La fede

“Troverà ancora la fede?” (Lc 18,8)

Da varie domeniche la liturgia interpella la nostra fede, il nostro vivere e comportarci come uomini e donne credenti.

In molte fiabe, in molti racconti, in tante storie edificanti e di avventura, uno dei protagonisti ad un certo punto, spesso nei momenti più difficili, invita “ad avere fede”, basandosi sul fatto che il bene trionferà, che c’è una sorta di energia cosmica a cui attingere, che dispiega la sua potenza e guida il tutto verso l’armonia e l’eventuale soluzione della vicenda.

L’insegnamento di Gesù sulla necessità di “pregar sempre, senza stancarsi mai” – che sembra impossibile anche solo a sentirlo – si trova tra l’invito alla vigilanza e al discernimento e questa domanda enigmatica sulla fede.

Pregare, quindi, significa esercitarsi tenacemente a essere vigili rispetto alla vibrazione del mondo e accedere a quella sapiente linfa vitale che lo tiene nell’esistenza e lo riporta all’armonia.

Questo dell’allenamento dei sensi spirituali è uno sport per lo più disatteso.

Invece, la possibilità di toccare con mano la potenza di Dio c’è, dice Gesù.

Ma come tutte le cose che contano bisogna scovarne la magia con un autentico desiderio.

Don Davide




Gesù insegna anche oggi

«Entrato di sabato nella sinagoga, Gesù insegnava» (Mc 1,21).

L’esperienza di Israele di ritrovarsi nel giorno del riposo ad ascoltare la Parola di Dio e l’insegnamento dei maestri, è slittata per i cristiani al primo giorno dopo il sabato, quello della resurrezione, il primo giorno della Nuova Creazione.

In questa domenica, vorrei cogliere proprio un’analogia tra questo entrare di Gesù nella sinagoga e quello che accade dopo, in giorno di sabato, e quello che potrebbe accadere nell’entrare nostro, di domenica, nell’assemblea liturgica per la celebrazione eucaristica.

Gesù, in questa scena iniziale della predicazione del vangelo carica di simboli e di significati, viene descritto come il Messia che porta a compimento il Sabato, cioè la bontà della Creazione. Dio, infatti, nel racconto della Creazione, aveva creato il mondo in sei giorni, sigillando la sua opera con una sentenza che era anche una benedizione: «vide che era cosa molto buona» (Gn 1,31). E il settimo giorno, aveva perfezionato il suo operato concedendo a se stesso e al mondo di riposare in questa bontà.

Ora – in questo episodio – c’è qualcosa che non va: c’è un uomo posseduto da uno spirito «impuro». Attenzione: non è necessariamente un “indemoniato” come lo intendiamo noi. Il vangelo ci parla di «impuro», cioè di qualcosa che nulla può avere a che fare con la sinagoga, un luogo sacro, e soprattutto con il Sabato, che è il “sacro” per eccellenza.

Tuttavia, lo «spirito impuro» che si è impadronito di quel pover’uomo, se ne sta zitto e beato in sinagoga tra gli altri, senza che nessuno si accorga di quella presenza illegittima. È solo quando Gesù entra e comincia ad insegnare che si scatena, comincia a saltare sulla sedia, non può più starsene tranquillo, perché la parola di Dio giunge con un’autorevolezza ripristinata, nella voce del Maestro.

La parola di Dio, che risuona finalmente senza limitazioni attraverso Gesù, vuole ricostituire la Creazione nella sua bontà, e dunque non c’è più spazio per gli spiriti «impuri», per le cose che non corrispondono alla santità di Dio. Tutto questo è celato nella semplice affermazione che «Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, insegnava […] e uno spirito impuro cominciò a gridare…» (Mc 1,21.23).

Il paragone che vorrei proporre, forse un po’ azzardato, è semplicemente questo. Noi veniamo da un lungo periodo, quasi un anno, in cui un virus impuro – qualcosa che non corrisponde per nulla alla bontà della Creazione di Dio – ha trattenuto molti di noi dalla partecipazione alla messa. Questo virus si è annidato tra di noi, ha instillato la paura, ci ha appesantito, ci ha spinto alla rassegnazione. In più, abbiamo sentito tante parole logore, tanto “berciare” poco autorevole, che invece di dare coraggio, speranza e direzione, hanno creato confusione e ci lasciano disorientati.

