Gratitudine

Eucarestia vuole dire ringraziamento.

Sono molte le ragioni per ringraziare oggi, nel giorno in cui la tradizione della Chiesa mette al centro l’Eucarestia, il Corpus Domini.

Non so se sia usuale dire a una comunità quanto le si vuole bene, però è così: in questa giornata io voglio dire alla mia comunità quanto le voglio bene, perché l’ho vista in gran spolvero in occasione della Coppa ACR – quest’anno OlimpiACR – e nella serata di festa, dove tutti hanno collaborato e si sono aiutati, e abbiamo gestito l’organizzazione con grande disinvoltura, valorizzando il protagonismo dei bimbi, dei ragazzi e dei giovani. Una comunità che cresce è il corpo di Cristo che si edifica, quindi siamo in perfetta sintonia con la festa di oggi.

In realtà, la gratitudine si estende alla considerazione di tutto l’anno e ai tanti obiettivi raggiunti, da ultimo anche il sito internet della parrocchia www.parrocchiasamac.it che, dopo un lungo e delicato lavoro, è ufficialmente pronto. Visitatelo!

Alle persone a cui si vuole bene e che si vogliono ringraziare si fanno regali, si fanno volentieri e belli, perché si possano sentire valorizzate. Mi stava a cuore che in questa solennità del Corpus Domini la nostra comunità potesse ricevere e custodire il trittico dal titolo In memoria di me di Ettore Frani: è un regalo che ci facciamo a vicenda, per valorizzarci, per rendere lo spazio delle nostre celebrazioni ancora più ispirato e per lasciare ai giovani una promessa di futuro importante.

Davanti ai nostri occhi stanno un calice e un pane semplicissimi, materici. Illuminati da una luce gentile sono esposti, ma non fragili, vigorosi di una concretezza che li rende veri. Inizialmente sembrano essere offerti, ma la posa garbata in cui emergono dall’oscurità si rivela insistente, attrae, pretende il coinvolgimento. C’è un momento sospeso, un’attesa, in cui prendiamo contatto con la materia, con le cose più umane nei simboli del vino e del pane: l’amicizia, l’amore di qualcuno che li ha preparati, la fame, la sete, il profumo, il gusto e i desideri, portando nella mente e nel cuore parole di benedizione. Allora accade qualcosa di misterioso e indicibile. È una luce che prende tutta la nostra realtà e la trasfigura e disegna la nostra esistenza come una mensa.

Don Davide




La preghiera a Maria e ai giovani

La preghiera dell’Ottavario, nella settimana appena trascorsa, avrebbe meritato anche solo per ascoltare i giovani in quei pochi minuti durante i quali, ogni sera, hanno commentato un testo della Scrittura, mettendosi in gioco personalmente.
Simbolo di ogni speranza per la Chiesa, i giovani che prendono parola nell’assemblea e dicono: “Questa parola mi riguarda e mi legge” sono stati, con la loro semplicità e la loro emozione, il segno di un’esistenza possibile per il Cristianesimo futuro.
Insieme a loro, voglio mettere in risalto l’atteggiamento di alcuni adulti, che hanno mostrato in questo ascolto dei giovani simpatia e cordialità e hanno avuto l’attenzione, al termine delle varie serate di preghiera, di andare a ringraziarli, di scambiare qualche parola con loro, di incoraggiarli e di abbattere in un solo colpo quella distanza a volte siderale tra l’universo giovanile e il mondo degli adulti. Voglio ringraziarli sinceramente per questo stile, che considero positivo e costruttivo e mi auguro possa crescere in tutte le direzioni nella nostra parrocchia: la capacità di fare crescere un’attenzione a tutto tondo per la cura di quello che accade, la complicità con chi si mette in gioco, l’affabile amabilità e amicizia di sostenere i percorsi e gli impegni anche quando non mi coinvolgono direttamente. In una parola, l’espressione di una paternità e maternità generativa degli adulti nei confronti dei giovani.
Se una comunità si edifica in questo modo, sono certo che troverà la via per continuare a testimoniare la fede anche di fronte alle molte, talvolta preoccupanti sfide che ci attendono.
In questa domenica si conclude l’Ottavario di preghiera di fronte alla Madonna della Salute. A lei affidiamo certo la salute di tutti i nostri ammalati, ma affidiamo anche la salute e la cura della nostra testimonianza, delle nostre attività pastorali e, in definitiva, della Chiesa, che tutti noi amiamo e vogliamo viva.

Don Davide




Parola e speranza ai giovani

Passata la Domenica in Albis, in questa domenica di festa in cui 28 bimbi della nostra parrocchia fanno la Prima Comunione, desidero riproporre le due belle testimonianze di Maria Clara e Anna Giulia – in rappresentanza dei giovani – all’inizio della Veglia Pasquale.

Abbiamo dato parola ai giovani perché lo ha chiesto Papa Francesco, in quest’anno dedicato al Sinodo dei Vescovi sui giovani, che si celebrerà a ottobre.

In questo modo vogliamo anche fare una specie di augurio ai bimbi che vivono in questa domenica il loro primo incontro con Gesù nell’Eucaristia.

Ci auguriamo di saper dare loro spazio all’interno della comunità cristiana; che trovino una chiesa giovane e viva, accogliente per la loro fede e la loro umanità, e che loro – i bimbi di oggi, uomini e donne di domani – possano concorrere a renderla sempre più bella.

Don Davide

 

(Prima testimonianza) Cosa ti auguri per la Chiesa in rapporto ai giovani?

