Chi e come vogliamo amare?(Under 20)

Parlare della morte a voi, che siete giovani o addirittura giovanissimi, risulta quasi oltraggioso.
Eppure, anche se cerchiamo di rimuoverla in ogni modo, tutti in qualche circostanza ci abbiamo avuto a che fare.

A tutti è capitato di dover salutare qualcuno dei nonni, o un genitore morto prematuramente, o un amico molto giovane, o di stare vicino a una persona che ha vissuto questa sofferenza terribile.
In questi casi, ci si trova in una bruttissima situazione, divisi tra il desiderio di guardare avanti, di non soffrire a causa di quel ricordo, e la paura che il fatto di non pensarci per non stare male significhi dimenticarsi di quella persona che è morta, magari importantissima.

Sapendo questo e conoscendo quanto sia difficile, la Chiesa fa memoria in una giornata di tutte le persone defunte che ci sono care, così possiamo farlo insieme senza sentire ancora il dolore acuto, anzi rincuorandoci a vicenda. Questo giorno dell’anno è il 2 novembre.

Perciò, in questa settimana, ricordiamo tutti i vostri nonni, il papà o la mamma morti prematuramente, gli amici che ci hanno lasciato. Lo facciamo il giorno dopo della Festa di Tutti i Santi, perché sappiamo che insieme a loro sono vivi di una vita che non finisce.
Il fatto che da lì sono sempre vicini ci aiuta a scegliere come vogliamo vivere, chi e come vogliamo amare, come nella scena del film che vi lascio: Elogio funebre di Hazel Grace

Se non l’avete visto ve lo consiglio.

Se non avete letto il libro, vi consiglio anche quello.




Tre sapienze

Ho ascoltato di recente una riflessione suggestiva di Alessandro Baricco. Un testo pieno di cose questionabili e ricchissimo di spunti per il pensiero, riguardo a un possibile assetto e all’interpretazione del mondo prossimo venturo.

Nella parte finale di questa meditazione, l’autore afferma: “Commiati, addii, distacchi saranno insegnati come gesti artigianali da compiere bene, li si riterrà obbligatori.”

Mi stupisce che si parli di una cosa di cui la Chiesa potrebbe e dovrebbe essere umile maestra, non per insegnare da una posizione di autorità o presuntuosa, ma per trasmettere un sapere fondamentale per vivere.

Mi sento, perciò, di richiamare tre sapienze che la Chiesa può consegnare per chi vuole accoglierle; sono sapienze che c’entrano con la morte, ma che in realtà riguardano il vivere bene.

Primo. I funerali.
Si celebrano bene, non in fretta, non con il desiderio di finire il prima possibile questa atroce sofferenza, ma con tutte le cure possibili. Questo vale sia per chi crede che per chi non crede. Nella forma religiosa o laica, è fondamentale per il nostro modo di essere “umani” celebrare bene il commiato dalle persone da cui ci separiamo. Se non lo si fa, si lascia una ferita emotiva e psicologica di cui difficilmente si possono misurare le conseguenze. Il fatto che all’inizio della pandemia non sia stato compiuto questo gesto, in alcune circostanze, è stato un vero e proprio infarto dell’umanità, della cultura e del pensiero. Perciò, anche quando si incontra un carro funebre, o un funerale, è sacrosanto avere ogni gesto di attenzione: un piccolo segno di raccoglimento, il rispetto per la bara, la percezione che sta accadendo qualcosa di decisivo.

Secondo. La sepoltura.
Noi essere umani occidentali a cavallo tra il XX e il XXI secolo celebriamo la sepoltura individuale, perché per mille ragioni antropologiche che non è certo possibile esprimere qui, nella nostra parte del mondo si è sempre dato rilievo all’individuo, anche quando c’era molta più consapevolezza che fosse parte di una comunità. Non è un processo che un singolo cambia così alla leggera, pensando che sia una cosa irrilevante. In gioco c’è un mondo di simboli, di percezione dell’esistenza e di senso con cui si sta al mondo e nel mondo.

