La felicità è un’impronta

L’orma del sedere sul divano, o l’impronta del piede sulla strada?

Sembra questa la posta in gioco del papa nella sua partita con i giovani. L’anno scorso, durante la GMG a Cracovia, aveva già parlato della “divano-felicità”: “la tentazione di pensare che la felicità dipenda da un buon divano”. L’aveva definita “la paralisi silenziosa che può rovinare di più la gioventù” e si era lamentato di quei giovani che vanno in pensione dalla vita a vent’anni.

Come un abile giocatore di poker aveva detto: “Ci sto, gioco!”. Aveva messo sul piatto un bel centone e aveva provocato i giovani a raccogliere la sfida. E loro, i giovani, l’hanno fatto. In mille modi, da Cracovia al recentissimo incontro a Milano, hanno risposto all’appello, trascinando il papa a tirare fuori le sue migliori energie, e raccogliendo parole e suggestioni che in più di un’occasione sono parse indimenticabili.

Ma ora che è finito il primo giro, il papa si prepara a vedere le carte. Anzi, rilancia sullo stesso tema: “Maria non era una giovane-divano!” dice nel suo videomessaggio per la Giornata mondiale della Gioventù di quest’anno. Implicitamente, chiede: e voi? Sembra quasi di sentirlo, con la sua tipica inflessione spagnoleggiante: Non siatelo anche voi, dai!

Il montepremi che papa Francesco, come i migliori e più temibili giocatori di poker ha fatto accumulare, è niente di meno che la felicità. Dando come tema il grido di esultanza di Maria che apre il Magnificat: “Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente” (Lc 1,49), ha ricordato ancora una volta ai giovani che non c’è esperienza della felicità possibile, se non restituendo ciò che Dio ha fatto per noi. Non seduti sul divano, ma mossi dall’entusiasmo e dalla gratitudine! Viene in mente la terribile immagine di Nietzsche dell’Ultimo Uomo, “il più spregevole”, quello che siede in poltrona, strizza l’occhiolino e dice: “Noi abbiamo inventato la felicità!” (Così parlò Zarathustra, Prefazione, par. 5). Ci possiamo illudere che la felicità sia lasciare la nostra bella orma calda sul divano, ma non è invece la nostra vita un desiderio quasi inconfessato di lasciare un’impronta? Il papa dice: c’è un modo di farlo bene, con onestà, non schiacciati da inutili ambizioni.

La felicità non è già data una volta per tutte, è itinerante, si scopre nel cammino, cambia di forme, si accompagna all’inedito. La tradizione della Chiesa ci consegna l’Eucaristia come cibo dei pellegrini: nutriti da questo cibo, che ci fa rendere lode e trasformare in salvezza ogni giorno il vissuto quotidiano, siamo invitati a saltare giù dal divano e lasciare la nostra impronta nel mondo.

Don Davide




Come gli abissi più belli dei mari

Capita di essere trasferito dalla parrocchia dopo otto anni, e una ragazza che sapevi brillante – certo – ma che era stata quasi nascosta fino ad allora, ti scrive una lettera mozzafiato dove recupera le esperienze condivise, la vita imparata, le parole ascoltate e i passaggi in cui si è sentita accompagnata.

Capita che un gruppo di ragazzi proponga al proprio parroco un’attività; questi è entusiasta e scettico allo stesso tempo: la cosa è bellissima, ma riusciranno ad organizzarsi e a portare avanti l’impegno? Arrivano suggerimenti, loro però sono autonomi, hanno un progetto e le energie per realizzarlo, incassano il permesso ufficiale e declinano gli altri aiuti ringraziando con garbo, guardando l’affettuoso prete come un nonno partigiano che volesse insegnare ad usare l’iPhone 7 al nipotino.

Capita che un giovane prete si ricordi, a una fermata dell’autobus, di dovere benedire i nuovi capi squadriglia. Invece di «ciappinare o uozzapare col telefono» (cit.) si lancia in una versione Facebook delle grandi benedizioni bibliche sul cosmo e sulle persone.

