Misericordiate

“Sia benedetto Dio, per la sua misericordia!” (1Pt 1,3)

Questa esclamazione della seconda lettura si intona perfettamente con il senso dei giorni di grande festa che viviamo.

È grande festa perché è la Domenica in Albis, la Domenica della Misericordia – appunto – che si celebra ancora con tutta la solennità di Pasqua.

È grande festa perché abbiamo le Prime Comunioni dei bimbi – ben 48! – e il Battesimo di quattro bimbi.

In questo periodo abbiamo celebrato abbondantemente la misericordia, sia attraverso il sacramento della Riconciliazione, sia nelle traboccanti liturgie del Triduo Santo.

Ricevendo grande conforto, ho incontrato tante persone in sincera ricerca della verità sulla propria vita e autentiche nella loro richiesta di perdono ricevuto e di riconciliazione data, anche quando quest’ultima è particolarmente difficile.

Gesù risorto, in mezzo ai suoi, consegna un mandato molto preciso: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi.” (Gv 20,23)

In altre parole: se non «misericordiate» voi, chi lo farà?

Se non testimoniate voi la compassione e la tenerezza di Dio, come potrà essere conosciuto?

Tutti questi bambini che fanno la Comunione e le loro famiglie, e i pupetti e le pupette che ricevono il Battesimo ci inteneriscono.

Abbiamo un compito preciso: testimoniare a loro, come chiesa e comunità parrocchiale, la bontà di Dio, la sua guida sicura, l’amore concreto di Gesù, il calore interiore dello Spirito Santo. Da questa meraviglia verranno educati.

Siamo certi che cresceranno orgogliosi e grati di essere figli e figlie di Dio.

E che questa compassionevole benevolenza della misericordia, che ricostruisce la fiducia nella vita, raggiunga ogni persona che conosciamo e si allarghi al mondo intero.

Troppi dolori e troppe atrocità, nascondono il vero volto di Dio.

Gesù risorto, che sta in mezzo a noi augurando e affidandoci pace e misericordia, vuole che tutti lo possano incontrare.

Don Davide




Splendida misericordia

“Splendida è la misericordia nel momento della tribolazione,

come le nubi apportatrici di pioggia nel tempo della siccità.”

(Sir 35,26)

C’è bisogno di parole dense e degne di stare di fronte alla complessità dei giorni che stiamo vivendo.

Le parole della fede cristiana vengono accusate di essere friabili, ripetitive, tanto svuotate da lasciare solo il guscio. Talvolta questa accusa è pertinente; più spesso, con una certa superficialità, non se ne coglie la ricchezza e, soprattutto, la portata.

La realtà e l’esperienza della nostra fede, infatti, tendono a dare consistenza alle persone e ai sensi spirituali che sono necessari per abitare il mondo, per vivere bene le relazioni così numerose, mutevoli e complesse, e per conoscere la sfera misteriosa dei sentimenti e delle emozioni.

Nelle esistenze che Dio ama e di cui si prende cura, non c’è spazio per tutti quegli atteggiamenti che vanno di moda in tutte le epoche: la tracotanza dei potenti che umiliano i poveri, l’ipocrisia di chi si sente giusto contro gli altri e la mancanza di qualsiasi sensibilità spirituale di chi ostenta davanti a Dio come se potesse in qualche modo sedurlo o, peggio, ingannarlo.

Il punto è che non sono gli altri che corrono questo pericolo.

La prima lettura è netta nel dire in favore di chi Dio prende parte; invece, Gesù nel Vangelo stereotipizza il fariseo e il pubblicano per ricordarci che in tutti noi alberga l’ombra del fariseo e che dobbiamo sempre fare i conti con le sue seduzioni maligne.

Mentre lottiamo contro il fariseo in noi, sentiamo il bisogno di misericordia del pubblicano.

Come le nubi che si addensano di pioggia, così le parole della nostra fede diventano vere e dense, quando riconosciamo l’obiettivo – quello di essere umili e veri davanti a Dio – e ci sforziamo di non smarrire la direzione.