Nel luogo della sepoltura si ricorda la storia di un essere unico, personale. Quella vita che è nata è un “io” non una coscienza collettiva, e non è più destinato a dissolversi in modo indistinto nella natura o nella Creazione. È certamente possibile la cremazione, ma con un luogo della custodia delle ceneri, cioè della sepoltura. Scimmiottare con la dispersione delle ceneri le nobilissime culture orientali, che hanno (come la nostra) migliaia di anni di assimilazione di una precisa tradizione religiosa, è come fingere di parlare una lingua straniera, senza saperlo fare.

Terzo. La preghiera.
Per noi, che siamo credenti, c’è una preghiera perfetta per ricordare i defunti. È il ricordo di essi nella messa. Fin dalle catacombe, sulle tombe, veniva rappresentata la scena dell’ultima cena. Nella messa si celebra la morte di Gesù e si proclama la sua resurrezione, in attesa della sua venuta: quando incontreremo di nuovo le persone che già partecipano della vita del Risorto, che amiamo e con le quali desideriamo ritrovarci. Per questo è importante non perdere la tradizione di fare memoria dei nostri defunti nella messa, che è la memoria per eccellenza del trionfo pasquale di Gesù sulla morte.

Don Davide




Una sapienza per la vita

La tradizione della Chiesa di fronte alla morte 

Nella cultura di oggi la morte è stata rimossa. Ci illudiamo di poterla quasi eludere, grazie alle conoscenze sul benessere psico-fisico, per l’incredibile sviluppo della medicina, con l’ausilio della tecnologia, ma quando poi siamo costretti a farci i conti siamo impacciati, la nominiamo con imbarazzo, cercando gli eufemismi. 

In realtà, non c’è nulla di male, in questo. 

Ma la fede in Gesù ci aiuta a confrontarci con la morte, senza sottovalutarla, ma anche senza averne così paura da doverla rimuovere. Anzi, ci permette di nominarla e di farla oggetto di meditazione per la nostra esistenza. 

In questi mesi della pandemia, in modo particolare, la morte è stata vicina. Inevitabilmente, qualcuno si sarà scontrato contro il pensiero che la Cattiva Signora avrebbe potuto raggiungerci, in modo subdolo e inaspettato. Affrontare il pensiero, senza battere in ritirata, ci aiuta a imparare la sapienza. 

Ho vissuto bene, fino ad ora? 

Gesù è risorto, e la grande tradizione ci insegna che nell’attraversamento del Luogo delle Ombre – lo Sheól, in ebraico – lui prende per mano tutti i “prigionieri” e li riporta nel Giardino della Vita. Questo potrebbe essere il secondo elemento per meditare: il ricordo di coloro che abbiamo amato, che ci hanno preceduto e ci aspettano. 

Siamo persuasi che ci rincontreremo? 

Fin dai tempi delle catacombe, l’esperienza della Chiesa insegna che nella messa offerta per la memoria dei defunti, noi meditiamo su queste due domande. Nella messa, infatti, mentre siamo coinvolti in questa mensa collocata tra la terra e il cielo, che ha come commensali i vivi e i defunti, da un lato ci interroghiamo sul senso della nostra esistenza, dall’altro guardiamo alla comunione dei santi, fiduciosi che loro ci accolgano e che di questa comunione possiamo davvero fare esperienza, anche se “da qui” è sempre molto difficile. 




Vedere la gloria di Dio

Ci sei o non ci sei? 

La grande domanda che guida il racconto della resurrezione di Lazzaro – il Vangelo di questa V Domenica di Quaresima – la domanda identica che esprimono sia Marta che Maria è legata all’assenza di Gesù, che ci fa sentire soli, o alla sua presenza, che ci custodisce: Se tu fossi stato qui mio fratello non sarebbe morto”. 

Ci sei, Gesù, nella mia vita di credente? 