Un tesoro da non sprecare

Sono solo tre esempi, ma chiunque abbia vissuto un’esperienza rivolta ai giovani con un incarico educativo o un ruolo pastorale – e abbia conservato quella minima capacità di stupirsi che si prova di fronte al mare o a una montagna incantata dalla neve – ha potuto intravedere un patrimonio di ricchezze infinito, uno scrigno dell’interiorità che andrebbe valorizzato.

Spesso, infatti, si tratta solo di un riflesso, un indizio in una caccia al tesoro, ma la sorgente di quel bagliore si trova in un luogo assai più profondo, e rischia di rimanere nascosta. Questa è la sfida pastorale: un tesoro non rinvenuto si spreca, come un capitale investito male, che non si può usare e si logora. Tante volte sembra che non ci sia, solo perché quando vi abbiamo inciampato sopra, non abbiamo fatto come l’uomo della parabola evangelica e non siamo andati a vendere tutto, per comprare quel campo e dissotterrare il forziere (cf. Mt 13,44).

Non sarebbe questa un’esperienza del Regno, fatta con i giovani e non ai giovani? Un simile capitale andrebbe portato alla luce e incoraggiato nel vivace contesto della liberalità giovanile, e non frustrato dentro richieste di piccolo profilo, preoccupazioni moralistiche o moraleggianti di buon costume e sforzi di contenimento parrocchiale.

Baricco, in Emmaus, critica un certo modello dei ragazzi cristiani: «Il senso di colpa, sempre. Siamo dei disadattati, ma nessuno vuole accorgersene. Crediamo nel Dio dei Vangeli».[1] Bisognerebbe riuscire a rendere evidente che non è così, che la Chiesa può essere un esempio – nei gruppi, attraverso le proprie iniziative e persino nella liturgia – della capacità di dare rilievo, spessore e maturità all’interiorità bella che cova nei giovani, per i credenti e per tutti.

L’interiorità dei giovani

Sento di poterlo dire con una certa convinzione. La realtà è questa: l’interiorità dei ragazzi come gli abissi più belli dei mari. Tutto il resto è retorica.

La retorica del “non ci sono più i giovani di una volta”; la fastidiosa autogiustificazione quando li accusiamo di essere attaccati al telefonino o ai videogiochi, perché non li sappiamo integrare in una conversazione; la nostra endemica incapacità di non giudicare, non svalutare, non snobbare, non liquidare le loro ragioni e le loro domande (non parlo dell’atteggiamento tutto melassa e smorfiette che si ha con i bimbi, ma della capacità di riconoscere l’intelligenza emotiva dei ragazzi).

Anche quando si manifestano delle durezze, una forza di opposizione invincibile o delle superficialità, sono convinto che per i ragazzi, ossia in quella fase in cui i giovani si affacciano per la prima volta alla loro giovinezza, sia sempre il riflesso di qualche sensibile – alcune volte troppo sensibile – esperienza interiore.

Germoglio del Regno

Come gli abissi più belli dei mari, così l’interiorità di questi giovani “mondi” – che non ha sempre tutte le parole per dirsi e l’esperienza per farsi – non viene vista e, talvolta, nemmeno percepita da molti. Bisogna avere il coraggio di immergersi in queste acque, come dei sommozzatori dell’anima. Si scende quasi in apnea, perché appena respiri tu, finisce l’incanto loro; come le barriere coralline, che non le puoi toccare, ma solo custodirle, farle risplendere, attendere un tempo lungo perché diventino lo splendore che sono.

Forse, la parabola del seme che cresce da solo (cf. Mc 4,26-29) si riferisce in modo particolare a quella singolare esperienza del Regno che si genera nel cuore dei giovani, quando la loro interiorità e la loro sensibilità – per vie nascoste ed impossibili da seguire – cresce; quando si innamorano di un verso di una poesia o di una canzone, o vergano di getto una pagina di diario, o sognano di scrivere un libro, o si perdono suonando una musica, o si appassionano a un film. Come avvenga questo miracolo non si sa, ci ricorda il Vangelo, ma non deve mancare la fiducia che possa accadere e la prontezza di coglierne il frutto.

