al costato ferito. Pietro chiede di avere fede nelle opere di Dio e non in quelle degli uomini. Come possiamo dimostrare la fede nelle opere del Padre?

La pratica della fede è l’amore

Riconoscere la propria fragilità ci permette di avere in Gesù il Consolatore come dono del Padre. Chi supera l’ignoranza dimostra di conoscere davvero il Padre, osservando il precetto dell’amore di cui Giovanni parla nel suo vangelo e nel brano della lettera odierna (v. 1Gv 2,3-5). Compiere atti d’amore verso se stessi e gli altri non ci affranca dalla nostra fragilità, ma ci rende più veri davanti a Dio.

L’esecuzione di compiti senza un coinvolgimento affettivo è anche più semplice, ma ci allontana dall’amore di Dio, che è perfetto (1Gv 2,5) ed è quello a cui siamo chiamati.

L’esempio è proprio quello di Gesù, che si è dato fino in fondo per illuminare ogni uomo (Gv 1,9).

Per non credere in un fantasma

Per non credere in un fantasma sediamo a mensa con Lui (Lc 24,35-48), con il Risorto, e con i portatori di piaghe. Sì, noi fragili per primi abbiamo bisogno di sfatare quel mito che ci fa apparire sazi, magari credenti per sentito dire (v. 35) e non per esperienza personale. Non un fantasma (v. 37), ma nella carne e nelle ossa dei poveri “che abbiamo sempre con noi” (v. Gv 12,1-11). Quello che viene indicato lo “stesso giorno” è il tempo migliore: quello del grande incontro e della nuova creazione, quello dell’amore misericordioso, quello della pace, quello della nuova relazione con Dio e fra gli uomini.

Facciamoci aprire la mente alle intelligenze delle Scritture, apriamo il cuore a ciò che il Cristo ci dona e diamone testimonianza secondo il carisma personale di ciascuno. Superiamo l’ignoranza con l’esperienza personale dell’amore ricevuto e dato e non ci troveremo più difronte nessun fantasma di Dio, ma un Compagno fedele e concreto che conosce tutte le condizioni della nostra vita e le risolve.

Anna Maria e Francesco




Desiderio

Alla presenza di Maria Maddalena fuori dal sepolcro il mattino di Pasqua sono associate spesso, nella tradizione cristiana, le parole del Cantico dei Cantici: Il mio amato! L’ho cercato e non l’ho trovato! Dov’è l’amato mio? (cf. Ct 3,1-2)

È un desiderio struggente, che Maria Maddalena – inizialmente – esprime semplicemente come bisogno di rivedere Gesù nella morte, di onorare almeno la sua sepoltura. Sarà poi la voce del Maestro a invitarla a sperimentare qualcosa di più grande, un traguardo inimmaginabile del suo desiderio: riabbracciarlo, saperlo vivo, continuare a vivere l’esistenza con lui.

La Pasqua è caratterizzata da questo desiderio; così, anche il traguardo della resurrezione per ciascuno di noi.

San Paolo, nell’Epistola che si legge durante la Veglia Pasquale, afferma che noi siamo realmente risorti non perché abbiamo già attraversato la morte biologica (“l’ultimo nemico che sarà sconfitto” cf. 1Cor 15,26), ma perché viviamo una vita nuova (cf. Rm 6,4).

Noi possiamo realmente vivere da risorti, e questa possibilità è resa concreta dal desiderio che ci sta davanti.

Il desiderio è una “distanza” non del tutto colmata, ma che ci fa sentire che possiamo vivere qualcosa di buono. Se un desiderio è bello rinforza l’amore, come due innamorati che si corteggiano e si cercano.

La Pasqua si celebra dopo la prima luna piena di Primavera. È legata alla rinascita del tempo e delle stagioni (ricordiamoci che per gli ebrei era il primo mese dell’anno!), al desiderio di uscire dall’Inverno, ma non ancora in un sole pieno di mezzogiorno d’estate. In quel desiderio e primo germoglio di rinascita c’è già tutta la forza della resurrezione.

Associamo a questo desiderio di rinascita, ad esempio, la speranza che la pandemia sia definitivamente superata. Pensiamo: “Chissà se sarà la volta buona?!”. Non è sbagliato. Sappiamo che la Pasqua ha a che fare con questo rinnovamento di tutto il creato, (come si canta nei salmi della Veglia: “Mandi il tuo Spirito Signore e rinnovi la faccia della terra”), e il desiderio che ciò avvenga è esso stesso scritto nei nostri cuori con l’inchiostro della resurrezione.