La parola di Dio e la celebrazione liturgica, invece, hanno il potere di scavare nel nostro spirito e di andare a stanare tutti gli spiriti impuri che vorrebbero nascondersi ed opprimerci, cercando di non farsi scoprire.

Non vorrei essere frainteso. La mia non è solo un’esortazione interessata a serrare le fila e ritornare a messa; certamente è anche un incoraggiamento in quel senso, ma è molto di più. È la considerazione che proprio questo tempo potrebbe essere l’occasione inaspettata per riscoprire la forza di quello che accade nella messa festiva, il motivo principale per cui noi celebriamo la domenica. Non è certamente per timbrare il cartellino di un precetto e meno che mai per metterci la coscienza a posto. Il punto cruciale è avere un appuntamento con una parola che ha il potere di ricostituirci nel bene, di mettere a posto quello che non va, anche quello che facciamo fatica a percepire.

Certo, direte voi, l’autorevolezza di noi poveri preti che facciamo l’omelia non è la stessa di Gesù che insegna, e avete ragione. Ma l’insegnamento di Gesù, nella messa, avviene in modo molto più ampio. La sua parola viene proclamata al di là di chi la commenta. La sua voce risuona nelle preghiere liturgiche. È lui stesso che ci raduna, ci costituisce in unità e si offre a Dio Padre mostrandoci l’esempio.

Insomma, quando accediamo all’assemblea liturgica, di domenica, è Gesù stesso che insegna e non permette più a nessuno dei nostri spiriti impuri di stare tranquilli, e così ricrea in noi il bene, ci fa ottenere quella pace del cuore che tanto desideriamo e ci fa riposare.

Don Davide




Omelia 16 settembre 2018 di Padre Maurizio

Vorrei con voi, oggi, e con le amiche e gli amici che sono venuti a rallegrare la nostra liturgia con il dono del canto, spendere due parole e dare voce a quella gioia che ci muove dentro. E che ci fa percepire, con una evidenza indiscutibile, il legame tra musica e liturgia, tra canto e sacramento.
Ciò che percepiamo, con questo misterioso legame, è qualcosa che ha a che fare con l’energia creatrice, quell’energia dello spirito che crea mondo. Il motore del mondo. Non è solo un abbellimento, il coro che canta in chiesa. Quando celebriamo il sacramento senza cantare, sentiamo che ci manca qualcosa, ma è come se non disponessimo delle parole adeguate per dire questa mancanza. E allora diciamo: <<Certo, col coro è più bello…>>. Ma non è solo più bello, è, soprattutto, più vivo. Ecco, vorrei trovare con voi le parole per dire questo, per dire questa vita del canto nel sacramento, questa vita del sacramento nel canto.
Il nostro punto di partenza è la nostra cultura, centrata sull’efficienza, sul calcolo quantitativo; una cultura totalmente anaffettiva perché ci consegna a una solitudine molto vicina alla solitudine dei numeri primi… Anzi, siamo più soli dei numeri primi, perché poi nella musica i numeri si esaltano tutti in questa loro parentela privilegiata con le note e con il ritmo. I numeri si esaltano quando sono assunti dallo spirito della musica. Noi ci esaltiamo un po’ meno, perché abbiamo affinato il linguaggio di una ragione priva, però, delle parole degli affetti. Ecco, il primo punto è questo: la musica, il canto, nella sua gratuità, è il luogo di una vitale mediazione tra le parole della ragione e le parole degli affetti e dei legami, che sono la sostanza del nostro vivere. Una mediazione non di quantità, ma di qualità: il coro non aggiunge nulla al sacramento, ma lo fa risuonare e vibrare all’interno dei nostri corpi, che sono corpi vibranti, sempre, anche sotto anestesia.
Poi noi cristiani occidentali, ogni volta che cantiamo in chiesa, portiamo qui quasi duemila anni di storia e di civiltà. Perché dalla grande tradizione monastica cristiana – che ha molti secoli di storia e di memoria – perché da lì, dall’esigenza di cantare Dio, è nata la grande musica occidentale. Non si è trattato solo di cercare le risonanze più pure ed eleganti dello Spirito creatore: il genio cristiano ha stabilito un legame indissolubile tra civiltà musicale e vita secondo lo Spirito. Quindi, ogni volta che portiamo la musica dentro la liturgia, portiamo con noi quindici secoli di storia. Non solo: portiamo nel sacramento un’intera civiltà musicale, senza la quale la nostra stessa civiltà va in depressione. Perché il canto e la musica liturgica occidentale sono un albero vivo, le cui radici penetrano profondamente nella tradizione classica e nella tradizione biblica. Da una parte la sensibilità tutta greca e latina per la parola poetica, ritmata e cantata, quale espressione viva dell’umano. Dall’altra la forza del sentire biblico, che nella preghiera fatta canto (pensiamo alla meravigliosa ricchezza del Libro dei Salmi) celebra la quotidiana attesa, il quotidiano incontro con Dio.
Se c’è qualcosa in grado di dirci che il mondo, le cose, i corpi, hanno un’anima, questo è la musica. Perché la musica fa suonare il legno, il metallo, la pelle del tamburo. Ci innalza verso l’incanto dell’essere-al-mondo, alleggerendo ogni ingombro di massa inerte; ma allo stesso tempo restituisce alla materia un’anima di vita. L’universo intero, stelle comprese, vibra. La voce del canto porta, nello spazio limitato di una stanza o di una chiesa, la vibrazione dell’universo. E il sacramento dice alla musica: <<Sorella, non ti spaventare per questa immensa responsabilità, perché tu stai dando respiro a una parola che ti precede, una parola buona, carica di promessa, una parola che vuole bene, la parola del Verbo che si è fatta carne, per ciascuno di noi, per la nostra felicità e per la nostra salvezza. Non avere paura, canta!>>. E la musica, il canto, accoglie l’invito. Il canto entra nel sacramento, e sente che lì è casa sua. Lì, nel sacramento, il canto incontra e trova se stesso come voce che può dar voce e corpo all’Indicibile che lo precede, incontra e trova se stesso come voce dell’inesprimibile che è dentro ciascuno di noi.
Non avere paura, canta! Perché senza il prodigio del canto il mondo non solo è più triste, ma si decompone.