[1] A. Baricco, Emmaus, Feltrinelli, Milano 2009, 16.

 

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews il 22 dicembre 2016




Giovani: il difficile vissuto emotivo

L’ultimo romanzo di Jonathan Franzen, Purity (Einaudi), ha un finale folgorante, nel quale – come solo i grandi autori sanno fare – evoca in poche parole un mondo intero legato ai giovani.

Una scena emblematica

La scena è questa: la protagonista, Purity Tyler, chiamata Pip, dopo molte peripezie ha ricongiunto la madre e il padre che si odiano, per poter disporre di un ingente patrimonio che le spetta di diritto, con cui intende saldare il debito degli studi e aiutare un amico a riprendersi la propria casa. Pip, vincendo le proprie resistenze e difficoltà, ha da poco accettato di stare con Jason, un ragazzo semplice e onesto che le vuole bene veramente; con lui sta aspettando in auto l’esito dell’incontro dei genitori. Qui l’autore scrive: «Pip richiuse la portiera per non fare entrare le parole, ma l’alterco si sentiva anche con lo sportello chiuso. Le persone che le avevano lasciato in eredità un mondo rovinato stavano litigando furiosamente. Jason sospirò e le prese la mano. Lei gliela strinse forte. Doveva essere possibile fare meglio dei suoi genitori, ma non era sicura di riuscirci. Solo quando il cielo riaprì le cateratte, quando la pioggia arrivata dall’immenso, buio oceano occidentale cominciò a battere sul tetto della macchina e il suono dell’amore coprì gli altri suoni, solo allora Pip pensò che forse ce l’avrebbe fatta».[1]

Un mondo consumato

Gli adulti litigano, quello che lasciano in eredità è un mondo consumato, pieno di rovine presenti o future. Esiste la possibilità di fare meglio? E come riuscirci con un fardello sulle spalle? Vengono in mente le severe parole di Gesù: «Guai a voi, che caricate gli uomini di pesi insopportabili, e quei pesi voi non li toccate nemmeno con un dito» (Lc 11,46).

L’asprezza e la nettezza di queste considerazioni raccontano la radicalità del conflitto tra le generazioni in cui i giovani, loro malgrado, sono coinvolti. Non si tratta più delle lotte per l’emancipazione o per le utopie di un mondo nuovo. La frattura di oggi non è attiva, dettata dal desiderio di cambiare le cose; questo aspetto, indubbiamente, è presente, ma è più una reazione di resistenza passiva, come chi sta per soffocare e cerca di respirare, o come uno che deve eseguire un lavoro con strumenti rotti.

Non è che il mondo di oggi sia peggiore di quello di ieri. I giovani di oggi (almeno nella contemporaneità occidentale che ci diamo come punto di osservazione) hanno più diritti, più libertà, più possibilità di quanto non sia mai stato prima, e godono di un rapporto con l’autorità (almeno le autorità “visibili”) più accessibile e dialogico. Tutto questo, però, si colloca in uno spappolamento emotivo senza precedenti – ereditato e che si continua ad aggravare – che è il fardello spesso non riconosciuto da nessuno (adulti o giovani che siano) che grava sulle spalle delle nuove generazioni. Non si intende solo l’ambito degli affetti, ma di tutti quei vissuti emotivi che intrecciano la fatica del vivere e la impastano con il nostro universo affettivo.

Tale sgretolamento emotivo logora anche le cose più semplici, fa apprezzare meno le possibilità che il nostro tempo dischiude e getta in una condizione di instabilità personale nella quale non si riesce ad attingere a nessuna sorgente interiore.