In questa notte in cui Gesù, dopo averci svelato nella sua vita terrena la sua natura di uomo debole, fragile e mortale, e aver condotto il suo amore fino all’estremo sacrificio sulla croce, è risorto per guidarci nella vita…

In questo anno 2018, in cui Papa Francesco ha scelto di porre al centro della riflessione e della preghiera della Chiesa, i giovani, tutti i giovani, qualsiasi sia la loro vicinanza a questa istituzione, dicendo loro: “Ho voluto che foste al centro dell’attenzione perché vi porto nel cuore” …

Mi auguro che tutti gli uomini di chiesa, dai parroci ai vescovi, sappiano pienamente accogliere le indicazioni del Papa,

  • promuovendo iniziative volte a valorizzare la vitalità, l’entusiasmo e l’idealità dei giovani,
  • e incanalando le loro potenzialità per arricchire la grande comunità ecclesiale che, a sua volta, deve saperli guidare e sostenere.

Mi auguro che la Chiesa sappia mostrarsi come un porto sicuro in cui sempre poter ritornare, senza sentirsi in alcun modo giudicati.

Tutte le differenze individuali dovrebbero essere accettate e apprezzate, perché ogni giovane possa sentirsi veramente accolto e, in questo modo, sia più libero di dare un contributo sincero al camminare insieme e si senta rappresentato e ascoltato nella progettazione delle proprie speranze per il futuro.

Maria Clara Chionsini

 

(Seconda testimonianza) Cosa significa, per te, credere nella resurrezione?

Per me credere nella resurrezione significa credere nella resilienza. Credo che la resurrezione ci metta davanti alla possibilità di scegliere tra le cose giuste e quelle sbagliate, tra l’agire e l’essere passivi; ci chiede di scegliere da che parte stare.

Credere nella resurrezione significa, per me, sapere di avere sempre una speranza e una possibilità, se so essere abbastanza forte da accoglierla e sceglierla.

Credere nella resurrezione significa avere fiducia nell’essere sempre accompagnata da lui, da Gesù che è vivo e presente, che mi rassicura di potere superare le difficoltà che la vita mi ha posto, mi pone e mi porrà davanti.

Anna Giulia Ballardini




Suoni di guerra e fondamenta preziose

Ripetutamente, in quest’anno dedicato al Sinodo dei Vescovi sui giovani, il Papa ha chiesto alle chiese di dare parola ai giovani e che tutti si mettano in ascolto. Lo ha fatto anche di recente, nella fase preliminare del Sinodo, chiedendo ai giovani di parlare con coraggio e di dire quello che pensano davvero.

Seguendo l’itinerario della Veglia Pasquale (attraverso le tre letture su sette che sono state scelte) abbiamo un paradigma, anche per chi celebra ad altri orari, del nostro itinerario spirituale in queste feste.

La celebrazione di questa Pasqua inizia per la nostra comunità cedendo la parola ai giovani. All’inizio della Veglia, il primo annuncio della Resurrezione e anche l’accensione del Cero Pasquale sono affidati alla testimonianza di due giovani donne, unendo così entrambi i dati del Vangelo di Marco: la presenza di un giovane ri-vestito di bianco (ricordarsi il giovane che è fuggito via nudo all’arresto di Gesù!) e delle donne.

Il lungo ascolto della Parola di Dio incomincia poi da una domanda rivolta da Dio a ciascuno di noi (3° lettura): “Perché gridi? Smettila di gridare – sembra dire – e attraversa i flutti. La fede non è forse affrontare cammini apparentemente impossibili, chiamati dalla Parola?”. Seguiamo così il racconto del passaggio del Mar Rosso, dallo stile militare e dai toni epici, imprescindibile per la sua forza di prefigurare un’altra vittoria, in un’altra guerra ben più radicale: quella contro la morte. Dobbiamo ascoltare questo racconto non ponendoci i problemi morali di oggi, ma lasciandoci trascinare nella narrazione e nel suo ritmo incalzante, sentendo lo sgomento di Israele e il terrore dei nemici. Solo così potremo intuire la verità delle parole di San Paolo: “O morte, dov’è la tua vittoria?”.

Si prosegue con una delle letture più belle di tutta la Bibbia (4°) che descrive l’inarrestabile forza d’amore di Dio per il suo popolo, personificato nella figura della Gerusalemme sposa. “Afflitta, percossa dal turbine, sconsolata, ecco io pongo sullo stibio le tue pietre e sugli zaffiri le tue fondamenta…” (Is 54,11). Basterebbe la lancinante bellezza di questo versetto per innamorarsi di tutta la Sacra Scrittura.

La terza e ultima tappa nel percorso dentro l’Antico Testamento è la lettura del profeta Baruc (6°). Essa contempla la Sapienza di Dio. È l’esito che possiamo augurarci, quando usciremo dalla celebrazione della Pasqua: di essere innamorati della Sapienza, di desiderare, di cercarla, di iniziare a meditare la Parola di Dio ogni giorno, di sapere che abbiamo un tesoro imparagonabile che aspetta solo di essere trovato.

Il passaggio al canto dell’Alleluia, trattenuto fino a questo punto della celebrazione, viene accompagnato da San Paolo, che ci ricorda che l’uomo vecchio è morto e vive il nuovo. Siamo uomini nuovi quando siamo orgogliosi del nostro Battesimo, non timorosi quasi che fossimo i pochi ad avere mantenuto un retaggio religioso/spirituale. Noi siamo orgogliosi di essere cristiani, perché con Gesù partecipiamo di una responsabilità mozzafiato per la vita del mondo. Lo facciamo con gli orizzonti più ampi possibili, ma sapendo di dovere partire dai noi stessi. I suoni di guerra contro la morte e le fondamenta preziose dell’amore di Dio, per noi e per tutti, sono l’essenza di questo cammino.

Lo facciamo lasciandoci rinnovare il cuore e cercando di aprirlo, di spalancarlo il più possibile. Siamo uomini nuovi.

Don Davide




Un ragazzo con un lenzuolo

Nella scena dell’arresto di Gesù nel Getsemani, l’evangelista Marco inserisce un particolare enigmatico: un ragazzo, vestito solo di un lenzuolo, che prova a seguire Gesù anche dopo il suo arresto. Le guardie sono indisposte da questa presenza, lo afferrano ed egli, lasciando il lenzuolo, fugge via nudo.