Ci sei, quando mi sento solo e affaticato? 

Ci sei in mezzo a questa epidemia, per curare le persone che muoiono o non ci sei? 

A differenza del famoso racconto di Gesù nella casa di Marta e Maria, qui scopriamo che è Marta ad avere una fede più grande, è radicata nel rapporto con Gesù, dialoga con lui e raggiunge una delle più grandi professioni di fede che si possano immaginare, forse la più grande di tutto il vangelo: “Io credo che tu sei il Messia, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo!”. Dire di più di così, non si può. 

Questa sua professione di fede, però, non chiude il discorso. Al contrario, coinvolge il cammino di tutti, il cammino dei singoli, il cammino dell’esperienza di un popolo, e il cammino di una comunità. 

Marta va a chiamare sua sorella, la interpella, le lascia spazio, accetta che anche lei compia un cammino e faccia i suoi passi, favorisce il suo incontro. 

“Il Maestro è qui, e ti chiama!” 

Il Maestro è qui, c’è eccome. Entra in tutte le situazioni, non fa venire meno la sua presenza. Sa che Lazzaro è morto. Si è accorto che c’è tanta sofferenza e difficoltà. E chiama te!  

Questo è il momento di incontrarlo. 

Questo è il momento di una vocazione. 

È stupendo che Gesù non consumi l’incontro come un fuoco con la stoppia. Lui aspetta la sua amica fuori dal villaggio. Le concede il tempo di un piccolo cammino, di uscire da se stessa, di pensare quello che lei vuole dirgli. 

Maria è più in difficoltà di Marta. Forse è arrabbiata con Gesù, si ferma all’obiezione, non ha altre parole. Dice solo: “Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto.” Non aggiunge nessuna professione di fede, anche se già questo lamento agli occhi di Dio è una supplica piena di amore e di fiducia. 

E piange. 

Maria è in crisi, ha bisogno di attraversare  il dolore e la commozione insieme a Gesù. E Gesù piange con lei. E di fronte a questa scena di dolore così intensa, tutti piangono. Gli abitanti di Betania sono scettici: “Costui che ha ridato la vista al cieco, non poteva fare sì che il suo amico Lazzaro non morisse?”. 

Anche Marta, che pure aveva fatto quella professione di fede grandiosa, vacilla, ed è sopraffatta dal dolore. Pensa che in fondo, nemmeno Gesù lo possa affrontare davvero. “Signore è già tardi… in realtà le nostre speranze sono svanite. Rimane solo l’amicizia, l’affetto, il conforto umano.” 

Qui Gesù tiene il punto: “Non ti ho detto che se crederai, vedrai la gloria di Dio?” 

La gloria di Dio, per gli ebrei, non è qualcosa di spirituale, di astratto. Al contrario è un’esperienza molto concretauna presenza ingombrante. Il segno tipico della gloria di Dio era il fumo denso che riempiva la tenda del santuario di Dio, al punto che nessuno, quando la Gloria era sulla tenda, poteva entrare o uscire.   

Qual è dunque, quest’esperienza così concreta e decisiva? È la fede di un singolo e di una comunità che viene suscitata nei nostri giorni fragili, e il fatto di condividere la lotta contro la morte di un intero popolo. 

Attenzione perché qui si rischia il più grande fraintendimento alla storia di Lazzaro. Il messaggio non è la sua rivitalizzazione, perché di fronte a quella, noi pensiamo subito all’illusione di non morire mai, e diciamo: “Eh, ma i nostri morti non li fai rivivere!”. Il punto decisivo, per noi, è che possiamo credere in Gesù, come singoli e come popolo, e avere una nuova esperienza di vita solo affrontando e attraversando la questione della morte. 

Soltanto in questa luce trova senso la decisione apparentemente assurda e macabra di Gesù di tardare la visita a Betania, per poi andare dopo a resuscitare Lazzaro. Gesù vuole che non esorcizziamo la morte, ma che la consideriamo nella nostra vita, compiendo il cammino della fede e tenendo ferma la speranza.  

