La Pasqua piena di misericordia

“A coloro a cui perdonerete i peccati saranno rimessi”. Questa affermazione di Gesù risorto, in mezzo ai suoi, sembra tautologica. È ovvio, verrebbe da dire. Ma Gesù vuole sottolineare come la Chiesa abbia la responsabilità di essere piena testimone della Pasqua attraverso la misericordia. Per questo il Risorto mette nelle mani della Chiesa questo “potere” di perdonare, e affida a ciascuno di noi, battezzati, questo mandato e questo compito.

Perdonare è l’unico potere che abbiamo. Riconciliare la nostra unica arma.

La misericordia è l’energia della resurrezione in atto. Cos’è che fa vivere, quando siamo morti? Essere riconciliati col Padre. Cos’è che ci cambia quando stiamo percorrendo una strada sbagliata? Chiedere perdono. Cos’è che ci rimette in cammino, quando siamo bloccati? Potere aprirci con qualcuno, confessare le nostre fatiche.

Tutte le volte che noi chiediamo ed offriamo perdono, passiamo dalla morte alla vita; dal mondo vecchio logoro a causa dei suoi stessi egoismi diamo origine al mondo nuovo.

L’esperienza così intensa, autentica ed elettrizzante che i discepoli fanno di Gesù risorto nel vangelo di oggi, noi la ripetiamo tale e quale quando facciamo opera di misericordia o la chiediamo per le nostre vite.

Che cos’altro è la “Misericordia” se non vedere le ferite del Corpo di Cristo, essere anche noi trafitti dalle sue piaghe e mettere il dito in quegli squarci della sua carne. Dovremmo proprio cercare di vedere le ferite degli uomini e delle donne del nostro mondo, dovremmo pregare che il nostro cuore si intenerisca di fronte alle piaghe fisiche e morali di tanti nostri fratelli e dovremmo accettare di “mettere le mani” a ciò che uccide i nostri fratelli e sorelle, sporcarci di lavoro, per cercare di cambiare qualcosa.

In questo modo, il Signore risorto si manifesterà a noi nella sua totale integrità e noi potremo così celebrare la Pasqua in pienezza.

Don Davide




La sapienza

La liturgia della parola nella Veglia Pasquale giunge con la 6° lettura a una meravigliosa meditazione sulla sapienza. Il percorso che Dio ha fatto fare al suo popolo, a partire dalla riflessione sul senso dell’esistenza, passando per l’Alleanza, l’Elezione e l’esperienza del peccato e della misericordia, ci invita a maturare una saggezza del vivere, dove tutte questi elementi del rapporto con Dio sono raccolti e ci viene consegnato soprattutto il compito di rimanere nel legame con lui, attraverso l’ascolto attento e amorevole della sua parola. Chi si mette a questa scuola, anche se affrontasse mille difficoltà o contraddizioni, non sarà solo, non sarà abbandonato da Dio, anzi, sarà salvato.

E proprio su una estrema prospettiva di salvezza conclude questo intenso percorso attraverso la storia della salvezza, con la 7° lettura della veglia.

Il profeta Ezechiele dà voce a una dichiarazione solenne di Dio, il quale – in un linguaggio tipico dell’AT – rivendica per sé ogni azioni, l’intervento correttivo come quello salvifico. Ebbene, il Signore dice di agire non per riguardo all’uomo, ma per fedeltà al suo Nome santo (cf. v. 23). È una formula di rivelazione: Dio si rivela Santo, Misericordioso e Benevolo. Fa parte della sua natura, non è condizionato da come l’uomo agisce. In definitiva, Dio manifesterà in maniera potente e irrevocabile il suo intervento di salvezza: sarà un’azione di purificazione, di conversione e di rinnovamento, che ha come risultato “l’abitare” nella Terra Promessa, quella Terra Promessa che è, in realtà, il senso profondo della nostra esistenza e la nostra pace.

Questo viaggio conclude con l’affermazione: “Voi sarete il mio popolo, e io sarò il vostro Dio” (v. 28). Ci può essere un esito più efficace nel celebrare la Veglia Pasquale?

Don Davide




Come ai tempi di Noè

Dopo avere percorso l’impianto dell’intervento di Dio nella storia, con il racconto della Creazione, l’Alleanza e l’Elezione, la seconda parte delle letture della Veglia Pasquale (4° e 5°) sono un invito a meditare con l’animo pacificato e rassicurato la misericordia (4°) e la provvidenza di Dio (5°) con le quali il Signore della storia sempre sostiene e incoraggi il nostro cammino.