È una figura che non ha alcun collegamento con la narrazione, almeno apparentemente, tanto da destare le più svariate interpretazioni, fino a fare immaginare che sia la firma dell’autore del vangelo stesso, con un’ammissione di umiltà: quel ragazzo sarebbe Marco, che prova a seguire Gesù anche nella Passione, ma anche lui scappa nella sua nudità.

C’è un tentativo estremo di seguire Gesù, anche nel momento della Croce, di non lasciarlo solo e di non fare come tutti gli altri discepoli, ma anche questo tentativo fallisce.

È un’immagine potentissima del nostro bisogno di vita, dell’urgenza di celebrare la Pasqua non solo liturgicamente, ma togliendo via il vecchio dalle nostre vite e accogliendo il nuovo che lo Spirito del Risorto si accinge a portarci.

Nella figura di «un ragazzo», però, scorgiamo anche un altro significato. Vediamo l’estremo tentativo di qualche giovane di seguire Gesù, in una ricerca di radicalità, prima di venire definitivamente confuso.

I giovani se ne vanno, non solo dalle nostre chiese, ma dalla fede, dal rapporto con Gesù, dalla dimensione religiosa della vita. E anche quelli che provano resistere tenacemente in un tentativo di radicalità di vita, vengono poi «afferrati», invece che accompagnati; «spogliati», invece che riempiti; spaventati e confusi, invece che incoraggiati a confermare la direzione.

Non vedo simbolo più eloquente della “passione” che si consuma – insieme a quella di Gesù – della Chiesa e del mondo.

La chiesa senza giovani morirà, e non bisogna risolvere la cosa troppo superficialmente rifugiandosi nella provvidenza dello Spirito Santo, il quale si fa sentire… se i cristiani ascoltano. Bisogna piuttosto pensare a quanto è accaduto alle chiese del Nord-Africa o dell’Asia Minore dopo i primi secoli del cristianesimo.

In questo gesto di ultima spoliazione, si manifesta l’esito di tutte le trivialità e le superficialità dentro e fuori la Chiesa: la miopia di chi si lamenta perché la vita della Chiesa cambia; le proteste di chi non ha la messa all’ora e al minuto che vuole lui e nella chiesa che piace a lui; la mancanza di comprensione di chi si lamenta perché deve fare 100 mt in più per raggiungere una funzione… L’ottusità di chi pensa che tutti i problemi del mondo derivino dalla Chiesa; la disonestà intellettuale e spirituale; la severità con cui vengono giudicati i preti e i ministri della chiesa quando non sono brillanti, attivi e capaci; la banalizzazione di tutte le cose.

Nel giovane resistente, spogliato persino dell’ultimo lenzuolo e fuggitivo, ci specchiamo in un salutare bagno di purificazione, con la speranza che a Pasqua lui, la Chiesa e ciascuno di noi possiamo essere di nuovo vestiti.

 Don Davide




Ancora sui giovani, attraverso Star Wars

star wars

Ho trovato molto stimolanti per alcune intuizioni i recenti interventi su Settimana News di Thies Münchow (17/12/2017) e di Andrea Franzoni (24/12/2017), pur discordando dalle loro conclusioni riguardo l’interpretazione del vissuto dei giovani e del rapporto tra le generazioni.

Su ogni film degli Jedi ormai viene detto di tutto, con il sospetto che le valutazioni siano più o meno parziali a seconda che ci si posizioni tra quelli come me, che si accontentano di due spade laser, una battaglia spaziale e qualche creatura strana, e quelli che cercano in Star Wars un film d’autore, magari un po’ alla francese. Ho volutamente enfatizzato gli estremi, per introdurre la prima considerazione.

Quando si tratta di un prodotto della cosiddetta cultura pop si avverte subito un sospetto per il fatto di essere mainstream, di strizzare l’occhio al merchandising e di essere solo l’ultimo atto di un impero come la Disney che – come recitava un simpatico post su Facebook in questi giorni – fra qualche decennio conquisterà l’intera galassia a forza di acquisizioni miliardarie. E sempre si sfugge, con un certo atteggiamento di superiorità, alla vera domanda: come mai una cosa così parla a tutti, mentre altre rimangono strette in una supposta cultura alta, per lo più autoreferenziale?

Bisognerebbe, inoltre, essere molto più cauti nello stabilire giudizi di appartenenza cristiana o non cristiana a storie che non hanno un obiettivo religioso. La considerazione di una concezione «neo-pagana dell’universo che è anche fortemente anticristiana»[1] sta alla storia di Star Wars come se volessimo giudicare il Signore degli Anelli anticristiano perché gli elfi sono immortali. Sarebbe molto meglio interrogare le storie senza pregiudizi o post-giudizi inappropriati e chiedersi invece: che cosa interpretano con il loro potere di affascinare? In altre parole: che cos’è che Star Wars dice meglio di altri, pur con tutti i suoi (presunti) difetti?

Rottamazione

Thies Münchow individua, e io concordo, il punto più alto del film quando Kylo Ren e Ray si sbarazzano del Leader Supremo Snoke e poi giocano come alla Playstation contro le sue guardie. Il signore dei cattivi, pur riconoscendo nel suo apprendista una Forza indomita e senza pari, lo ha trattato fino a questo momento come un giovane garzoncello, umiliandolo addirittura per imporre i suoi scopi e la sua visione del potere. Kylo Ren, in tutta risposta, lo inganna proprio mentre questi commette un errore provocato della propria supponenza.

Ray si trova lì in quel momento, perché anche lei – a suo modo – si è dovuta «sbarazzare» di Luke Skywalker, che si ostinava a rifiutarsi di darle il suo aiuto. La scena è oggettivamente molto bella: con uno sfondo pompeiano in cui cadono i lapilli e le macerie di un mondo esploso, per un istante i due si trovano alleati, in equilibro perfetto di bene e male, in cui uniti potrebbero diventare sovrani invincibili della galassia. In tale gesto di ribellione di Kylo Ren (e Ray) c’è un atto supremo di rottamazione.