Ogni anno ci prepariamo alla Pasqua impegnandoci per un incontro più vivo con Gesù, con la speranza che il Vangelo plasmi più significativamente la nostra vita. Ogni anno, se siamo un minimo accoglienti, questa trasformazione accade realmente, per la grazia che scaturisce da questi giorni. La nostra vita si rinnova; il nostro desiderio ci sta ancora davanti, ma celebriamo la Pasqua.

Preghiamo nei giorni santi per tante situazioni che ci stanno a cuore, quelle difficili o speranze belle. È la fiducia nella resurrezione che ci spinge: che qualcosa si sistemi, che una condizione cambi e migliori. Non sono velleità e non siamo smentiti. In questo desiderio, che non è mai completamente realizzato, c’è l’alba della resurrezione.

Il Signore Gesù ci chiamerà oltre. Ci farà vivere, ci farà sentire il suo abbraccio. Con enorme sorpresa ci farà superare soglie che pensavamo mortali.

Lo sentiremo vicino. Anche quando (di nuovo) si sottrarrà ai nostri occhi, non ci sentiremo soli. Seguirà i nostri passi, permettendoci di onorare il dono della vita, fino a che l’ultimo nemico ad essere sconfitto sia la morte.

Don Davide




Nella Passione

Nella Passione secondo Marco, proclamata in questa Domenica delle Palme, si trovano dei versetti inusuali (Mc 14,13-16), in risposta alla domanda dei discepoli che dà inizio agli eventi: «Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?» (Mc 14,12).

“Pasqua” – che in ebraico significa “passaggio” – diventa anche il termine tecnico dell’agnello che si mangia nella cena pasquale. La Pasqua si “prepara” e si “mangia” con le persone care, quelle che si possono chiamare famiglia, in un senso più esteso di quello dei legami di sangue.

Tuttavia, Gesù dà delle indicazioni enigmatiche. I discepoli, bramosi di compiacere il Maestro, sono invitati a seguire una specie di Caccia al Tesoro o di Gioco dell’Oca, per scoprire che non devono fare proprio niente. C’è inoltre un elemento contradditorio: Gesù dice che sarà loro mostrata «al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta» (Mc 14,15) e che lì dovranno “preparare”. Loro «trovarono come aveva detto e prepararono la Pasqua» (Mc 14,16). Ma cosa prepararono, esattamente, se era tutto già predisposto?!

Sappiamo che i discepoli non faranno bella figura: Giuda ha già deciso di tradirlo, gli altri useranno violenza laddove Gesù si consegnerà con un’arrendevolezza sorprendente e, alla fine, anche il più tenace fuggirà via nudo; Pietro lo rinnegherà; sotto la croce, a usare compassione per il suo cadavere ci saranno altre e altri, ma non loro.

Cosa vuole dirci, allora, l’evangelista, riportando queste direttive così misteriose di Gesù? Esse si rifanno a un gesto profetico delle storie dell’Antico Testamento, che Gesù conosceva bene; sono, cioè, non tanto un’indicazione che Gesù dà ai suoi discepoli, ma un’istruzione spirituale che l’evangelista offre ai suoi lettori, a noi, per capire il presente e sapere come vivere quello che sta per accadere.

Nessuno può presumere di entrare nella Passione.

Dentro la Pasqua puoi solo lasciarti condurre.

Il mistero di quello che accade in questi giorni è talmente grande che puoi accoglierlo solo facendoti guidare, seguendo le tracce di una Presenza che si mostra in maniera evidente, ma ti precede e ti sfugge sempre.

In questi giorni, e in queste celebrazioni, possiamo vedere tutto di quello che viviamo: dagli slanci più belli, ai dolori più grandi, passando per le emozioni più intense. Se siamo sensibili, questa densità ci sovrasta.

La Pasqua, in realtà, non dipende da noi.

La “sala” è a un piano superiore – bisogna salire di livello spirituale – è immensa ed è già pronta.

A ciascuno di noi questi giorni regaleranno una scintilla, quella giusta per la nostra vita di oggi. Ci saranno vari incontri che ci condurranno: qualcuno “previsto”, come i riti; qualcuno sorprendente, come un evento inatteso, una coincidenza, una telefonata, una sorpresa.