In questa quotidiana lotta per identificare in noi il fariseo che addita il pubblicano, sentiamo il bisogno di un grande manto di misericordia, come una pioggia diffusa in una stagione di siccità.

Don Davide




Il dolore e l’amore

Un pomeriggio di inizio primavera, un parchetto, un’amica in gamba con cui dialoghi e che ti confida: “Ho un po’ d’ansia”. Poi un racconto pacato, piano e lucidissimo: prima il covid, ora la guerra; la separazione dei genitori; l’anoressia e la bulimia delle amiche. Fortunatamente, in mezzo e accanto a questo, l’amore di un ragazzo.

Improvvisamente ti accorgi che la “Parabola del padre misericordioso” non è solo una storia di peccato e di misericordia, ma è il racconto della nostra generazione, anche senza il peccato e prima della misericordia.

Stando solo attaccati al testo, leggiamo che non c’è una madre né il femminile, ma non sappiamo il perché. Possiamo solo provare a immaginare cosa significhi questo vuoto, in una storia che si svolge tutta al maschile.

C’è un giovane figlio preso da pensieri nocivi, che si trasformano in propositi disastrosi; c’è un fratello più grande che sparisce. Sullo sfondo vige la regola dei soldi in uno scenario di dissolutezza e di mancanza di solidarietà. L’unico protagonista di questo paesaggio è un uomo arcigno, nemmeno disposto a dare le carrube dei porci a un malcapitato.

E quali emozioni deve avere sperimentato il figlio maggiore, che si accontenta che le sostanze siano divise anzitempo, ma non sfiora nemmeno la vita del fratello che parte?

Aveva paura? Soffriva troppo? Era occupato in altre faccende? Gli andava bene così? Covava anche lui risentimento nei confronti del padre e pensava che gli stesse bene, e che il fratello, in fondo, aveva messo in atto quello che lui non aveva avuto il coraggio di fare?

E il padre che accetta – sembra senza battere ciglio – che persona era e come stava? Era risentito? Faceva il duro? Oppure provava un abisso di costernazione?

E come ha vissuto il padre, in quel tempo che non viene precisato?

Lo ascoltiamo, per analogia, dai genitori che vengono rinnegati dai figli, o quando li vedono improvvisamente prendere strade totalmente diverse. Lo sentiamo nello sgomento di non sapere cosa fare e, ancora peggio, quando non si può proprio fare nulla.

Allo stesso tempo, riconosciamo le storie dei figli (e delle figlie) che si allontanano dalla loro famiglia per respirare, per essere liberi, per non essere umiliati, per non dovere soccombere alla logica del confronto o, semplicemente, per diventare se stessi: qualcosa di nuovo e di altro rispetto alle loro radici.

Il testo lascia aperte un miliardo di storie e di possibilità, perché ci stiano tutte.

Nella seconda parte il racconto diventa più preciso. Accoglie ogni vita e ogni intreccio in uno spazio ampio, ma ben definito.

Possiamo capirne qualcosa dal fatto che il padre scorge il figlio da “lontano”… come se in tutto quel tempo avesse tenuto un occhio sull’esistenza cruda, da mandare avanti, e uno sull’orizzonte della speranza, ferito dal dolore, in attesa di vedere comparire una figura, contro il Sole al tramonto.

A quel punto “ebbe compassione” (Lc 15,20). L’aveva avuta anche prima? Non lo sappiamo. In quel momento, però, è certo che tutta la consapevolezza dell’amore per suo figlio viene risvegliata.

La compassione è suscitata da un trasferimento di sofferenza. Improvvisamente, tutta la sofferenza inspiegabile viene trasferita sul padre. Lui la sente tutta. E l’accoglie per amore di quel figlio… e dell’altro.

Forse è a quel punto che il padre diventa misericordioso.

Gesù ha costruito il racconto in modo che ogni vicenda, ogni emozione, ogni mutamento vi possa trovare una luce, attraverso il dolore, nello spazio dell’amore e della misericordia.

Sembra non starci mai abbastanza tutto nella vita e, se commettiamo degli errori o dei peccati, in genere lo facciamo per questo motivo: perché vorremmo la vita e la cerchiamo in modo maldestro e, alcune volte, tremendo.