Per la prima volta il potere non viene trasmesso dall’oligarchia dei cavalieri (buoni o cattivi che siano) per diritto/dovere di successione – atto che ha la sua origine sempre in chi lo precede – ma perché viene preso – atto che ha come protagonista chi viene dopo, colui che emerge sulla scena. In fondo, la Forza stessa è un po’ anarchica: Luke e Leia hanno sangue reale, ma la Forza, in Anakin, veniva dal nulla e Ray è figlia di due signori nessuno.[2]

L’evento di Kylo Ren e Ray non ha precedenti, perché non si tratta qui di un passaggio al male con la presenza dei maestri buoni dall’altra parte (come nel caso di Anakin con ObiWan in Episodio III), o viceversa (come nel caso della redenzione di Darth Vader al cospetto di Lord Sidius in Episodio IV). In quei momenti c’era sempre l’alter ego predecessore. Qui invece, finalmente, i predecessori sono spazzati via. L’unico alter ego è giovane ed è perfettamente alla pari.[3]

Cari giovani, prendete parola

Non si tratta tanto della riflessione sull’uso e l’abuso del potere, quanto su come ci si sbarazzi di una presenza egemonica che non lasci spazio.

In questo momento del film ci si trova a una specie di punto zero. Un evento altissimo, anche cinematograficamente. «L’evento porta necessariamente con sé la decisione. E la decisione soltanto implica parzialità» scrive Thies Münchow nelle sue interessantissime considerazioni. Ma nella decisione che ne consegue, lui rileva la caduta di stile del film, un ritorno ai soliti schemi di bene e male, laddove tutto invece poteva accadere. Lo sviluppo della narrazione negherebbe la vera svolta della saga.

Io ritengo, invece, che la svolta sia già tutta contenuta nella scena precedente. Dopo la decisione dei due protagonisti la narrazione non può che riproporre l’unico tema a cui effettivamente corrisponda la realtà: cosa ne sarà dell’ultimo alfiere della rivoluzione? «Ho visto tutti i viventi che si muovono sotto il sole stare con quel giovane, che era subentrato al re. Era una folla immensa quella che gli stava davanti. Ma coloro che verranno dopo non si rallegreranno neppure di lui. Anche questo è vanità, un correre dietro al vento.» (Qo 4,15-16). Non appena costui/costei sceglie di nuovo il potere, il potere stesso genererà di nuovo la lotta tra il bene e il male. Nemmeno Tolkien ha potuto sfuggire a questo, tanto che il famoso anello non può che essere distrutto. Così, la scena di Kylo Ren e Ray che si contendono (e spezzano a metà) la spada laser, simbolo supremo di questo nuovo spazio acquisito, è certamente di nuovo la storia di chi sceglie il potere e di chi cerca un’altra via per dare seguito alla rivoluzione.

star wars ultimi jedi

La cosa veramente nuova, in questo caso, è che entrambi la rivoluzione l’hanno già fatta. Il messaggio per i giovani è: «Cari giovani, c’è davvero bisogno di una rottamazione, di una rivoluzione. Non avverrà un passaggio di consegne: prendete parola, prendete i vostri “eventi”, ma prendeteli. (Se penso alla vita della Chiesa, non posso che riscontrare la profonda corrispondenza di questo invito alle sfide che si manifestano). Però sappiate che appena vi ritroverete la spada laser in mano, tornerete subito ad avere il problema di come gestire i cambiamenti che avrete portato. Le ombre delle rivoluzioni fallite o sfociate nel loro contrario saranno sempre il vostro Lato Oscuro. E Kylo Ren e Ray perennemente il vostro monito. Ogni volta che dovrete prendere una decisione, non potrete non pensare a loro due che si contendono (e spezzano) una spada laser».

Discepoli e maestri

L’altro insegnamento de Gli ultimi Jedi è riguardo al ruolo dei maestri. Stabilita la rottamazione operata dai giovani, cosa ne rimane del rapporto dei maestri con i loro discepoli? Saranno maestri offesi di questo rifiuto? Che tipo di maestri saranno costoro su cui ricadono, proprio per questo, responsabilità sempre più grandi?

Trovo importante notare, innanzitutto, che la Ray inesperta ritiene inizialmente di potere fare qualcosa soltanto con la guida di un maestro, ma compie il suo passo decisivo solo nel momento in cui si scontra con il fallimento/rifiuto del proprio mentore. Forse è necessaria questa delusione e una tale dolorosa presa di distanza, perché un apprendista possa tirare fuori veramente qualcosa di nuovo.

Non a caso il grande Yoda, consapevole di ciò, salutò prematuramente con la propria morte il giovanissimo Luke prima che lui ritenesse di essere pronto, per lasciargli lo spazio necessario al suo vero apprendistato, quello della realtà (Episodio V). La rottura tra Ray e Luke, ingabbiato nel suo fallimento, permette almeno a Ray di seguire le proprie intuizioni.

L’interpretazione di Andrea Franzoni legge in questo processo un esito decadente: i maestri abdicano al loro ruolo, «il futuro si costruisce sul fallimento dei maestri, da soli e senza una guida».[4] Ma questa analisi coglie solo una parte del messaggio, e perciò inevitabilmente lo distorce.

Meraviglioso insegnamento

Il punto vero, come dice l’emblematica scena del dialogo tra Yoda e Luke, non è che le nuove generazioni si formano sugli sbagli dei loro maestri: in questo modo la costruzione verrebbe edificata storta, una rovina compromessa dalle fondamenta, e l’unica possibilità di ovviare a tale problema sarebbe che un maestro fosse perfetto, cosa impossibile. Il punto vero è che i maestri devono convertire la loro ridicola presunzione oligarchica, dice Yoda. In tal senso, Luke sostiene il vero quando afferma che, proprio all’apice del loro potere, i Maestri Jedi hanno permesso l’ascesa di Lord Sidius.