p. Maurizio




La Consacrazione e la Trasfigurazione

La terza tappa del Congresso Eucaristico ci invita, nel tempo di Quaresima, a riflettere su come possiamo rendere le nostre liturgie più partecipate.

Nell’intenzione del Concilio Vaticano II e della riforma liturgica che ne è seguita c’era in primo luogo, sicuramente, la volontà di affermare che la liturgia è partecipata e celebrata bene quando ne comprendiamo il significato profondo, lo gustiamo e viviamo i vari momenti della celebrazione eucaristica accompagnando con il nostro corpo e il nostro spirito il significato simbolico dei gesti che compiamo.

L’invito del vescovo, quindi, rappresenta una preziosissima opportunità per riscoprire la ricchezza della nostra liturgia.

In questa seconda domenica di Quaresima, nella quale ci guida il Vangelo della Trasfigurazione, vorrei partire da alcune riflessioni sul momento della Consacrazione, a cui seguirà una seconda parte, sempre su questo momento fondamentale della messa, domenica prossima.

Analogamente a quanto succede nella Trasfigurazione, nella Consacrazione noi vediamo nei segni del pane e del vino il corpo glorioso del Signore, così come i discepoli videro nel corpo umano di Gesù la manifestazione della sua gloria.

Mentre abbiamo la sensazione che la Consacrazione sia quasi un momento magico, in cui grazie all’unione di una formula e di un gesto accade qualcosa di incredibile (e in visibile agli occhi), il vero significato della liturgia eucaristica è che la Consacrazione non è affatto un momento a sé, ma è connessa a tutta la grande preghiera eucaristica che inizia dopo il Santo, anticipata dal Prefazio che dice qual è il motivo specifico della preghiera di ringraziamento di quella celebrazione.

