Imparare ogni cosa (Under 20)

“Lo Spirito Santo vi insegnerà ogni cosa” (Gv 14,26) è una delle mie frasi preferite del Vangelo.

La dice Gesù, parlando della forza vitale che pervaderà i discepoli del Risorto.

C’è questo Maestro interiore, che si confonde con la nostra coscienza e la nostra personalità.

Come lo riconosciamo? Dalla capacità di essere padroni di noi stessi.

Dove e come possiamo allenare questa forza?

Vi suggerisco tre cose.

1-Linguaggio sicuro

Ultimamente, sia gli adulti che i più giovani, quando gli chiedi una cosa, ti rispondono: “In linea di massima potrei…” oppure “Quel giorno penso di avere un impegno…” o cose simili. Sono tutti modi di dire che tengono aperta una scappatoia e alla fine tradiscono insicurezza. Allenatevi a dire: “Sono libero, ma voglio valutare meglio se dirti di sì o di no”, oppure: “Ho già un impegno, quindi no.” Vedrete come è difficile, e allo stesso tempo come cambia la musica…

2-Padronanza di sé

Faccio fatica a studiare, ma mi sono dato questo tempo. Non riesco a rimanere concentrato, allora evito le distrazioni. Scelgo di non guardare il cellulare per il tempo che studio. Voglio leggere 20 pagine al giorno e ascoltare 2 belle canzoni. Sono tutti piccoli esercizi che servono a diventare padroni di se. Vengono tempi, nella vita, in cui ringrazierete di non essere dei pappamolli della volontà.

3-Interiorità

Partendo dall’ABC, fatevi un glossario delle emozioni. Quando chiedo a una persona come sta, mi risponde: “Bene” o “Sono arrabbiato”. Queste due risposte dovreste proibirle dal vostro linguaggio, cominciare a riconoscere esattamente qual è la vostra emozione dominante e imparare a chiamarla per nome, come se fosse la sfumatura di un colore: esiste il verde, ma può essere verde acqua, verde bosco, verde militare, verde pisello ecc. Qual è esattamente l’emozione che stai vivendo? Come si chiama?

Scoprirete che lo Spirito è capace di insegnarvi ogni cosa.

 




Questione di sguardi

Possiamo solo provare a immaginare cosa abbia significato per Gesù venire a sapere dell’uccisione di Giovanni Battista ad opera del re di Israele, sebbene un re fantoccio.

Il re che disprezza e uccide i profeti, nella storia di Israele, era memoria di devastazione e rovina: era la causa dell’esilio.

In più, Gesù era legato a Giovanni non solo da affetto famigliare (erano cugini), ma anche da una singolare comprensione della propria vocazione: erano due personalità uniche, che sentivano la responsabilità di dichiarare la venuta del Regno di Dio. Avevano il carisma per farlo e la fede che li sosteneva, eppure si trovavano in mezzo a mille contraddizioni.

Ora Gesù viene a sapere che suo cugino, il suo amico, il suo mentore, il suo apripista era stato ucciso. Come dev’essere stato profondo il suo senso di solitudine e il suo sgomento?

Gesù, come diciamo noi, a questo punto avrebbe bisogno di “staccare”. Si ritira, salendo su una barca e cercando una sponda isolata, dove non ci sia molo né attracco, in modo da non potere essere raggiunto. Lo immaginiamo contemplare le sponde del lago, i monti di Galilea, col pensiero che quei luoghi saranno la culla del messaggio che ormai, inesorabilmente, sta dilagando. È partito da Nazareth, è arrivato fino a Cafarnao e ha fatto il giro delle sponde del lago, poi ha rimbombato di nuovo in Galilea, Samaria… fino in Giudea, a Gerusalemme. Gesù, sulla barca nel lago, in quel breve ritiro, contempla il seme divino che sta per nascere nel mondo.

Ma ecco: viene subito raggiunto da una grande folla e non pensa che voleva riposarsi; pensa a quanto è grande l’umanità, a quanta distonia c’è ancora con il regno di Dio annunciato: ci sono poveri, gente ammalata, oppressi e oppressori… Gesù sente la compassione proprio per questa immensa moltitudine che ancora non gode della presenza del regno di Dio, del suo amore in noi che ci converte e pian piano, quando è accolto e dato, risana tutto. Come potranno credere, costoro, all’amore di Dio se nessuno li cura? Come potranno vedere il suo regno se nessuno li ama? Ecco: “sentì compassione per loro e guarì i loro malati”.