Quale meraviglioso insegnamento, questo, laddove i nostri maestri, i fondatori, i custodi, i garanti della tradizione, pretendono una tale purezza da non riuscire più a cogliere i veri problemi dei giovani e del mondo! Yoda insegna a Luke che non c’è cosa che si trovi nei libri che Ray non sappia già dall’inizio (come a dire: quel tipo di sapere non serve più a nulla!) e che la questione decisiva è che i maestri imparino dai fallimenti e che trovino un nuovo modo di «non perdere»[5] i propri apprendisti. Ciò che non si deve in alcun modo fraintendere è che i maestri devono imparare dai propri fallimenti, non i giovani dai fallimenti dei maestri, come invece pare che affermi l’interpretazione di Franzoni. Esito a cui approda il film, in effetti, e che giustifica il finale dopo la resa dei conti di Kylo Ren e Ray contro Snoke e i suoi scagnozzi.

Infatti Luke, per non perdere anche Ray, non si proporrà più come suo maestro in veste tradizionale, ma le concederà tempo perché possa scoprire in lei stessa le vie della Forza. Contrariamente al giudizio che vede in Episodio VIII una trama incerta e spezzettata, gli autori – probabilmente non del tutto consapevolmente, come accade in questi casi, ma trainati dalla forza della storia – ci propongono un messaggio di estrema coerenza e forza interpretativa dell’oggi.

I giovani devono avere la forza di operare una rottamazione. Non gli sarà concesso da nessuno questo passaggio, che dovranno conquistarsi anche con delle rotture. Quei pochi maestri rimasti, che vorranno non fare i permalosi o gli oligarchi attaccati al potere, potranno avere la massima stima di quei giovani intraprendenti, creare lo spazio e concedere loro tempo finché non trovino la loro strada, poi congedarsi serenamente vedendo due soli: quello che tramonta e quello che sorge.[6]

 

Davide Baraldi

 


[1] A. Franzoni, «Star Wars VIII: Gli ultimi Jedi». La rinuncia dei maestri, in SettimanaNews 24/12/2017.

[2] Bellissima, in quest’ottica, anche l’ultima scena del film, con il bimbo piccolo – un outsider completo con il simbolo della Resistenza – che manifesta le vie della Forza e usa la scopa come una spada laser, guardando l’infinito.

[3] Sulla composizione di questo equilibrio tra Kylo Ren e Ray, il film è costruito meticolosamente.

[4] A. Franzoni, «Star Wars VIII: Gli ultimi Jedi». La rinuncia dei maestri, in SettimanaNews 24/12/2017.

[5] Citazione testuale dello scambio tra Yoda e Luke.

[6] La vocazione di Luke era stata espressa nella celeberrima scena dei due soli su Tatooine (Episodio IV) e ora fa inclusione con la fine della sua vita, in modo eccellente e tutt’altro che improvvisato.

 

Testo scritto per Settimana News il 31 dicembre 2017




Generazione Selfie

Una fotografia dei giovani a fine estate non può trascurare la canzone di Lorenzo Fragola e Arisa dal titolo Generazione Selfie, che ha imperversato in tutte le spiagge e in tutte le radio accese nei giorni del solleone. Perché i giovani scattano i selfie e, a dire la verità, anche i meno giovani, gli adulti e qualche anziano, secondo quel principio contemporaneo che tutti tendono a ciò che è giovanile.

Una coincidenza interessante accompagna queste considerazioni, almeno per chi si sta impegnando in questi giorni a programmare l’attività pastorale dei gruppi nelle proprie parrocchie. L’Azione cattolica italiana, infatti, ha proposto come immagine guida dei sussidi dei ragazzi proprio quella della fotografia, con lo slogan: “Pronti a scattare”. Metafora ricchissima, ci basti pensare che, quando Gesù raccontava le parabole, faceva la stessa operazione di un bravo fotografo: fissava una realtà che era davanti ai suoi occhi, osservandola sotto una particolare luce e con una specifica angolatura e messa a fuoco. Se avesse avuto in mano una Canon, o uno smartphone, avrebbe scattato una foto.

Il selfie è più bello

Sono stato testimone qualche giorno fa della passione per i selfie. Un gruppo di ragazzi ammucchiati decide di farsi una foto, più precisamente un selfie, con lo sfondo delle Dolomiti. Inquadratura impossibile, loro sono troppi, il telefono a distanza di braccio è troppo vicino e l’orizzonte invisibile. Dico: “Dai ragazzi, ve la faccio io la foto!”. Risposta: “Ma il selfie è più bello!”.

Il selfie è più bello?! Dal punto di vista tecnico non c’è una sola ragione che renda un selfie più bello di una foto scattata da un altro. Inoltre, l’elemento paradossale è che, a dispetto del titolo, che si è imposto come una sorta di consacrazione del selfie, la canzone di Arisa e Fragola esprime in maniera intelligente una notevole problematizzazione di quest’esperienza:

«Siamo l’esercito del selfie, di chi si abbronza con l’iPhone,
e non abbiamo più contatti,
soltanto like a un altro post…
Ma tu mi manchi, mi manchi, mi manchi,
mi manchi in carne ed ossa».

A dispetto di tutto ciò, il selfie è davvero in grado di raccontare una generazione o almeno qualche suo riflesso.[1] Che cosa dunque fa percepire il selfie più bello, a parte la moda?

La percezione

Quello che fa la differenza, prima di tutto, è la percezione. Nel selfie c’è la percezione di essere infinitamente più protagonisti di quello che sta accadendo, la convinzione di potere curare se stessi fino a creare un personaggio, la suggestione di mostrare di sentirsi vivi. A ben guardare, è più che altro questione di percezione, ma è appunto questa che fa la differenza. Lo ripeto: la generazione selfie ci insegna che la percezione fa la differenza.