Il momento che ci riporta all’Ultima Cena di Gesù e che ci mette alla sua presenza non sono solo le parole della Consacrazione, ma tutta la lunga preghiera memoriale che introduce la Consacrazione stessa e che la segue. A questa preghiera, l’assemblea si unisce dopo il rendimento di grazie finale: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo” con la risposta importantissima dell’ “Amen” che è come il sigillo di un notaio, l’autentica sul fatto che quella preghiera sale dal popolo che celebra al Padre; mentre noi, a quel punto, siamo quasi assonnati o distratti e si risponde “Amen” come riprendendosi da un torpore che ci ha presi per il fatto che in quella lunga parte aveva fatto tutto il prete, ma adesso bisogna destarsi perché “finalmente” tocca anche a noi con il Padre nostro. Niente di più sbagliato, ovviamente.

La Consacrazione è uno dei momenti più importanti della celebrazione, e viene accompagnato con due gesti che ne sottolineano la solennità – il suono delle campanelle e il gesto di inginocchiarsi – ma non bisogna per questo pensare che sia una cosa a parte. È proprio come il cuore pulsante della liturgia, insieme alla proclamazione del Vangelo: ma sappiamo che il cuore dà energia vitale all’organismo eppure sarebbe insignificante senza il corpo che lo circonda.

Don Davide




I furbi, chi governa e gli amministratori

È davvero un saggio di attualità la liturgia odierna, la quale ci propone un campionario di situazioni che sentiamo molto vicine.

La prima lettura ci presenta la figura dei “furbi”: quelli che all’esterno, o apparentemente, vogliono apparire corretti, ma poi tramano nel cuore le peggiori empietà. Il pensiero che costoro fanno sulla legge del Sabato è spaventoso: “Vabbè, ci tocca aspettare il Sabato, ma speriamo che passi presto così possiamo tornare a fare gli impostori!”. La loro colpa è di svuotare completamente il valore della rettitudine e che osservano la Legge pensando in realtà che non ci sia un Dio in cielo, o illudendosi che egli non veda. Invece lui giura: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere!» (Am 8,7).

San Paolo, al contrario, valorizza al massimo la responsabilità e i suoi significati, al punto da chiedere con insistenza che si preghi per chi è incaricato di governare. Ben lungi dall’essere un conservatore o un difensore dello status quo, Paolo sa che tali incarichi necessitano della più grande serietà, umanità, onestà e competenza; per questo invita i credenti ad accompagnare un compito così importante con la forza della preghiera. La posizione di Paolo è l’esatto contrario di quella dei “furbi”. Non ci deve essere nessun interesse per le proprie cose, nessuna smania di dare sfogo alle frustrazioni o alle proprie preoccupazioni; il governo riguarda il bene di tutti (in positivo) o il male di tutti (in negativo), quindi il cristiano deve tenere lo sguardo fisso sull’opportunità di superare i personalismi per favorire il più possibile il bene.

Nel vangelo, Gesù loda un amministratore “disonesto”. Scelta politicamente scorretta: ce lo immaginiamo cosa succederebbe oggi se Gesù avesse rilasciato una dichiarazione di tal fatta? Sarebbero comparsi titoli del tipo: “Gesù provoca ancora!”, oppure: “Leader carismatico religioso invita pubblicamente alla disonestà” ecc. ecc. Eppure, con una delle sue sagaci parabole, Gesù smaschera la micidiale ambiguità del denaro e ci obbliga a considerare il rapporto ossessivo e deviato che abbiamo con esso: «Non si può servire a Dio e al Denaro» (Lc 16,13).

Questi tre scenari di incredibile attualità mi fanno pensare ad altrettante situazioni in cui la parola di Dio ci edifica: la ripresa delle attività dopo il tempo dell’estate (lavoro, parrocchia, sport, interessi); la scuola; la drammatica recente esperienza del terremoto.

Il compito educativo di tutte le realtà coinvolte nella formazione della persona, dovrebbe essere quello di favorire un’autentica dignità umana e un profilo morale esemplare, non quello della “furberia”. I furbi ci stanno così antipatici perché sono degli “omaruncoli”, dei “poveretti” direbbero i ragazzi, eppure ogni tanto ci lasciamo tentare dal pensiero di “voler fare come loro” (attenzione: non di “voler essere” come loro!), per avere la strada in discesa, e perché ci sembra che rimangano sempre impuniti, che la facciano sempre franca, che cadano sempre in piedi. Ma invece non è così: per dirla con le parole di Gesù: “Non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato!” (Lc 12,2).