È difficile fare delle generalizzazioni: ci sono molti giovani che hanno migliorato drasticamente le condizioni culturali rispetto ai propri genitori, e indici di abbandono scolastico ancora altissimi; ci sono i giovani che si realizzano nel lavoro con brillanti risultati, e quelli che dipendono o sono bloccati dagli adulti che li hanno preceduti; il futuro che ha cambiato dal segno “promessa” al segno “minaccia” non è tale per tutti, e coglie solo un aspetto del problema.

Uno spappolamento emotivo

Il filosofo Alain Badiou, in un recente saggio dal titolo La vera vita (Ponte alle Grazie), propone una chiave di interpretazione di questa divergenza, affermando che la dialettica in cui vivono i giovani si muove tra due esiti: «la passione di bruciarsi la vita, la passione di costruirla […] il desiderio di una vita che si consuma nella sua stessa intensità e il desiderio di una vita che si edifica pietra su pietra per arrivare a possedere una casa solidamente piantata».[2]

Da una parte, lo slancio faustiano, il desiderio di vivere – in un’esistenza che si presenta senza alcun senso unificato – il maggior numero di istanti più o meno accettabili; dall’altra, lo sforzo architettato di trovare il proprio posto nell’ordine esistente, la somma degli stratagemmi utili al successo, la lotta per sottomettersi meglio di ogni altro al regime vigente. Un esito di ribellione, un esito di adattamento, che partono però da una condizione comune.

Anche quelli che apparentemente si adattano e stanno bene nella situazione presente sono accomunati agli altri dallo stesso spappolamento emotivo: affetti frantumati e parcellizzati, l’esperienza dell’amore completamente disillusa, relazioni costrette dentro la logica della competizione, dell’utilitarismo, del contrattualismo, il tempo del vivere che prosciuga ogni forma di gratuità, ferite che aprono voragini e non guariscono. Perfino la tendenza apparentemente contraria dei padri e delle madri a togliere tutti i pesi ai loro figli, ad appianare la strada caricandosi su di sé difficoltà che invece dovrebbero essere affrontate, risponde alla logica della medesima frantumazione.

I “genitori” di Purity, nel romanzo di Franzen, non sono solo mamma e papà. Sono il simbolo di un mondo precedente e la domanda implicita della protagonista può essere parafrasata: è possibile per un giovane fare meglio del mondo che è stato consegnato? È possibile farlo con un fardello sulle spalle che complica tutto? Nella strada dei giovani si profila una doppia fatica, con il rischio che, prima della meta, si risolva nella rinuncia e, dopo il traguardo, si estremizzi nella rivalsa. Per sostenere questa fatica, che nessuno può loro togliere, quella dei vissuti emotivi è una grammatica che tutti, attingendo alla sapienza creativa delle proprie tradizioni migliori, dovremmo sapere di nuovo imparare.

[1] J. Franzen, Purity, Einaudi, Torino 2016, 655.

[2] A. Badiou, La vera vita, Ponte alle Grazie, Milano 2016, 16-17.

 

Don Davide

Testo scritto per SettimanaNews il 24 novembre 2016




Stazione da una camminata

Con gli occhi dietro le colonne degli splendidi portici di Bologna, quasi giocando a nascondino, ho osservato in un pomeriggio qualunque i giovani della mia città. Ho colto quattro aspetti, con la stessa caratteristica delle colonne della volta sotto Palazzo Re Enzo: quello che si dice vicino a una di esse, anche se sussurrato, si ode nitidamente presso quella opposta. Sotto alla volta, inoltre, ci si trova in un incrocio suggestivo, che si apre in tutte le direzioni sul centro storico.

Analogamente, ciascuno di questi quattro tratteggi che vorrei delineare è collegato e rimanda al suo opposto, e definisce uno spazio di passaggio in cui i ragazzi entrano ed escono continuamente, sempre affacciati su tutti i lati della loro vita. Perché “i giovani” non possono essere definiti, né tantomeno inquadrati; si può solo cercare di raccontarli.