Tutto ciò non è esente da problemi, ma almeno inizialmente dovremmo assumerlo con tutta la serietà del caso. A dispetto della tentazione retorica per cui la Chiesa non si curerebbe della percezione perché baderebbe alla sostanza, dobbiamo preoccuparci di non allontanare i giovani con la prima impressione che diamo. Ambienti brutti, incontri scialbi e quell’alone di non vero interesse per le loro cose: non si può scaricare la colpa su di loro, dicendo che sono superficiali e che non è giusto giudicare frettolosamente. Questo è vero, ma va insegnato di nuovo e non certamente come primo atto.

L’impatto iniziale, immediato, irrazionale, emotivo è il primo ponte gettato verso quel famoso nuovo annuncio di cui ancora stiamo abbozzando i primi passi. C’è un modo altezzoso o trasandato, formale o eccessivamente scialbo che caratterizza ancora un certo stile di Chiesa e degli ecclesiastici che va curato con più attenzione, senso dell’opportunità e bellezza. Non si tratta certo di legittimare la moderna ossessione per l’apparenza, ma di permettere che il processo dell’incontro, che va sempre dall’esteriorità all’interiorità, non trovi ostacoli prima di potere giungere alla meta.

Il primato del dirsi

L’altro elemento che fa la differenza è il primato del “dirsi” piuttosto che dell’essere detti. Il selfie è un modo di raccontarsi in cui l’azione soggettiva (e la successiva possibilità di essere riconosciuti, magari con un «like a un altro post») vale più di tutti gli altri elementi della comunicazione.[2] Pensiamo a Gesù che dilata il dialogo con il giovane ricco per farlo parlare e venire allo scoperto, oppure quando chiede: «Che cosa vuoi che io faccia per te?».

La nostra pastorale, invece, sottovaluta in molti aspetti – talvolta inconsapevolmente, talvolta colpevolmente – questo bisogno. Il famoso metodo esperienziale, che intercetti in modo non banale la loro domanda di vita, è ancora messo in discussione o solo balbettato. I documenti ufficiali, così come molti sussidi catechistici, dicono tantissime cose dei giovani, con il dubbio che li abbiano mai lasciati parlare veramente.

Infine, mentre i viceparroco sono una razza in via di estinzione e le risorse pastorali in favore dei giovani vengono razionalizzate (magari affidando al clero molteplici incarichi), si mantiene saldamente una struttura e un’organizzazione ecclesiale che impedisce in ogni modo ai preti di perdere tempo coi giovani, di ascoltarli e di accompagnarli a lungo.

La mia amara, personale esperienza è il rischio di risolvere le cose con qualche consiglio e poche istruzioni moraleggianti… e così continueranno con i selfie, in scenari ben diversi dai nostri. E qualcuno condannerà ancora la loro autoreferenzialità e lasceremo che Apple, Facebook o qualcos’altro intercettino i loro stili e i loro bisogni.

Il desiderio di avere in mano una reflex

Invece sarebbe bello potere reagire e riuscire a comunicare ai giovani che la foto vogliamo farla insieme, come vogliono loro, ma con una reflex, in modo che si vedano bene i volti, i sorrisi e la luce dei loro occhi, e anche le Dolomiti sullo sfondo, e poi farne un ingrandimento e tenerla tra le nostre cose più care.


[1] [Redazione], Selfie. La cultura dell’autoscatto che racconta una generazione, in Wired 20/11/2017.
[2] A questo proposito è impressionante digitare su Google: “generazione selfie” per vedere quanti articoli molto critici o addirittura catastrofici si trovano scritti dagli adulti, e poi scovare un intervento fresco, positivo e pieno di energia che riporta, guarda caso, la prospettiva dei ragazzi di Radio Immaginaria: vd. F. Taddia, Selfie di una generazione: “Vedrete, diventeremo adulti felici”, in La Stampa 25/08/2017.

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews il 12 settembre 2017




Il virus benefico dell'”Estate Ragazzi”

Estate è tempo di centri estivi, un meraviglioso virus che colpisce i ragazzi dopo la scuola, provocando in loro sintomi di incondizionata generosità, serenità, allegria e voglia di vivere che, alle volte, pare soffocata tra i banchi delle loro aule. Perciò, come se fossimo in un laboratorio di microbiologia, procedo in questa riflessione estiva con un’osservazione sperimentale di questo virus di cui i giovani sono portatori sani.

Un’osservazione sperimentale

La scena è quella della verifica delle attività a fine giornata. Li osservi, i ragazzi e le ragazze: sono le 6 del pomeriggio ed è ancora un caldo che ti sciogli e pensi che loro sono stati lì a correre e a giocare con i marmocchi da almeno sette ore. Hanno la maglia lercia, nelle mani residui di vernice, terra e ogni altro materiale utilizzato. Stanno abbracciati gli uni con gli altri, qualcuno poggia la testa sulla spalla di un’amica, qualche sentimento si manifesta in modo palese dalle posture dei corpi.

Non importa se sono ufficialmente impegnati, immorosati (come si dice a Bologna) o fidanzati. Quello che conta è che vivono spontanei; per una volta non hanno timore che il don li rimproveri. Infatti fumano, anche. Non tutti, ma alcuni, liberamente, in questo momento di relax al riparo dei bambini, fumano, recuperando immediatamente la loro tensione all’età adulta.

Nel frattempo si confrontano su come sia andata la giornata, talvolta anche aspramente. Ogni tanto pare che litighino. Il don, che cerca di supervisionare tutto senza ingerire, nutre qualche timore che le cose siano andate male.

Invece, appena i responsabili dichiarano chiuso il momento di verifica, partono le battute, tutti sorridono, arrivano i gelati e le merende, scattano tornei mondiali di calcetto, basket, pallavolo o il mitico schiacciasette. E pronti per una nuova giornata, si riparte.

Tre osservazioni

Da questa esperimento raccolgo alcune osservazioni.