L’importante è lasciarsi condurre.

Lì, anche se tutto è già pronto, potremo preparar-ci e cenare con lui, il nostro Maestro e Signore: prima della sua morte e dopo la sua resurrezione.

Don Davide




Rimanere soli o portare frutto?

La morte non è eliminabile, ma può non essere la fine

In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (Gv 12,24)”.

Il chicco di grano forse oggi può dire molto poco. Ma proviamo a contestualizzare la metafora in una cultura un po’ più contadina della nostra, ove il valore del chicco veniva colto più facilmente. Il chicco è un frutto del passato, della mietitura scorsa e, quello che verrà seminato, è stato scelto tra gli altri che hanno già raggiunto il loro scopo. Per lui invece, il contadino ha scelto un’altra vita. Caduto in terra, la semina deve avvenire per giusta profondità, né troppo in alto, né troppo in basso; ma nemmeno troppo isolato o intasato fra altri. La semina non è un atto scontato e può avere successo oppure no e richiede tanto discernimento.

È dentro che si rinasce.

Il processo di trasformazione avviene nell’alveo del terreno preposto per ciascun seme. I cristiani spesso hanno visto in questa nuova creazione del seme, la prefigurazione della resurrezione dei credenti, come quella di Cristo: le viscere della terra come il luogo nascosto ai più, ma visibile, a chi se ne intende, del mistero della vita nuova.

Della vita del passato, ci sono molte cose che hanno già dato ed hanno raggiunto il loro scopo: alcune non hanno più alcuna funzione e se vivono, vivono in noi come delusioni o recriminazioni oppure come ricordi (da tenere nel cuore). Altre cose del passato, le utilizziamo come esperienza per migliorare il nostro presente. Ma per il futuro dobbiamo investire in speranza, selezionando i giusti semi che è inutile tenere per noi. Solo se dati producono frutto, molto frutto. Chi tiene per sé ciò che a sua volta ha ricevuto, lo perderà.

Gesù è in alto perché salva dal basso

Gesù, giudicato dagli uomini inadatto alla verità della vita, è stato innalzato per essere visto morente da tutti: ha assunto la morte dell’umanità indicando la via della vita, a partire dalla profondità del dolore umano, producendo frutti che vediamo da millenni e che sperimentiamo nelle nostre esistenze. Ha superato la condanna dei sacerdoti del tempo, diventando segno e paradigma della misericordia di Dio, il vivente per sempre.

Non resta che trovare le sue tracce e affondarci il piede, procedendo un passo alla volta.

Sul suo esempio, ringraziamo il Padre di quanto di buono abbiamo ricevuto e riceviamo, seminiamo quel bene che in abbondanza è già in nostro possesso per i raccolti precedenti. Lo facciamo nei modi che sono possibili oggi, a distanza e con le mascherine. Seminiamo bontà: donare e donarsi è un po’ morire, ma è ciò che dà vita e produce comunità come un bene maggiore per tutti.

Preghiera

Cristo Gesù, non vogliamo solo vederti innalzato, vogliamo seguirti, nelle profondità del mondo, di questo mondo di oggi, pieno di attese e di furbetti, di speranze e di impazienze, di cuori generosi ma anche di tanti solchi segnati dalle sofferenze della vita che attendono il tuo seme e, forse, potrei essere proprio io il tuo seme per loro.

Anna Maria e Francesco




Una Pasqua ormai vicina

Ci prepariamo a celebrare la Pasqua, perché siamo alla 4° domenica di Quaresima: ci sarà ancora solo un’altra domenica, poi entreremo già nella Grande Settimana, attraverso la porta di ingresso della Domenica delle Palme.

Celebrare la Pasqua non è solo fare dei riti particolari, ancorché suggestivi.

Celebrare la Pasqua è un’esperienza di comunità, che percepisce l’amore del Padre e la vita di Gesù che entra nelle nostre vite.

La Quaresima è un cammino di umiltà e purificazione. Pensavamo di avere toccato il fondo l’anno scorso, con il lockdown, invece ci troviamo quest’anno a dovere essere ancora più umili: per la stanchezza di questa situazione che ci attanaglia ancora dopo un anno; e perché anche se potremo almeno vivere le celebrazioni, dovremo farlo con molta attenzione, con un rigore esemplare e rinunciando a tanti segni che rendevano speciali questi giorni: la processione degli ulivi, la lavanda dei piedi, il bacio della croce, la processione con il cero pasquale.