Ve lo immaginate Lazzaro, fuori dal sepolcro? Gesù gli dice, vieni fuori, ma doveva essere ben difficile camminare mummificato! 

Allo stesso modo, guidati dalla fede e chiamati dalla speranza, anche noi compiamo piccoli passi, legati, incerti, in equilibrio precario, e veniamo sciolti dalle bende della morte che ci avvolge e vorrebbe impedirci di andare. 

Ieri un amico mi ha scritto: “Io posso anche morire domani, se ho imparato ad amare.” 

Cos’è che rende piena improvvisamente la mia vita con un atto d’amore? 

Questo è il punto cruciale del racconto della resurrezione di Lazzaro: ed è bellissimo vedere come inizia da una professione di fede, incontra una fede in difficoltà, attraversa il dolore e la compassione, suscita la fede di una comunità intera. 

Forse, una testimonianza resa così, sarà la vera nuova evangelizzazione della Chiesa. 

Don Davide

Nebbia




La consistenza delle parole

Morte, bene, casa, cristiani

In questi giorni abbiamo ascoltato tantissime parole. Quelle che venivano da lontano, confuse e quasi incredibili, che parlavano di un nemico con il nome, ma senza volto, che speravamo di non dovere combattere. Poi quelle autorevoli, di chi è deputato a prendere le decisioni: parole pesanti, che hanno necessitato la nostra obbedienza e di modificare la nostra vita. Infine, anche le parole sciocche, urlate, scomposte e stolte. Per fortuna, quest’ultime non erano da sole: cercavano di oscurare le belle testimonianze, le parole tenere e incoraggianti, quelle di amicizia e di solidarietà, ma hanno perso. 

Per chi si dichiara discepolo del Verbo fatto Carne, è necessario essere attenti alla consistenza delle parole. 

Tra queste, quattro in modo particolare: morte, bene, casa, cristiani. Le prime tre sono sulla bocca di tutti. L’ultima di nessuno, ma non è meno importante. Anzi, proprio il fatto che non venga pronunciata, la rende ancora più preziosa. 

Tante persone morte: “Oggi sono morte n. persone.” In questo caso, la consistenza della parola morte ci rimanda dal numero alle persone. Non c’è un numero di morti; ci sono degli uomini e delle donne morti. “Chi ha pianto per quelle persone?” chiese papa Francesco nella famosa omelia di Lampedusa (08-07-2013). Insieme a quelle persone ci sono delle storie, qualcuno che piange (in quasi tutti i casi senza potere nemmeno celebrare il funerale) che, nella difficoltà, sarà persino segnatda un trauma. 

Dietro a quelle esistenze c’è anche un’infinita bellezza di cura: la fatica e la dedizione del personale sanitario, la solidarietà, la gentilezza di chi accudisce i malati, il gesto di chi ha offerto loro un telefono per chiamare chi non si poteva vedere, magari per l’ultima volta. 

Ogni volta che pronunciamo la parola “morte” dobbiamo sentire un vissuto e tutta la sua consistenza. 

E poi il pensiero della morte. Che arriva invisibile, improvvisa. Che colpisce mentre si pensava di essere invincibili che i nostri stili di vita e la nostra economia fossero immodificabili. La possibilità della morte che terrorizza perché non sai da dove arriva il tocco. 

Il pensiero alla morte, concreta, reale, plausibile, vicina, invadente, è sempre stato, nella tradizione cristiana, una meditazione sapienziale utile per acquistare saggezza. Attenzione, non si intende l’essere avvoltoi o sciacalli in una situazione di sventura: tutto il contrario. Il pensiero alla morte è stato un modo di neutralizzarne la forza orrorifica, per fare diventare la sua considerazione un esercizio per valorizzare e custodire la vita e le sue bellezze nel più puro dei modi.  