1. Il sudore (che non è mai un problema) dice quante energie i giovani abbiano da tirare fuori. Penso a tre ambiti in cui quest’esperienza contrasta completamente con la vita di fede che offriamo loro.

a) La liturgia. Sembra che non ci sia niente di meno energetico o dinamico di una liturgia cattolica. Talvolta pare quasi che ci si compiaccia di una certa pesantezza e lentezza, come se fosse l’unico modo di elevarsi a Dio, quando invece è l’unico modo di schiacciare un sonnellino. E si vedono le energie dei giovani implodere, come se non desiderassero altro che questa tortura finisca al più presto.

b) Gli incontri di formazione. Più che di incontri, bisognerebbe parlare di modelli: i nostri modelli di formazione sono per lo più teorici, concettuali, mentali. È rarissimo che ci siano delle dinamiche che coinvolgano il corpo in maniera non artificiosa, e diventa quasi impossibile che l’esperienza della fede passi dalla mente al corpo, dalla testa alla vita.

c) La carità. Dovremmo trovare modi e tempi per proporre esperienze attive di carità, roba da fatica di muscoli e sudore sulla pelle. Qualcosa che però faccia poi toccare tangibilmente il frutto di questa fatica: l’incontro con la famiglia per la quale si è fatta la raccolta o l’utilizzo dello spazio che si è andato a risanare.

2. Il gruppo. L’incredibile differenza tra l’impegno dei giovani durante l’anno e quello nei centri estivi è la presenza di un gruppo molto numeroso. In questo fenomeno si riconosce il bisogno di coinvolgimento, ma soprattutto il sentirsi parte di qualcosa di più grande. Allo stesso tempo, si vede la necessità di fare un’esperienza di Chiesa che sia vivace e ampia, non ridotta agli spazi angusti del gruppo parrocchiale, che talvolta – pur con tutto il bene che porta – appare più che altro una riunione di sopravvissuti.

3. La responsabilità. Nelle mie evoluzioni da giovane cappellano (sempre in prima linea, armato di braghini corti, cappellino e t-shirt degli animatori) a parroco (costretto, volente o nolente, a delegare molta responsabilità), ho visto che i giovani, accordandosi fra di loro e guidati da qualcuno appena più grande, sono in grado di fare cose impensabili se solo solo gliele chiedesse il parroco, tipo lasciare il cellulare per un’intera giornata, darsi appuntamento prestissimo al mattino, dividersi fra di loro per essere più distribuiti nel pranzo o nelle varie attività. È il prodigio della responsabilità consegnata, quella molla che ti fa capire che vali, che la tua presenza è importante, che puoi fare la differenza. Forse, da questo laboratorio di osservazione, possiamo quindi anche ricordarci che niente è così decisivo, nella formazione dei giovani e nella loro esperienza di fede, quanto la consegna di un ruolo da protagonisti.

Conclusione

Sono le 8 di sera. Sono passate quasi due ore dall’inizio dell’osservatorio sperimentale. Il don è andato a dire la messa ed è tornato per salutare gli ultimi rimasti. Negli occhi dei responsabili nota la stanchezza, ma anche la soddisfazione per un altro giorno messo a bilancio… e un po’ di questo orgoglio lo condivide con loro. Ancora qualche accordo per una birra o un gelato alla sera, poi tutti si disperdono… “Ciao don, a domani”.

“Ciao, a domani!”. Il portone si chiude e anche il cancello del cortile. “Ehi, sono rimasti fuori i palloni! E i vassoi della merenda?! Quante volte vi ho detto di rimettere a posto i vassoi della merenda!?”. Sbam! Sbatte una finestra del primo piano che non è stata chiusa. “Chi va a chiudere?”. Il don si guarda intorno, ma ormai non c’è più nessuno. “Accidenti!”.

Il virus ormai ha terminato il suo effetto. Almeno per oggi non sono più infetti e, per fortuna, nemmeno perfetti.

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews l’8 agosto 2017




La felicità è un’impronta

L’orma del sedere sul divano, o l’impronta del piede sulla strada?

Sembra questa la posta in gioco del papa nella sua partita con i giovani. L’anno scorso, durante la GMG a Cracovia, aveva già parlato della “divano-felicità”: “la tentazione di pensare che la felicità dipenda da un buon divano”. L’aveva definita “la paralisi silenziosa che può rovinare di più la gioventù” e si era lamentato di quei giovani che vanno in pensione dalla vita a vent’anni.

Come un abile giocatore di poker aveva detto: “Ci sto, gioco!”. Aveva messo sul piatto un bel centone e aveva provocato i giovani a raccogliere la sfida. E loro, i giovani, l’hanno fatto. In mille modi, da Cracovia al recentissimo incontro a Milano, hanno risposto all’appello, trascinando il papa a tirare fuori le sue migliori energie, e raccogliendo parole e suggestioni che in più di un’occasione sono parse indimenticabili.

Ma ora che è finito il primo giro, il papa si prepara a vedere le carte. Anzi, rilancia sullo stesso tema: “Maria non era una giovane-divano!” dice nel suo videomessaggio per la Giornata mondiale della Gioventù di quest’anno. Implicitamente, chiede: e voi? Sembra quasi di sentirlo, con la sua tipica inflessione spagnoleggiante: Non siatelo anche voi, dai!

Il montepremi che papa Francesco, come i migliori e più temibili giocatori di poker ha fatto accumulare, è niente di meno che la felicità. Dando come tema il grido di esultanza di Maria che apre il Magnificat: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente” (Lc 1,49), ha ricordato ancora una volta ai giovani che non c’è esperienza della felicità possibile, se non restituendo ciò che Dio ha fatto per noi. Non seduti sul divano, ma mossi dall’entusiasmo e dalla gratitudine! Viene in mente la terribile immagine di Nietzsche dell’Ultimo Uomo, “il più spregevole”, quello che siede in poltrona, strizza l’occhiolino e dice: “Noi abbiamo inventato la felicità!” (Così parlò Zarathustra, Prefazione, par. 5). Ci possiamo illudere che la felicità sia lasciare la nostra bella orma calda sul divano, ma non è invece la nostra vita un desiderio quasi inconfessato di lasciare un’impronta? Il papa dice: c’è un modo di farlo bene, con onestà, non schiacciati da inutili ambizioni.