Personalmente, anche se potrà sembrare sproporzionato, ritengo che ci voglia molta umiltà per accettare di privare le liturgie pasquali della forza dei loro segni specifici. Tuttavia, siamo chiamati a farlo, consapevoli che il protagonista ancora una volta sarà il Signore e non noi.

 

CELEBRARE LA PASQUA TUTTI INSIEME

Allora ecco che la Pasqua si presenta come un’esperienza di comunità. Siamo spaventati e disorientati dal riaggravarsi della situazione pandemica, tuttavia dobbiamo cogliere la Pasqua come un’occasione di rilancio della nostra vita comunitaria.

Chiedo concretamente ed esplicitamente che chi pensa di essere presente alla Domenica delle Palme e al Triduo Pasquale segnali la sua disponibilità in anticipo, per dare una mano. Servono tante cose: l’accoglienza in chiesa, un po’ di servizio d’ordine, l’aiuto a distribuire l’ulivo, l’igienizzazione alla fine delle celebrazioni, le letture, le preghiere dei fedeli, la disponibilità per cantare, l’aiuto a preparare e organizzare tutte le cose pratiche e tanto altro. Per favore, partecipate da protagonisti e corresponsabili, non da spettatori.

E anche se qualcuno di noi – legittimamente – non si sentirà di prendere parte alle celebrazioni, prendiamoci tutti l’impegno di celebrare la Pasqua insieme alla nostra comunità: unendosi spiritualmente in preghiera, scrivendo un biglietto, facendo una telefonata, e avendo ben chiaro che c’è bisogno che torniamo tutti ad essere presenti e ad incontrarci, che ci diamo un appuntamento, non importa quanto vicino o lontano sia.

Vorrei anche che avessimo una preghiera incessante e una vicinanza reale, nei modi che ci sono possibili, per chi è molto preoccupato per il lavoro e la propria condizione economica, per chi è più solo e per gli ammalati gravi.

 

PERCEPIRE L’AMORE DI DIO

I prossimi giorni siano però anche i giorni in cui ci concentriamo a percepire l’amore di Dio.

Come quando vai a un concerto di un cantante preferito o dell’opera che conosci a memoria, che tendi l’orecchio a cogliere le sfumature e ti entusiasmi durante i motivi prediletti… così dobbiamo tendere a riconoscere l’amore di Dio che si manifesta in tante forme vitali. Gli affetti, gli amici, le cose belle, i traguardi, le ripartenze… la Primavera stessa. C’è un verso bellissimo nel Cantico dei Cantici che dice: “Ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, i fiori sono apparsi nei prati e la voce della rondine ancora si fa sentire nella campagna…” Ogni risveglio di vita ci parla dell’amore di Dio per noi.

 

LA PASQUA DELLA FEDE

Infine, la Pasqua è soprattutto un evento della fede. È l’evento in cui professiamo che la nostra vita, come quella di Gesù, non verrà semplicemente consumata. È l’evento in cui rinnoviamo la consapevolezza del valore della nostra esistenza, e magari ci rimettiamo in un cammino di bene e costruttivo per noi: possiamo riacquisire fiducia in noi stessi, fare qualcosa di buono e di bello che desideravamo fare da tanto, imparare a pregare, stare un po’ di più con la nostra famiglia e con le persone che amiamo, dedicarci a fare qualcosa che ci piace davvero.

Siamo ancora in cammino nella Quaresima, ma come un maratoneta che dopo tanti chilometri vede il traguardo, invece di rallentare, si carica di adrenalina e accelera, così anche noi, avvicinandoci alla Grande Settimana, facciamo ardere ancora di più il desiderio della nostra fede.

Don Davide




Ricordati, Dio

Quaresima

La Quaresima si apre con Dio stesso che ci conferma nel legame benevolo di alleanza con lui: «Io stabilisco la mia alleanza con voi e con i vostri cari e con ogni essere vivente che è con voi» (Gn 9,10). Ogni impegno, ogni sacrificio, sta lì dentro. È un’alleanza che coinvolge tutti gli esseri viventi: tutte le persone che mi vogliono bene, tutte le persone a cui sono in qualche modo legato, persino gli animali che mi fanno compagnia e la natura che amo e in cui mi ristoro.