Quattro tratti

La prima cosa che balza all’occhio sono i ragazzi seduti sui gradini davanti alla Sala Borsa. Un tempo erano più che altro la scalinata e il sagrato di San Petronio ad accogliere drappelli di chiacchiere amichevoli, ora i cordoni di sicurezza scoraggiano la sosta all’ombra del patrono, e le persone si spostano in un luogo più neutro e più moderno della vita della città.

Da quel punto di vista privilegiato, che permette osservare la piazza, l’incrocio delle vie più importanti del Centro, le Due Torri e, soprattutto, l’Apple Store, sono spettatori del mondo che passa. Non nel senso che sono fuori dai giochi; hanno piuttosto la convinzione di poterlo dominare, non appena lo decidono. Non sono ancora condizionati dalle disillusioni dei trentenni e ostentano un potenziale che chiede di essere scovato… se solo ne fossero consapevoli. Inoltre hanno tempo, non hanno bisogno di correre e così provocano un’invidia tremenda a coloro che col tempo cominciano a farci i conti in tutti i sensi.

Mentre ammiro con nostalgia questa sfrontata sicurezza, mi passa accanto un ragazzino non tanto alto, quattordici anni a dir molto, da solo. Biondissimo e con una faccia ancora da bambino nascosta sotto un’aria tesa, indurita. Non è più nella posizione dello spettatore: ora gli tocca attraversarlo, il mondo, e lo fa a passo svelto. C’è qualcosa di artificioso che mi fa capire che ha paura… La sicurezza di prima cede il passo all’insicurezza e mi sento improvvisamente in sintonia con le sue difficoltà, presenti e future. Ma come possono, i giovani, vivere nella città di oggi? Sono esposti a una complessità che disorienta e schiaccia, e l’età della loro formazione – soprattutto per i più deboli – appare una giungla, una battaglia feroce. Chi li aiuta a gestire la complessità e ad abitarla? Chi è che li protegge, senza risparmiare loro il compito di buttarsi nel mondo?

Mi sposto nel portico di Via Indipendenza. Di fronte ad H&M noto una famigliola: lui e lei, e la figlia. Difficile darle un’età: ha quella curvatura morbida nei lineamenti che tradisce il suo essere adolescente, ma non sai se è la bimba che è passata o la donna appena arrivata, in ogni caso c’è in lei qualcosa di nuovo. Noto la scritta di perline sulla sua maglia: FVCK. E mi si riapre un ricordo di adolescenza, quando a Londra indossai una t-shirt con una parolaccia in inglese e mi beccai una sgridata epocale da mio zio. Ma nella maglietta di questa giovane donna, con la V usata alla maniera latina, la ribellione di una parolaccia scritta sugli indumenti ha qualcosa di originale, un che di sofisticato. Un perfetto mix delle due lingue universali (quella nuova e quella antica), una sintesi di antico e moderno, di ribellione e snobismo. Esteticamente geniale e vincente. Qui, però, non c’è più l’austero e tradizionale zio londinese, ma la coppia di genitori indulgenti e questo contrasto, così vivido in me, mi fa pensare a come sia delicata e appassionante la ricerca di un equilibrio tra vicinanza e distanza, tra complicità e rimprovero, tra spontaneità e sforzo educativo riguardo alla vita dei giovani.

Sono ancora immerso in questo dilemma, quando vengo superato ad ampie falcate da due uomini in erba che si stanno confrontando sulla fine dell’università e l’inizio del lavoro. Mi sembra un déjà vu: il loro linguaggio esprime dubbi d’un tempo, roba che una volta si trattava nei saggi sull’adolescenza: “Non so cosa mi piace di più… Preferisco un lavoretto che mi piace, piuttosto che passare tutta la vita in ufficio dietro a una scrivania… Non voglio rinunciare ai miei sogni in anticipo… E comunque prima che mi paghino ne passa di tempo …”.