La meravigliosa avventura della scuola, dovrebbe essere per ragazzi e docenti l’opportunità di allargare gli orizzonti al bene comune e al desiderio/bisogno di costruire le basi (culturali ed umane) per assumere incarichi anche gravosi con la massima coerenza e competenza. Sono stato colpito, in questi ultimi giorni, dal botta e risposta su sociale e quotidiani polarizzato intorno a due questioncine di poco conto, ossia sulla simpatica iniziativa di un professore di latino di proporre la traduzione del tormentone dell’estate: “Andiamo a comandare” (se non sapete di cosa si stia parlando, fermato un qualunque giovane per strada e chiedete!), oppure sulla vicenda del papà che non ha fatto fare i compiti al figlio scrivendo la lettera di motivazioni ai professori. Senza entrare nel merito segnalo, come sia facile perdere di vista i veri tesori della scuola e smarrirsi in polemiche di nessun conto.

Infine, l’eterna opera di divisione operata dal Denaro (nome proprio di un dio negativo), mi ha fatto pensare al terremoto recente. Oggi, in tutte le chiese d’Italia, facciamo la raccolta per aiutare le popolazioni colpite, ma attorno al denaro si consumano sempre le crisi e le fatiche: soldi destinati a mettere in sicurezza le strutture spesi per altre cose; sciacallaggi (reali e mediatici) e la grande sfida dell’aiuto alle popolazioni colpite per affrontare l’inverno, la ripresa delle scuole e il lavoro, insieme alla ricostruzione. Non si può servire a Dio e a Mammona, anche in questo caso possiamo decidere chi dei due vogliamo servire.

Don Davide




Ancora la misericordia, nel nome del Padre

Come il canto fermo di una sinfonia, o il ritornello nelle canzoni moderne, ogni tanto il tema della misericordia torna fuori a ricordarci che dobbiamo rimanere intonati su quella nota, se non vogliamo steccare. La liturgia di questa domenica ci richiama in maniera esplosiva a mettere al centro dei nostri vissuti la misericordia di questo Dio, che si fa conoscere principalmente come un Dio che perdona l’infedeltà del suo popolo, un re che gioisce quando un suddito si avvede del suo sbaglio, un Padre che perdona sempre e determinato a rigenerare la vita attraverso questo perdono.

Come siamo arrivati in secoli passati a rendere opaco, o quasi secondario, questo insegnamento è davvero un mistero. Tuttavia, dobbiamo davvero nuovamente radicarci nelle maestose immagini del vangelo di oggi: bisogna sapere e far sapere che il nostro Dio è disposto a fare di tutto pur di riavere ciascuno di noi! E poi ancora che è questo Padre che non si stanca di aspettare, che non dice – come faremmo noi – “questo è troppo”, ma che si compiace di aspettarci per poterci riabbracciare e, infine, di questo Dio che ci spinge continuamente ad accettare i nostri fratelli, a riconciliarci con loro e così, almeno in parte, a sperimentare la “festa della vita”.

Immagino i cavalieri durante un grande torneo medievale, pronti appena sotto la torre del castello, per poi giocare in campo aperto. Sono tutti bardati, hanno indossato le armature più belle e le armi più lucide. Suona la tromba ed essi si riconoscono in quel suono, incomincia l’avventura. Così, per noi, oggi, ciascuno al suo livello e secondo le proprie capacità, ci armiamo delle nostre armi splendenti e migliori. Dal palazzo del Re proviene il segnale: suona la tromba, è il suono inconfondibile della misericordia, è il nostro stile, il nostro vessillo. Andiamo nella nostra avventura con le insegne inconfondibili di una pecorella, di una monetina, di un figlio riabbracciato.

Don Davide




Il preventivo della gioia

Si ricomincia il nostro percorso di comunità, con un invito molto forte di Gesù. Il rapporto con lui dev’essere autentico, dobbiamo avere il coraggio di tenerlo come riferimento decisivo per le attività, per i progetti che vogliamo realizzare, per il nostro stile di chiesa.