Ma viene la sera. In quei momenti il tempo fugge ed è ora di tornare alle cose concrete. Bisogna mangiare e si sa: il cibo è lavoro, il lavoro è fatica e spesso non ce n’è per tutti.

A questo punto, fra il Maestro e i discepoli si marca una differenza. Questi sono sulla terra, Gesù sembra rapito in cielo: “Non c’è bisogno di congedarli” dice, come se vedesse l’invisibile. I suoi occhi sono fissi sul regno di Dio, che sta facendo irruzione. Nessuno lo vede, lui sì. Da quando ha visto la colomba scendere su di lui, il giorno del battesimo al Giordano, sembra avere sempre questo sguardo fisso sulle cose e sulle persone, specialmente nei momenti più delicati.

“Abbiamo una miseria!” protestano i suoi.

Gesù guarda questi cinque pani e due pesci. Li capisce i suoi discepoli, poveri. Non sono negligenti, sono solo nella medesima difficoltà in cui saranno tutti i discepoli per i secoli a venire, sempre: quelli che soffriranno perché non ci saranno cibo e acqua per tutti, cure per tutti, assistenza spirituale per tutti, abbastanza benessere per tutti; quelli che si sgomenteranno e si sentiranno in difetto perché non fanno abbastanza… Questi discepoli di ogni tempo, che siamo anche ciascuno di noi, non sanno come fare e non rimane che chiedere a ciascuno che si arrangi a fare la propria parte.

Ma Gesù… Lui vede cinque pani e due pesci… e là dove tutti noi percepiamo la mancanza, lui vive la fede nel Padre, che non fa mancare niente ai suoi figli. I re uccidono i buoni; le folle hanno bisogno; le forze sembrano non bastare per tutti, ma Gesù posa il suo sguardo sul regno di Dio che fa irruzione. Questa è la differenza fra lui e noi. E così, pronuncia la benedizione sul pasto, non per chiederne ancora, ma come se bastasse, come se ci fosse un buffet calcolato per tutti gli ospiti: “Benedetto sei tu, Signore, che provvedi il cibo alle tue creature. Tu apri la tua mano e sazi la fame di ogni vivente. Ti ringraziamo per questo cibo che ci doni, fa che possiamo mangiarlo in condivisione e donarlo anche a chi non ce l’ha. Benedetto sei tu, Signore. Noi vogliamo sempre cantare la tua lode!”.

Capite qual è la magia che si sta compiendo? Mentre tutti vedono pochissimo, quasi nulla, Gesù vede la provvidenza del Padre per tutti. Vede il segno di chi si prende cura, Dio prima di tutto, per ciascuno di noi e benedice e ringrazia. E la magia si compie. Non la magia del prestigiatore o dell’alchimista, non il miracolo dell’uomo di Dio, ma la magia della vita, la magia delle fede che dà uno sguardo nuovo sul mondo.

Questione di sguardi. Nella maniera più assoluta.

Cerchiamo di immaginarci lo sguardo di Gesù con quei cinque pani e due pesci in mano e durante la sua preghiera. Fissiamo il nostro sguardo nel suo e cerchiamo di ripeterlo.

Don Davide




Vedere la gloria di Dio

Ci sei o non ci sei? 

La grande domanda che guida il racconto della resurrezione di Lazzaro – il Vangelo di questa V Domenica di Quaresima – la domanda identica che esprimono sia Marta che Maria è legata all’assenza di Gesù, che ci fa sentire soli, o alla sua presenza, che ci custodisce: Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”. 

Ci sei, Gesù, nella mia vita di credente? 

Ci sei, quando mi sento solo e affaticato? 

Ci sei in mezzo a questa epidemia, per curare le persone che muoiono o non ci sei? 

A differenza del famoso racconto di Gesù nella casa di Marta e Maria, qui scopriamo che è Marta ad avere una fede più grande, è radicata nel rapporto con Gesù, dialoga con lui e raggiunge una delle più grandi professioni di fede che si possano immaginare, forse la più grande di tutto il vangelo: “Io credo che tu sei il Messia, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo!”. Dire di più di così, non si può. 