Ma la misericordia di quel padre è esattamente così: vedere la vita e sapere che tutti ce ne struggiamo.

Don Davide




Convertirsi

Dio si rivela a Mosè come “il Dio di tuo padre” (Es 3,6).

C’è una storia che attraversa le generazioni e una trasmissione della conoscenza di questo Dio presente e partecipe della vita degli uomini.

Senza fare il facile profeta di sventura, bisogna ammettere che questa riconsegna – questo rapporto tra le generazioni che potrebbe dare inizio a una storia completamente nuova e rivoluzionaria nel senso migliore del termine, come quella di Mosè – si è completamente interrotta.

È umile e difficilissimo allo stesso tempo, quindi, accogliere la parola di Gesù che di fronte a due situazioni: la guerra e una catastrofe, dice: “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13,5).

La guerra c’è; anzi, bisogna dire: le guerre ci sono, numerose, atroci e persistenti.

Le catastrofi ci sono, a partire dalla crisi ecologica che tocca tutti i versanti.

Cosa significa, allora, “convertirsi”? Ci fermiamo e meditiamo un istante su questo.

Convertirsi significa, prima di ogni altra cosa, riconoscere che la parola di Dio mette ordine nel caos e dona quella illuminazione che permette di avere chiarezza e di creare o ricreare il mondo (cf. Gn 1,1-3).

Convertirsi, poi, ha a che fare con se stessi: convertire sé. Significa lavorare di continuo a sradicare e correggere ciò che noi ci sentiamo in diritto di biasimare negli altri. È un impegno durissimo anche solo da accettare, ancora più faticoso da assumere costantemente, fino a che possiamo vedere qualche piccolo risultato. Eppure, quanto mai necessario.

Infine, convertirsi chiede di riconoscere il tempo che ci è dato come un tempo di misericordia. Esistiamo nel segno della misericordia e dell’amore di Dio. Anche se le parole di Gesù ci spronano con forza, ci è dato tempo non per sentirci nell’errore, ma per vedere le possibilità buone e per sapere che possiamo espanderci nell’amore.

Viviamo in questa benevolenza, ricevuta e data affettuosamente, e vedremo venire il bene (cf. Ger 17,6).

Don Davide




L’anomala normalità

Della compassione come via

L’insegnamento di Gesù, nel vangelo di questa domenica, ruota attorno al tema della compassione. “Il padrone ebbe compassione del servo” e, al termine del racconto, chiede allo stesso servo: “non dovevi anche tu avere compassione del tuo compagno?”.

Questa domenica fa da spartiacque: iniziamo un periodo importantissimo e difficile. Domani riprendono le scuole, con le complicazioni enormi e i rischi inevitabili legati al perdurare dell’emergenza sanitaria. Tuttavia, i nostri ragazzi andranno finalmente a scuola, nel loro luogo più proprio. Era un assenza che durava dal 27 febbraio, una situazione davvero impressionante a pensarla in circostanze normali. Qualcuno ha vissuto i passaggi della fine dei cicli scolastici, che sono tra i più indimenticabili della vita, senza nemmeno potere fare una festa o salutare “in balotta” (come diciamo a Bologna) i propri amici.

Ci piacerebbe che tutti gli studenti e le studentesse sentissero una speciale vicinanza a quest’esperienza così difficile: una tenerezza per quello che è stato e come l’hanno affrontato, e quasi una commozione a vederli di nuovo varcare i cancelli dei loro istituti, in compagnia degli amici.

Anche il mondo universitario riprende con coraggio le lezioni in presenza. In generale, la fine delle vacanze estive segna inconfutabilmente un confronto con quella “normalità” che, dai mesi della quarantena nazionale, non era più stata piena: un’anomala normalità, nei mesi che ci attendono.

Ugualmente, anche la nostra parrocchia si cimenta con l’orario ordinario delle messe, che non era più stato tale dal 27 febbraio, con la ripresa del catechismo, la programmazione dei gruppi, il tentativo di fare ripartire il doposcuola, l’impegno della San Vincenzo e lo sforzo di non fermare gli aiuti della Caritas.