Con tutti siamo in comunione e viviamo l’inizio di questo impegno quaresimale in questo abbraccio non fisico, ma reale, che ci rinvigorisce.

Siamo protetti da te, Padre e da una corona di fratelli e sorelle, di amici, pure in mezzo a mille difficoltà.

Arcobaleno

Quando Dio giura: «Io stabilisco la mia alleanza con voi: non sarà più distrutta alcuna carne dalle acque del diluvio, né il diluvio devasterà più la terra» (Gn 9,11) intercetta la paura più recondita e mostruosa dell’animo umano: che la nostra vita sia distrutta, che noi siamo disprezzati, che la nostra esistenza cada in rovina come se non avesse valore.

L’alleanza di Dio ci garantisce che non sarà così, che anche quando nella sua immensa onnipotenza Dio potesse prendere la risoluzione di “distruggerci”, lui non lo farà. C’è un verso bellissimo nel profeta Osea che ci spiega perché: «Perché sono Dio e non un uomo, sono “Diverso” in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira» (Os 11,9).

È tenerissimo Dio, che mette un segno perché sa che “nel tempo” siamo inclini a cambiare le nostre risoluzioni e i nostri proponimenti, e sembra essere preoccupato di questo anche lui.

Così, quando dovesse essere “tentato” si fermerà davanti all’arcobaleno. Anzi, come un divino Cupido, scocca la freccia del suo amore e della sua pace e ci colpisce al cuore. Come un vaccino portato dal cielo, come un vaccino contro ogni male: «Io ricorderò» (Gn 9,15), dice. Ricorda il primo proposito, il momento di chiarezza in cui si è capaci di proiettarsi nel futuro, per sempre, nella luce di quella decisione iniziale, come ci si ricorda dell’innamoramento.

Preghiera

«Ricordati, Dio…» è la preghiera che accede al tuo cuore. Anche nel salmo di oggi la diciamo due volte (Sal 24/25,6-7). Come potresti dimenticarti?! Questa preghiera è la chiave che apre sempre il tuo cuore. Forse è la parola migliore che possiamo dirti, mentre preghiamo, perché se tu non ti ricordassi di noi, se il tuo pensiero non fosse rivolto alla nostra esistenza, noi – semplicemente – spariremmo. Invece, siamo sempre nei tuoi pensieri. Tu ci vegli sempre. E nel momento in cui ti ricordi, ci avvolgi subito con il tuo amore e ci rendi splendenti; non pensi a come siamo nelle difficoltà o a quando siamo tentati, ma ci aiuti ad essere migliori, a trasfigurarci.

Così, è solo nel tuo ricordo che anche noi – come Gesù – possiamo stare con le fiere e allo stesso tempo sperimentare la vicinanza degli angeli. Sì, perché noi siamo tentati, ci lasciamo disorientare, siamo sempre prossimi a imbruttirci, ma poi siamo nel tuo pensiero, anche noi ci ricordiamo di ricordartelo, e scopriamo che tu ci avvolgi con quella benevolenza che fu il tuo primo proposito, come quando ti innamorasti di noi e noi di te, e ci vedi belli e ci fai essere migliori, perché ci ami, e noi siamo ammantanti di luce: da materiali diventiamo spirituali, da uomini vecchi diventiamo nuovi. Stiamo con le fiere e gli angeli ci fanno compagnia.




San Valentino e la pandemia

La ricorrenza di San Valentino segna un anniversario importante, per la nostra comunità. Un anno fa, subito dopo gli incontri festosi e le celebrazioni solenni, iniziavano a diffondersi le prime notizie sulla presenza del Coronavirus, che avrebbero portato il 23 febbraio alla decisione di chiudere le scuole, inizio ufficiale della pandemia in Italia.

Il doloroso anniversario di tutto il nostro paese risuona con echi specifici per noi: di fatto, la Festa di San Valentino dell’anno scorso è stata l’ultimo momento di grande partecipazione comunitaria – insieme all’Assemblea della Zona Pastorale del 23-02-2020 – con le chiese piene e gli incontri amichevoli fitti. Dopo, tutto è stato fatto a singhiozzo e con mille limitazioni.

In questo anniversario io voglio leggere un nitido segno di fiducia e desidero infondere in tutti un grande incoraggiamento.

A distanza di un anno, magari bassa sull’orizzonte, brilla la speranza.