Questa sua professione di fede, però, non chiude il discorso. Al contrario, coinvolge il cammino di tutti, il cammino dei singoli, il cammino dell’esperienza di un popolo, e il cammino di una comunità. 

Marta va a chiamare sua sorella, la interpella, le lascia spazio, accetta che anche lei compia un cammino e faccia i suoi passi, favorisce il suo incontro. 

“Il Maestro è qui, e ti chiama!” 

Il Maestro è qui, c’è eccome. Entra in tutte le situazioni, non fa venire meno la sua presenza. Sa che Lazzaro è morto. Si è accorto che c’è tanta sofferenza e difficoltà. E chiama te!  

Questo è il momento di incontrarlo. 

Questo è il momento di una vocazione. 

È stupendo che Gesù non consumi l’incontro come un fuoco con la stoppia. Lui aspetta la sua amica fuori dal villaggio. Le concede il tempo di un piccolo cammino, di uscire da se stessa, di pensare quello che lei vuole dirgli. 

Maria è più in difficoltà di Marta. Forse è arrabbiata con Gesù, si ferma all’obiezione, non ha altre parole. Dice solo: “Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto.” Non aggiunge nessuna professione di fede, anche se già questo lamento agli occhi di Dio è una supplica piena di amore e di fiducia. 

E piange. 

Maria è in crisi, ha bisogno di attraversare  il dolore e la commozione insieme a Gesù. E Gesù piange con lei. E di fronte a questa scena di dolore così intensa, tutti piangono. Gli abitanti di Betania sono scettici: “Costui che ha ridato la vista al cieco, non poteva fare sì che il suo amico Lazzaro non morisse?”. 

Anche Marta, che pure aveva fatto quella professione di fede grandiosa, vacilla, ed è sopraffatta dal dolore. Pensa che in fondo, nemmeno Gesù lo possa affrontare davvero. “Signore è già tardi… in realtà le nostre speranze sono svanite. Rimane solo l’amicizia, l’affetto, il conforto umano.” 

Qui Gesù tiene il punto: “Non ti ho detto che se crederai, vedrai la gloria di Dio?” 

La gloria di Dio, per gli ebrei, non è qualcosa di spirituale, di astratto. Al contrario è un’esperienza molto concretauna presenza ingombrante. Il segno tipico della gloria di Dio era il fumo denso che riempiva la tenda del santuario di Dio, al punto che nessuno, quando la Gloria era sulla tenda, poteva entrare o uscire.   

Qual è dunque, quest’esperienza così concreta e decisiva? È la fede di un singolo e di una comunità che viene suscitata nei nostri giorni fragili, e il fatto di condividere la lotta contro la morte di un intero popolo. 

Attenzione perché qui si rischia il più grande fraintendimento alla storia di Lazzaro. Il messaggio non è la sua rivitalizzazione, perché di fronte a quella, noi pensiamo subito all’illusione di non morire mai, e diciamo: “Eh, ma i nostri morti non li fai rivivere!”. Il punto decisivo, per noi, è che possiamo credere in Gesù, come singoli e come popolo, e avere una nuova esperienza di vita solo affrontando e attraversando la questione della morte. 

Soltanto in questa luce trova senso la decisione apparentemente assurda e macabra di Gesù di tardare la visita a Betania, per poi andare dopo a resuscitare Lazzaro. Gesù vuole che non esorcizziamo la morte, ma che la consideriamo nella nostra vita, compiendo il cammino della fede e tenendo ferma la speranza.  

Ve lo immaginate Lazzaro, fuori dal sepolcro? Gesù gli dice, vieni fuori, ma doveva essere ben difficile camminare mummificato! 

Allo stesso modo, guidati dalla fede e chiamati dalla speranza, anche noi compiamo piccoli passi, legati, incerti, in equilibrio precario, e veniamo sciolti dalle bende della morte che ci avvolge e vorrebbe impedirci di andare. 

Ieri un amico mi ha scritto: “Io posso anche morire domani, se ho imparato ad amare.” 

Cos’è che rende piena improvvisamente la mia vita con un atto d’amore? 

Questo è il punto cruciale del racconto della resurrezione di Lazzaro: ed è bellissimo vedere come inizia da una professione di fede, incontra una fede in difficoltà, attraversa il dolore e la compassione, suscita la fede di una comunità intera. 

Forse, una testimonianza resa così, sarà la vera nuova evangelizzazione della Chiesa. 

Don Davide

Nebbia