Vorrei che tutti avessimo uno sguardo di compassione su questi sforzi – nostri, del mondo ecclesiale, e quelli di fuori, dell’impegno della società civile – pensando che ognuno stia provando a fare il meglio che può, con la consapevolezza di sé, la maturità e l’equilibrio che è riuscito a raggiungere fino a quel punto della propria vita.

Questo atteggiamento esige che la compassione entri in circolo. Nelle istruzioni di Gesù, il rimprovero per quelli che arrestano questa circolazione della bontà è severo: “Non dovevi anche tu avere pietà del tuo compagno?”.

Non abbiamo bisogno di durezze, ma di un’umanità tenera.

Non abbiamo bisogno di convinzioni granitiche, ma di cuori aperti.

Non abbiamo bisogno di affermare noi stessi, ma di capire come possiamo fare i passi insieme.

Concretamente, credo che ci siano alcuni atteggiamenti molto pratici che possiamo tenere presenti.
1) Attenzione e delicatezza per chi si sente ancora poco sicuro rispetto alla pandemia e magari affaticato da qualche turbamento o ansia. Non bisogna sminuire affatto questi nostri fratelli e sorelle e non bisogna farli sentire in difficoltà. Occorre fare uno sforzo ulteriore di rispettare le norme sanitarie: l’utilizzo della mascherina, il rispetto della “giusta vicinanza”, il garbo e l’attenzione di mettere a proprio agio l’altro.

2) L’esercizio della comprensione. In parrocchia, a scuola, negli uffici e nei posti di lavoro… sicuramente c’è stato lo sforzo di provare ad affrontare le difficoltà. Anche dove l’organizzazione non fosse perfetta, magari c’era qualcuno che anelava al meglio. Non bisogna “farsi andare bene tutto”, ma provare ad essere radicalmente costruttivi.

3) Una sigla: ARP. Assoluta – responsabilità – personale. Cosa posso fare io? Questa domanda dovrebbe essere come una giaculatoria, o un mantra. Come posso dare una mano? Cosa posso fare io per migliorare la situazione o impedire altre difficoltà. Cosa devo fare io per tenermi centrato, in forma fisicamente e spiritualmente, per essere pronto a fare la mia parte in questa sfida che tutti stiamo vivendo?

Il padrone della parabola risponde a queste domande dicendo: “Io sono ricco e potente, una cosa posso esercitare: la compassione.” E lo fa.

Vale anche per noi.

La compassione è la nostra via.

Don Davide




Bisogno di silenzio

La scena del vangelo della solennità di Cristo Re, fa da cerniera tra l’anno appena concluso sotto il segno della misericordia e il nuovo anno liturgico, che riprende con l’invito a una maggiore attenzione alla presenza di Gesù tra noi nell’eucaristia.

Oggi contempliamo Gesù sulla croce, nell’ennesimo atto di misericordia regale, con cui si fa precedere dal suo amico ladro – nuovo amico ed ex ladro – in Paradiso. È come se il suo sguardo, dall’alto, spingesse il nostro e ci invitasse a non dimenticare questo stile di misericordia, e a portarlo ancora e sempre di più nelle nostre vite, perché l’Eucaristia è il modo di Gesù di continuare la sua incarnazione tra noi.

L’apertura del Congresso Eucaristico diocesano è un richiamo a migliorare la qualità delle nostre celebrazioni e farne una sorgente per incarnare l’amore di Gesù nelle nostre giornate.

Sono da poco stato qualche giorno in un eremo camaldolese, dove la preghiera è sobria e raccolta, e la messa estremamente essenziale. In quel contesto privilegiato, ho potuto apprezzare quanto il silenzio fecondi la celebrazione.

Con questo ricordo ancora nell’animo, fermandomi questa domenica davanti alla scena della crocifissione di Gesù, la cosa che più mi colpisce è questa situazione caotica, di grande chiasso e confusione. Le persone che gridano, i sacerdoti che lo provocano, la voce sgraziata del ladro impenitente.