Gesù ci sprona a misurare le forze; dunque, la prima considerazione che dobbiamo fare è: desideriamo ascoltare Gesù e provare a modellare il nostro essere cristiani come lui ci propone? È come fare un progetto e un preventivo, per sostenere un impegno importante.

Le tragedie legate al terremoto che ha appena colpito il centro Italia ci mostrano drammaticamente quanto gravi possano essere le conseguenze di una costruzione non fatta a regola d’arte. Mentre ricordiamo le vittime con cordoglio e siamo solidali a tutte le persone colpite con la preghiera e con l’azione, pensiamo anche a un’altra responsabilità che ci riguarda: quella di testimoniare il Signore risorto, vera speranza di ogni ricostruzione e rinascita possibile.

All’inizio di questo nuovo anno pastorale, perciò, vogliamo valorizzare la riserva di energia che è la gioia. Fortunatamente, possiamo attingere alla gioia e l’entusiasmo che ci hanno dato i campi dei ragazzi e dei giovani. Quattro ragazze hanno fatto il campo di formazione nazionale dell’ACR; il gruppo delle superiori è stato a Torino per interrogarsi sul contributo della comunità cristiana alla vita della città; il gruppo ACR è stato al Falzarego per vivere la gioia che il Signore ci dona e per imparare come regalarla agli altri; infine, i ragazzi di 1° media hanno appena trascorso qualche giorno per lanciare il gruppo medie anche per loro.

Vorrei che questa gioia della fede e della comunità fosse davvero il nostro serbatoio per quello che vorremo edificare quest’anno. Sogno che la nostra preghiera, le nostre attività e anche i nostri impegni possano attingere da esso, per rivelare che siamo davvero animati dallo Spirto del Signore risorto.

Penso che sia questa la sapienza che ci invita a ricercare la prima lettura, e anche quella forza autenticamente liberante di cui parla San Paolo, nella Lettera a Filemone.

È in gioco non solo la fisionomia di una comunità parrocchiale, ma la testimonianza che possiamo offrire agli uomini e le donne che abitano il nostro territorio, e anche l’iniezione evangelica che siamo tenuti a dare alla nostra cultura.

Don Davide




L’amore per Gesù

Devo dire che il Vangelo di questa domenica mi ispira in modo particolare. Forse, anche perché sento più intensamente il bisogno di convertirmi nella direzione che ci propone.

A dispetto della formalità e della sontuosità della cena organizzata da Simone il fariseo, la scena è dominata dal gesto di amore di una donna. Un gesto di amore schietto, spudorato, completamente focalizzato sulla persona di Gesù.

Questa donna non dice una parola, non sappiamo neanche i suoi pensieri; quello che possiamo dedurre di lei lo impariamo solo dai suoi gesti. Eppure, dal momento che entra in quella sala (con quale autorevolezza!) è come se riducesse tutti gli altri personaggi – che pure parlano, interagiscono, sembrano protagonisti della scena – a dei semplici comprimari.

Quanto sarebbe bello se noi fossimo capaci di sentire Gesù così al centro, di volergli bene non come a un’idea, ma come a una persona concreta, un amico con cui abbiamo tessuto anni e anni di relazioni e di avventure insieme, uno che ha fatto strada con noi!

Quando penso all’educazione che offriamo ai nostri ragazzi, mi chiedo se, in tutte le cose che facciamo, noi li aiutiamo a conoscere meglio Gesù e a volergli bene: se la nostra pastorale trova le vie giuste per farglielo frequentare e sentire vicino.

Quanto volte, anche nelle nostre liturgie, noi rispettiamo le formalità, e poi – come rivendica Gesù in questa meravigliosa scena – non gli diamo un bacio, non lo abbracciamo, non ci affidiamo a lui con tutto il nostro essere?!

La misericordia di cui parla tanto papa Francesco dipende proprio da questo rapporto con Gesù: in questa pagina del Vangelo è evidente. Chi ama tanto Gesù conosce il perdono e sarà spinto dalla misericordia. Chi non lo ama, e si ferma alle regole formali, non farà mai l’esperienza di sentire il cuore sciolto, lo slancio che non ti fa avere paura, lo sguardo che ti fa cogliere ciò che di bello accade nella tua vita.

Don Davide