Dobbiamo affrontare ancora tutto quello che manca e sostenerci vicendevolmente per costruire. Non è solo il tema di “non abbassare la guardia”, per me è molto di più: fare crescere la solidarietà e l’amicizia; guardare a quanto di buono possiamo e potremo fare insieme; continuare ad essere esemplari e ad aiutarci tutti, finché non racconteremo di questi anni nei libri di storia. Poi ci saranno altre difficoltà e cercheremo di essere pronti.

Mi sembra bello ascoltare proprio in questo giorno di San Valentino la liturgia domenicale, in cui si staglia la parola di Gesù: “Lo voglio, sii purificato!”. Nessun cedimento al fideismo o a un’interpretazione magica come se Gesù – improvvisamente – da domani facesse andare bene tutte le cose. Quello che ascoltiamo nella fede, invece, è la conferma che la volontà buona di Dio è che l’uomo viva in un modo sano; Gesù non dice: “Sii guarito”, ma: “Sii purificato”.

Guariti nel corpo, quindi, ma soprattutto sanati e purificati da tutte quelle cose che potrebbero avere fatto male all’anima, allo spirito e alle relazioni.

Gesù, con la sua parola ci fa questo regalo e lascia alla nostra fraternità e alla nostra capacità di comunione il compito di saperlo accogliere e farne tesoro.

Don Davide




Guarire la solitudine

Il Vangelo di Marco ci presenta un’umanità afflitta da molti mali, alcuni più simbolici come una febbre che non ci fa essere attivi, altri più seri come delle vere e proprie malattie mortali. La parola, i gesti e la presenza stessa di Gesù vengono indicati come una liberazione da tutto ciò: appena uscito dalla sinagoga, si sprigiona da lui la potenza del Regno di Dio.

Ascoltando l’amara riflessione di Giobbe nella prima lettura, siamo spinti a riconoscere che c’è un male attuale più di ogni altro: la fatica del vivere, lo smarrimento del senso, la solitudine.

Anche chi – per fortuna o per merito – non conosce queste esperienze e le opprimenti situazioni emotive che provocano deve fare spazio nel proprio intimo e ascoltare il grido di chi ne soffre. È un’empatia necessaria. Ci sono tanti nostri fratelli e sorelle che gemono schiacciati da difficoltà troppo grandi per loro, che si chiedono come Giobbe che senso abbia esistere ed esistere così, e che sanguinano per la solitudine.

L’espressione più estrema di questa esperienza, qualcosa di analogo alle dimesse parole di Giobbe di oggi, è descritta da un grande scrittore e filosofo, che indica senza individuarlo il punto di rottura, quello che lascia molti essere umani come naufraghi solitari nel mondo:

«Ci dev’essere stato un momento di comunione in cui non avevamo alcuna obiezione da fare al mondo; com’è allora che la nostra solitudine è così profonda?

Dev’essere successo qualcosa, ma le radici della deflagrazione ci restano impenetrabili.

Noi ci guardiamo attorno, ma più nulla ci sembra concreto, più nulla ci pare stabile.» (Houellebecq, Cahier).

Oggi la Chiesa Italiana celebra la 43° Giornata per la Vita. A ben guardare, tutte le situazioni difficili o addirittura tragiche per la Vita hanno a che fare con la solitudine e con la fatica del vivere. Assumere la propria responsabilità per la Vita e per aiutare chi è in qualsiasi tipo di crisi significa soprattutto soccorrere questa solitudine, alleviare con dolcezza, amicizia e ogni premura quella sensazione che l’esistenza sia troppo grande e difficile da affrontare.

Il Vangelo risuona come una medicina alla malattia mortale di questo tempo: la solitudine. È importante ricordare che questa cura non avviene solo con l’annuncio della parola, ma anche con gesti concreti e con la presenza, proprio come faceva Gesù.

Per questo l’apostolo Paolo, nella seconda lettura, scrive che annunciare il Vangelo è una necessità che si impone: per quel desiderio di soccorrere coloro che hanno bisogno di essere aiutati a riconoscere o a riscoprire la Vita, propria o altrui, come una benedizione.

Don Davide




Gesù insegna anche oggi

«Entrato di sabato nella sinagoga, Gesù insegnava» (Mc 1,21).

L’esperienza di Israele di ritrovarsi nel giorno del riposo ad ascoltare la Parola di Dio e l’insegnamento dei maestri, è slittata per i cristiani al primo giorno dopo il sabato, quello della resurrezione, il primo giorno della Nuova Creazione.