Oggi guardiamo alla croce come a un trono regale, e mi sono chiesto chi mai entrerebbe nel salone del trono di un grande re, con urli e schiamazzi. Di fronte a questo contrasto sentiamo la supplica del ladro pentito elevarsi da un silenzio che, evidentemente, gli ha permesso in un ultimo istante di grazia di capire quello che stava avvenendo. Lì sorge l’atto di fede, lì sorge una preghiera di salvezza, una preghiera che guarisce.

Se dovessi esprimere qual è il senso delle nostre liturgie direi proprio questo: che da un silenzio (prima ancora intimo, che esteriore) posto di fronte a Gesù, sorga un atto di fede schietto, e si possa elevare una preghiera di salvezza che ci cura e conforta in tutti i nostri bisogni.

La gioia della vita cristiana, il senso di comunione e fraternità, l’incoraggiamento a vivere la carità risultano da quel primo e più fondamentale passaggio.

Ho notato con piacere che anche il sussidio liturgico proposto dalla CEI per vivere l’Avvento nelle nostre comunità, fa leva su questa attenzione al silenzio.

Mi propongo, allora, che le celebrazioni dell’Avvento siano uno spazio privilegiato per il silenzio, con alcuni piccoli accorgimenti liturgici che vanno nell’ordine di togliere, e di sottolineare alcune attenzioni, per poi godere della pienezza nella celebrazione del tempo di Natale. In un foglietto a parte da queste brevissime riflessioni, indico quali sono le attenzioni che vorrei provare ad avere, per ora solo per il tempo di Avvento, con il proposito di verificare su quale stile migliore possono istruirci.

Se mi si passa l’esempio, è la differenza tra entrare in vecchio negozietto stile bazar e in un moderno Apple Store. Nel negozio moderno non troverai niente di superfluo, perché possa risaltare ciò che è prezioso. Ecco, nella liturgia noi abbiamo qualcosa di molto più importante che un iPhone o qualche altro strumento. Noi abbiamo qualcosa che non è da usare, ma da godere. E dobbiamo testimoniarlo come il nostro più grande tesoro.

Don Davide




Ancora la misericordia, nel nome del Padre

Come il canto fermo di una sinfonia, o il ritornello nelle canzoni moderne, ogni tanto il tema della misericordia torna fuori a ricordarci che dobbiamo rimanere intonati su quella nota, se non vogliamo steccare. La liturgia di questa domenica ci richiama in maniera esplosiva a mettere al centro dei nostri vissuti la misericordia di questo Dio, che si fa conoscere principalmente come un Dio che perdona l’infedeltà del suo popolo, un re che gioisce quando un suddito si avvede del suo sbaglio, un Padre che perdona sempre e determinato a rigenerare la vita attraverso questo perdono.

Come siamo arrivati in secoli passati a rendere opaco, o quasi secondario, questo insegnamento è davvero un mistero. Tuttavia, dobbiamo davvero nuovamente radicarci nelle maestose immagini del vangelo di oggi: bisogna sapere e far sapere che il nostro Dio è disposto a fare di tutto pur di riavere ciascuno di noi! E poi ancora che è questo Padre che non si stanca di aspettare, che non dice – come faremmo noi – “questo è troppo”, ma che si compiace di aspettarci per poterci riabbracciare e, infine, di questo Dio che ci spinge continuamente ad accettare i nostri fratelli, a riconciliarci con loro e così, almeno in parte, a sperimentare la “festa della vita”.

Immagino i cavalieri durante un grande torneo medievale, pronti appena sotto la torre del castello, per poi giocare in campo aperto. Sono tutti bardati, hanno indossato le armature più belle e le armi più lucide. Suona la tromba ed essi si riconoscono in quel suono, incomincia l’avventura. Così, per noi, oggi, ciascuno al suo livello e secondo le proprie capacità, ci armiamo delle nostre armi splendenti e migliori. Dal palazzo del Re proviene il segnale: suona la tromba, è il suono inconfondibile della misericordia, è il nostro stile, il nostro vessillo. Andiamo nella nostra avventura con le insegne inconfondibili di una pecorella, di una monetina, di un figlio riabbracciato.