Ne passa di tempo

Questa è esattamente la domanda che mi viene: come è stato possibile che la vita dei “giovani” sia diventata così lunga? Com’è accaduto che si studi, ci si formi, poi ti venga chiesta della competenza prima di cominciare a lavorare, o una fideiussione che non ti puoi ancora permettere? Come è stato possibile che gli adulti si siano appropriati impunemente di un’età e un linguaggio non loro, sì che quando uno muore a settant’anni si dice: “Era giovane!”?

Come nel gioco delle quattro colonne, sento il sussurro che viene dalla prima: la vita dei giovani è la vita che tutti vorrebbero. Solo alcuni hanno il coraggio di congedarsi da essa con sapienza. E nella tensione generata da questo conflitto, si giocano molti degli aspetti che potrebbero istruirci concretamente su una Sapienza della vita, del tempo e dei passaggi.

Don Davide

 

Testo scritto per il settimanale SettimanaNews il 21 ottobre 2016

 




Le parrocchie di Jurassic Park

Ho letto da poco Gli sdraiati di Michele Serra, che si chiede con onestà e non senza un certo sgomento dove si è rotto il patto generativo con le giovani generazioni.

“Generazioni”, appunto. Già il sostantivo indicherebbe il rapporto tra persone di decenni diversi nello stesso mondo e nello stesso territorio: qualcosa deve essere generato, e non si tratta, evidentemente, solo della vita biologica.

La Chiesa si chiede, impaurita, dove si sia interrotto questo passaggio. C’è senz’ombra di dubbio un problema più generale legato al modo di vivere il Cristianesimo in Occidente, ma rimane la domanda che riguarda i giovani e l’educazione alla fede: dov’è il meccanismo inceppato? Cosa si è rotto nella catena di trasmissione?

Tuttavia, pare che siamo in “buona” compagnia. Come testimonia il libretto che citavo sopra, non è un problema solo legato all’esperienza cristiana, ma anche all’educazione, alla trasmissione di modelli e di stili di vita e, non ultimo, alla speranza.

La liturgia di oggi ci pone due temi principali: la fede e la preghiera. C’è qualcosa più difficile di queste due cose oggi da trasmettere? Gesù stesso sembra mettere sul piatto la serietà del problema, domandandoci: «Ma quando il figlio dell’uomo tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?».

Paolo invita il suo discepolo e amico Timoteo a rimanere saldi negli insegnamenti che ha ricevuto «fin dall’infanzia», nella fede e persino nella lettura delle Scritture. A proposito di questa consegna di generazione in generazione, all’inizio di questa lettera Paolo aveva ricordato a Timoteo la fede della nonna Lòide e della madre Eunìce. Se penso ai ragazzi di oggi, nella stragrande maggioranza dei casi, la fede dei nonni (e talvolta anche quella dei genitori) appare qualcosa di appartenente all’Era dei Dinosauri.

Come nel film Jurassic Park, le nostre parrocchie rischiano di essere un grande parco-giochi della fede, dove si portano i bambini, si trova ancora qualche ragazzino e qualche giovane, infine ci sono i genitori che portano in gita i bimbi. Ma poi a casa, nel mondo, “da grandi” è un’altra cosa…

Salvo – quando ci fa comodo e ne abbiamo bisogno – affidarci alla preghiera (e magari avere il coraggio di lamentarci se il Signore non ci risponde prontamente). Gesù, invece, ci dice di pregare incessantemente, senza stancarci, per farci capire la preghiera come cartina di tornasole della nostra fede: chi prega? Chi legge con assiduità le Scritture? Chi si raccoglie nel proprio intimo e sotto la guida dello Spirito per discernere il proprio cammino di vita nella fede?

L’educazione all’esperienza di fede dev’essere un criterio di verifica delle nostre azioni e del nostro agire anche come parrocchia. La parrocchia è una comunità di educazione alla fede, nel senso più ampio e complessivo del termine, e noi dobbiamo continuamente lasciarci spronare, mettere in discussione e chiederci se questa frattura delle “generazioni” non sia anche perché non comunichiamo più l’originalità di quello che saremmo chiamati a testimoniare.

Don Davide