La felicità non è già data una volta per tutte, è itinerante, si scopre nel cammino, cambia di forme, si accompagna all’inedito. La tradizione della Chiesa ci consegna l’Eucaristia come cibo dei pellegrini: nutriti da questo cibo, che ci fa rendere lode e trasformare in salvezza ogni giorno il vissuto quotidiano, siamo invitati a saltare giù dal divano e lasciare la nostra impronta nel mondo.

Don Davide




I giovani, maestri dell'”et et”

Celebriamo la Veglia, che non è breve, con le sette letture in versione integrale e i salmi cantati. Alla fine, ci si ritrova tutti a mangiare una colomba e un uovo di cioccolato. Ben oltre la mezzanotte le due ragazze si avvicinano per salutarmi: «Noi ci fermiamo solo un attimo, perché abbiamo una festa…».

Quattro pensieri

Primo pensiero: «Una festa? A quest’ora?! Dopo la Veglia di Pasqua?!».

Secondo pensiero: «E perché no?!».

Terzo pensiero: «Hanno celebrato la festa con la comunità cristiana. Cosa dovrebbero fare di più? Dovrebbero andare a casa a mantenere il clima spirituale?!».

Quarto pensiero: «Proprio ieri sera, Venerdì Santo, moltissima gente della mia parrocchia è venuta alla Commemorazione della passione di Gesù, e poi è andata a vedere il derby cestistico cittadino…».

Lo confesso: il derby il Venerdì Santo è una condizione limite. Il giovane parroco, che ha la chiesa affianco al Palazzo dello Sport, aveva qualche riserva e non ha ceduto alla tentazione. Ma il resto… perché no?!

Retaggi

In un baleno divento consapevole dei retaggi della mia formazione: alcune cose, solo ad immaginarle, non eri un buon cristiano. E se eri un giovane e volevi essere cristiano, quasi quasi dovevi guardarli un po’ dall’alto in basso quelli che si divertivano veramente… E se proprio volevi essere “moderno” e “vivo”, al massimo pensavi di fare “balotta” (= festa in allegria, nello slang) in parrocchia.

In un baleno, mi si apre anche il cuore: ma che belli questi giovani, che non rinunciano alla Veglia Pasquale, e poi raggiungono i loro coetanei per divertirsi. E magari si trovano a rispondere alla domanda: «Come mai sei arrivato solo ora? Dov’eri?» – «Ero in chiesa, alla Veglia di Pasqua!». E fanno in un secondo quella nuova evangelizzazione riguardo alla quale noi (Chiesa istituzionale) sappiamo solo riempire dei documenti.

Riconosco in questi miei retaggi una tentazione a cui gli operatori pastorali spesso non sanno resistere: quella di fare proposte valide, ma in opposizione alla vita concreta dei giovani. Un esempio lo riscontro nella recente Marcia della pace che si è celebrata nella mia città: la sera del 31 dicembre 2016, occupando dal primo pomeriggio alla sera inoltrata. Era una bellissima iniziativa, e sappiamo che la chiesa celebra la Giornata mondiale della pace il primo gennaio. Ma mi chiedo: c’era proprio bisogno di porre un mare di giovani, appassionati della causa della pace, di fronte alla scelta se festeggiare l’ultimo dell’anno insieme agli amici, magari in cose organizzate da tempo, o partecipare all’evento? Avrebbe davvero perso così tanto di significato farla, ad esempio, il 6 gennaio?! Alla marcia, per nota di cronaca, c’era molta meno gente di quanta avrebbe potuto essercene.

L’uno e l’altro

Si potrebbe definire una regola: l’uno e l’altro, ossia del non creare opposizioni. Un conto è un sano atteggiamento penitenziale il Venerdì Santo, o nei momenti giusti. Un conto è l’arte del discernimento che ci educa – dentro percorsi e sapientemente – alla radicalità della fede. Un conto sono i retaggi.

Allora penso a quel meraviglioso principio della dottrina cristiana dell’et et che regge i migliori dogmi che ci siamo dati, da quello cristologico: «vero Dio e vero uomo», a quello sacramentale: «natura e grazia», fino alle dimensioni pratiche: «misericordia e giustizia».

Ricordo quando ai ritiri spirituali o ai campi estivi non potevi portare la musica… Oggi non c’è minuto della vita di un giovane che non sia accompagnato da una qualche canzone. Ci viene la tentazione di pensare che così siano dispersivi, che non tengano il raccoglimento, appunto… ma è tutto diverso. Magari stanno operando una nuova sintesi e nuovi processi interiori. Sequeri ha scritto che «la musica è il luogo di vero discorso per l’intelligenza degli affetti».[1] Loro elaborano qualcosa di cui i grandi sono analfabeti, e lo fanno da maestri dell’et et, laddove noi, ancora, culliamo nostalgie per l’out out, in nome di una presunta radicalità che non convince.

Quale nuova radicalità, invece, si può trovare in questa capacità di abitare spazi e attraversare mondi diversi? Con una certa naturalezza, loro – i giovani – rendono testimoniale la forma di vita ordinaria del cristianesimo, senza farla percepire importuna e inopportuna, ma anzi con un tratto di amicizia che porta il vangelo in quelle famose periferie dell’umano che, altrimenti, raggiungiamo solo nei nostri proclami pastorali.

Non è questo un modo di vivere l’incarnazione? Un vero segno dei tempi.

Don Davide

 


[1] Sequeri, Gregoriano contemporaneo, in «Luoghi dell’Infinito», n. 169, gen. 2013, 19-23, p. 22.

 

Testo scritto per SettimanaNews il 28 giugno 2017