Don Davide




La Pasqua piena di misericordia

“A coloro a cui perdonerete i peccati saranno rimessi”. Questa affermazione di Gesù risorto, in mezzo ai suoi, sembra tautologica. È ovvio, verrebbe da dire. Ma Gesù vuole sottolineare come la Chiesa abbia la responsabilità di essere piena testimone della Pasqua attraverso la misericordia. Per questo il Risorto mette nelle mani della Chiesa questo “potere” di perdonare, e affida a ciascuno di noi, battezzati, questo mandato e questo compito.

Perdonare è l’unico potere che abbiamo. Riconciliare la nostra unica arma.

La misericordia è l’energia della resurrezione in atto. Cos’è che fa vivere, quando siamo morti? Essere riconciliati col Padre. Cos’è che ci cambia quando stiamo percorrendo una strada sbagliata? Chiedere perdono. Cos’è che ci rimette in cammino, quando siamo bloccati? Potere aprirci con qualcuno, confessare le nostre fatiche.

Tutte le volte che noi chiediamo ed offriamo perdono, passiamo dalla morte alla vita; dal mondo vecchio logoro a causa dei suoi stessi egoismi diamo origine al mondo nuovo.

L’esperienza così intensa, autentica ed elettrizzante che i discepoli fanno di Gesù risorto nel vangelo di oggi, noi la ripetiamo tale e quale quando facciamo opera di misericordia o la chiediamo per le nostre vite.

Che cos’altro è la “Misericordia” se non vedere le ferite del Corpo di Cristo, essere anche noi trafitti dalle sue piaghe e mettere il dito in quegli squarci della sua carne. Dovremmo proprio cercare di vedere le ferite degli uomini e delle donne del nostro mondo, dovremmo pregare che il nostro cuore si intenerisca di fronte alle piaghe fisiche e morali di tanti nostri fratelli e dovremmo accettare di “mettere le mani” a ciò che uccide i nostri fratelli e sorelle, sporcarci di lavoro, per cercare di cambiare qualcosa.

In questo modo, il Signore risorto si manifesterà a noi nella sua totale integrità e noi potremo così celebrare la Pasqua in pienezza.

Don Davide




Come ai tempi di Noè

Dopo avere percorso l’impianto dell’intervento di Dio nella storia, con il racconto della Creazione, l’Alleanza e l’Elezione, la seconda parte delle letture della Veglia Pasquale (4° e 5°) sono un invito a meditare con l’animo pacificato e rassicurato la misericordia (4°) e la provvidenza di Dio (5°) con le quali il Signore della storia sempre sostiene e incoraggi il nostro cammino.

Il profeta Isaia usa la metafora sponsale per parlare di un atto definitivo: “Tuo sposo è il tuo creatore” (Is 54,5). Il vincolo d’amore stabilito da Dio con il popolo di Israele (e quindi con ciascuno di noi) è irrevocabile. Non dipende dalla coerenza dell’uomo: “Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace, dice il Signore che ti usa misericordia” (Is 54,10). Il Signore fa di tutto per riavvicinarci a sé. Anche quando dovesse apparire che si è allontanato, la verità è espressa da questa dichiarazione solenne: “Con affetto perenne ho avuto pietà di te” (Is 54,8). In questo testo, c’è uno dei passaggi più belli e teneri di tutta la Bibbia, quando Dio riafferma questo decreto irrevocabile: “Ora è per me come ai tempi di Noè, quando giurai che non avrei più riversato le acque sulla terra, così ora giuro di non più adirarmi con te e di non più minacciarti” (Is 54,9). I “tempi di Noè” sono i tempi (eterni) che testimoniano e la postura definitiva di Dio nei confronti dell’uomo, promessa e realizzata in Gesù di Nazareth: non minaccia, non ira, ma attitudine materna, cura di pastore, protezione di padre buono. Chi di noi non si è mai sentito “afflitto, percosso dal turbine, sconsolato”? (cf. Is 54,11). A ciascuno il Signore dice: “Ecco, io pongo sullo stibio le tue pietre e sugli zaffiri pongo le tue fondamenta…” (Is 54,11).