“Tutto andrà bene” è la frase che ci si consegna come augurio e come incoraggiamento; lo slogan che si scrive sui post-it attaccati ai campanelli o sulle vetrine dei negozi, o come stickers di Instagram e Facebook. È un pensiero bellissimo, per la tenerezza che esprime e quel senso di cura con cui ci si vorrebbe rassicurare gli  uni gli altri. 

Qui, riscoprire la consistenza della parola bene, significa riconoscere l’appello che ne deriva. 

Per qualcuno, purtroppo, non sta andando tutto bene. Ma questo non toglie la bontà dell’augurio o dell’incoraggiamento. Solamente, ci chiede di comprenderlo meglio e di farne buon uso: non per rassicurarci a basso prezzo o per metterci la coscienza a posto, ma per farci sentire la responsabilità per i fratelli e le sorelle. 

Tutto andrà bene, se ci aiutiamo. Tutto andrà bene, se siamo solidali. Tutto andrà bene, se ciascuno si sforza di fare la propria parte, senza dimenticarsi degli altri. E quando tutto sarà andato bene, non disperdere il tesoro dei legami. 

Non solo restate a casa”, anche nella sua versione #iorestoacasaQuesto restare può essere interpretato più che altro come un tornareCerto, ci siamo sempre stati a casa, ma non con quella sfumatura di intensificazione che è data dal restare e dalla consapevolezza di non avere alternative. 

Le autorità ci hanno portato piano piano ad accettare di stare a casa e non senza qualche resistenza; proprio perché “starci” significava, in realtà, tornarci stabilmente, in modo fisso, creando una consuetudine che non lo era affatto. Gli stessi governanti hanno avuto bisogno – come noi tutti – di focalizzare la necessità di fermarsi davvero. Quindi, tornare a casa anche nel senso di intraprendere quel cammino a ritroso dalla nostra dispersione al luogo domestico, alla permanenza prolungata, a una obbligata riduzione del nostro efficientismo, alla riscoperta del tempo. Per alcuni (chi vive insieme o in famiglia) è tempo di legami strettissimi; per altri (chi vive individualmente) è tempo di grande solitudine. Non dimentichiamoci che “restare a casa” ha tutta la consistenza anche di queste sfide non facili, talvolta difficilissime.  

Tornare a casa è sempre anche metafora di salvezza, come per il figliol prodigo, come per il tanto agognato Giardino di Eden, che aspetta un ritorno e che, paradossalmente, alla fine della Bibbia viene trasformato in una città, una città aperta, dove tutti si possono incontrare senza paura. Tornare a casa è la fine dell’esilio della nostra dimensione spirituale, contemporaneamente è la promessa/premessa della vittoria contro l’emergenza sanitaria, uscita dal nostro spaesamento e prospettiva di un avvenire sereno e pieno di incontri. 

Questa parola nessuno la dice, eppure stiamo assistendo a un evento epocale e fino a solo pochi giorni fa inimmaginabile, il fatto – cioè  che le comunità religiose di tutta la nazione sospendano i loro riti. Non solo i cristiani, ma tutti. Qui, però, parliamo di noi, della consapevolezza di noi cristiani. 

Le campane che si fanno vicine a un popolo che non può muoversi; le candele spente; le chiese vuote. La messa non partecipata. Le preghiere, però, niente affatto mute. 

Chi l’avrebbe detto che ne avremmo sentito la mancanza? Ecco, dirci: “sono cristiana, sono cristiano” ci deve richiamare alla consistenza della nostra fede, a che cosa è importante e decisivo, a cosa ci caratterizza. Proprio questo silenzio grida alla nostra coscienza e consapevolezza. Ci fa compiere una specie di salto evolutivo sulla comprensione dei nostri gesti religiosi e nella qualità della nostra fede.  

Di questi giorni dirsi: “sono cristiana, sono cristiano” ha tutto un altro sapore: ha il sapore amaro di una mancanza difficile; ha il sapore dolce di una sete che sa dov’è la sorgente.