In questa domenica, vorrei cogliere proprio un’analogia tra questo entrare di Gesù nella sinagoga e quello che accade dopo, in giorno di sabato, e quello che potrebbe accadere nell’entrare nostro, di domenica, nell’assemblea liturgica per la celebrazione eucaristica.

Gesù, in questa scena iniziale della predicazione del vangelo carica di simboli e di significati, viene descritto come il Messia che porta a compimento il Sabato, cioè la bontà della Creazione. Dio, infatti, nel racconto della Creazione, aveva creato il mondo in sei giorni, sigillando la sua opera con una sentenza che era anche una benedizione: «vide che era cosa molto buona» (Gn 1,31). E il settimo giorno, aveva perfezionato il suo operato concedendo a se stesso e al mondo di riposare in questa bontà.

Ora – in questo episodio – c’è qualcosa che non va: c’è un uomo posseduto da uno spirito «impuro». Attenzione: non è necessariamente un “indemoniato” come lo intendiamo noi. Il vangelo ci parla di «impuro», cioè di qualcosa che nulla può avere a che fare con la sinagoga, un luogo sacro, e soprattutto con il Sabato, che è il “sacro” per eccellenza.

Tuttavia, lo «spirito impuro» che si è impadronito di quel pover’uomo, se ne sta zitto e beato in sinagoga tra gli altri, senza che nessuno si accorga di quella presenza illegittima. È solo quando Gesù entra e comincia ad insegnare che si scatena, comincia a saltare sulla sedia, non può più starsene tranquillo, perché la parola di Dio giunge con un’autorevolezza ripristinata, nella voce del Maestro.

La parola di Dio, che risuona finalmente senza limitazioni attraverso Gesù, vuole ricostituire la Creazione nella sua bontà, e dunque non c’è più spazio per gli spiriti «impuri», per le cose che non corrispondono alla santità di Dio. Tutto questo è celato nella semplice affermazione che «Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava […] e uno spirito impuro cominciò a gridare…» (Mc 1,21.23).

Il paragone che vorrei proporre, forse un po’ azzardato, è semplicemente questo. Noi veniamo da un lungo periodo, quasi un anno, in cui un virus impuro – qualcosa che non corrisponde per nulla alla bontà della Creazione di Dio – ha trattenuto molti di noi dalla partecipazione alla messa. Questo virus si è annidato tra di noi, ha instillato la paura, ci ha appesantito, ci ha spinto alla rassegnazione. In più, abbiamo sentito tante parole logore, tanto “berciare” poco autorevole, che invece di dare coraggio, speranza e direzione, hanno creato confusione e ci lasciano disorientati.

La parola di Dio e la celebrazione liturgica, invece, hanno il potere di scavare nel nostro spirito e di andare a stanare tutti gli spiriti impuri che vorrebbero nascondersi ed opprimerci, cercando di non farsi scoprire.

Non vorrei essere frainteso. La mia non è solo un’esortazione interessata a serrare le fila e ritornare a messa; certamente è anche un incoraggiamento in quel senso, ma è molto di più. È la considerazione che proprio questo tempo potrebbe essere l’occasione inaspettata per riscoprire la forza di quello che accade nella messa festiva, il motivo principale per cui noi celebriamo la domenica. Non è certamente per timbrare il cartellino di un precetto e meno che mai per metterci la coscienza a posto. Il punto cruciale è avere un appuntamento con una parola che ha il potere di ricostituirci nel bene, di mettere a posto quello che non va, anche quello che facciamo fatica a percepire.

Certo, direte voi, l’autorevolezza di noi poveri preti che facciamo l’omelia non è la stessa di Gesù che insegna, e avete ragione. Ma l’insegnamento di Gesù, nella messa, avviene in modo molto più ampio. La sua parola viene proclamata al di là di chi la commenta. La sua voce risuona nelle preghiere liturgiche. È lui stesso che ci raduna, ci costituisce in unità e si offre a Dio Padre mostrandoci l’esempio.

Insomma, quando accediamo all’assemblea liturgica, di domenica, è Gesù stesso che insegna e non permette più a nessuno dei nostri spiriti impuri di stare tranquilli, e così ricrea in noi il bene, ci fa ottenere quella pace del cuore che tanto desideriamo e ci fa riposare.

Don Davide