Da questa posizione di speranza, risuona la chiamata di Dio con cui si apre la quinta lettura: “Voi tutti assetati venite all’acqua!” (Is 55,1). Incoraggiati da questo invito, noi possiamo lasciarci investire dal fiume di grazia, che discende in primo luogo dalla celebrazione solenne della Veglia Pasquale, e poi ci accompagna nella vita concreta di ogni giorno.

Consegniamoci a Dio senza riserve, lasciamo che l’invito alla conversione vibri nel nostro animo, affidiamoci alla sua provvidenza. Nella Veglia Pasquale ci immergiamo in un ascolto prolungato e abbondante della Sua parola e proprio questa 5° lettura ci garantisce il senso di questa sosta: nessuna parola di Dio rimarrà senza effetto, ritornerà in cielo senza avere operato con efficacia, e senza avere compiuto, nelle nostre vite, ciò per cui il Signore ce l’ha regalata.

Don Davide




Una settimana davvero speciale

Con la voce di Giovanni Battista che ci invita alla conversione e a fare l’esperienza del perdono dei peccati, entriamo in una settimana davvero speciale per tutta la Chiesa e per la Chiesa di Bologna.

Questo martedì Papa Francesco aprirà la Porta Santa in San Pietro a Roma per inaugurare il Giubileo Straordinario della Misericordia; sabato, invece, accoglieremo il nuovo vescovo Matteo Maria Zuppi, che dopo la celebrazione eucaristica aprirà la Porta Santa nella nostra cattedrale.

Il papa ci ha consegnato l’intento programmatico di questo anno, nell’interpretazione sintetica del Concilio che ci ha proposto nella bolla di indizione dell’anno santo Misericordiae Vultus (MV): «I Padri radunati nel Concilio avevano percepito forte l’esigenza di parlare di Dio agli uomini del loro tempo in un modo più comprensibile. Abbattute le muraglie che per troppo tempo avevano rinchiuso la Chiesa in una cittadella privilegiata, era giunto il tempo di annunciare il Vangelo in un modo nuovo. Una nuova tappa dell’evangelizzazione di sempre» (MV 4). La misericordia è la chiave sintetica di questo “nuovo” stile, è «l’architrave che sorregge la vita della Chiesa» (MV 10).

Senza mezzi termini, papa Francesco afferma che «tutto nell’azione pastorale della Chiesa dovrebbe essere avvolto dalla tenerezza con cui si indirizza ai credenti […]. La credibilità della Chiesa passa attraverso la strada dell’amore misericordioso e compassionevole» (MV 10).

Mi pare di particolare rilievo, in questo tempo d’Avvento, ricordare che «misericordia è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro» (MV 2). L’Avvento, tempo di attesa, è tempo soprattutto di attesa della misericordia di Dio, di incontro col suo perdono e rinnovamento a partire da esso.

Chi desidera cambiare vita? Chi desidera avere la pace? Si faccia avanti! È il tempo della misericordia!

Anche la presenza di un nuovo vescovo si iscrive in questo segno della misericordia di Dio per la sua – in questo caso, nostra – Chiesa.  Per capire quali siano i sentimenti di un vescovo per la diocesi che gli viene affidata, potremmo rileggere le parole di Paolo nella II lettura di questa domenica, rivolta “col cuore in mano” ai Filippesi, sua comunità prediletta e amata. Soprattutto, vorrei ricordare queste parole: «Quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia» (Fil 1,4). Ci auguriamo che il vescovo Matteo possa dire lo stesso della sua Chiesa di Bologna, ma allo stesso tempo vogliamo fare nostre queste parole:

«Caro vescovo,

quando preghiamo per te, lo facciamo con gioia, a motivo del tuo prezioso servizio al vangelo. Siamo persuasi che il Signore che ha iniziato in te quest’opera buona, la porterà a compimento. Perciò preghiamo che il tuo amore cresca sempre di più, perché tu possa raccogliere a piene mani i frutti che ti aspetti dalla tua Chiesa ed essere lieto e contento del tuo ministero» (cf. Fil 1,4-11).

 Don Davide