Il profeta Isaia usa la metafora sponsale per parlare di un atto definitivo: “Tuo sposo è il tuo creatore” (Is 54,5). Il vincolo d’amore stabilito da Dio con il popolo di Israele (e quindi con ciascuno di noi) è irrevocabile. Non dipende dalla coerenza dell’uomo: “Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto, né vacillerebbe la mia alleanza di pace, dice il Signore che ti usa misericordia” (Is 54,10). Il Signore fa di tutto per riavvicinarci a sé. Anche quando dovesse apparire che si è allontanato, la verità è espressa da questa dichiarazione solenne: “Con affetto perenne ho avuto pietà di te” (Is 54,8). In questo testo, c’è uno dei passaggi più belli e teneri di tutta la Bibbia, quando Dio riafferma questo decreto irrevocabile: “Ora è per me come ai tempi di Noè, quando giurai che non avrei più riversato le acque sulla terra, così ora giuro di non più adirarmi con te e di non più minacciarti” (Is 54,9). I “tempi di Noè” sono i tempi (eterni) che testimoniano e la postura definitiva di Dio nei confronti dell’uomo, promessa e realizzata in Gesù di Nazareth: non minaccia, non ira, ma attitudine materna, cura di pastore, protezione di padre buono. Chi di noi non si è mai sentito “afflitto, percosso dal turbine, sconsolato”? (cf. Is 54,11). A ciascuno il Signore dice: “Ecco, io pongo sullo stibio le tue pietre e sugli zaffiri pongo le tue fondamenta…” (Is 54,11).

Da questa posizione di speranza, risuona la chiamata di Dio con cui si apre la quinta lettura: “Voi tutti assetati venite all’acqua!” (Is 55,1). Incoraggiati da questo invito, noi possiamo lasciarci investire dal fiume di grazia, che discende in primo luogo dalla celebrazione solenne della Veglia Pasquale, e poi ci accompagna nella vita concreta di ogni giorno.

Consegniamoci a Dio senza riserve, lasciamo che l’invito alla conversione vibri nel nostro animo, affidiamoci alla sua provvidenza. Nella Veglia Pasquale ci immergiamo in un ascolto prolungato e abbondante della Sua parola e proprio questa 5° lettura ci garantisce il senso di questa sosta: nessuna parola di Dio rimarrà senza effetto, ritornerà in cielo senza avere operato con efficacia, e senza avere compiuto, nelle nostre vite, ciò per cui il Signore ce l’ha regalata.

Don Davide




Creazione e redenzione

A partire da questa domenica e per le tre domeniche di marzo che precedono la Pasqua, vorrei proporre un breve percorso sulla liturgia della parola della Veglia Pasquale, per prepararci meglio a questa celebrazione così importante e sperare che entri nella sensibilità di tutti il desiderio di parteciparvi.

Nella consapevolezza dei primi secoli, il vero modo di “fare” Pasqua era quello di celebrare la Veglia Pasquale. Questa liturgia incide sulla nostra vita, come dono di grazia, più di qualunque altro impegno per vivere bene e cristianamente la Pasqua.

La Veglia Pasquale, nella sua forma piena, prevede un lungo itinerario nella storia della salvezza attraverso sette letture dell’AT, più una meditazione di San Paolo sul Battesimo, come vera partecipazione alla resurrezione di Cristo, più la proclamazione del Vangelo.

Le prime tre letture sono considerate fondamentali, perché raccontano i tre capisaldi dell’opera di Dio: la creazione, bella e piena di amore (I); la provvidenza di Dio nella storia della salvezza, ossia il racconto della “legatura” di Isacco (II); la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto (l’Esodo) come profezia della redenzione definitiva (III).

In questo percorso iniziale c’è una fortissima unità. Dio ha creato un mondo bello e brulicante di vita. Fin dall’inizio, quindi, siamo richiamati al desiderio che Dio riscatti questa sua creazione, che ha voluto per la vita. Essa ci è data per la gioia e la letizia dei sensi, è lo spazio della nostra esperienza umana, della nostra esistenza. Siamo invitati a sentire una profonda solidarietà con essa, a custodirla, a preoccuparci di conservarne intatta la bellezza e il dono, da tutte le forze negative e logoranti, presagio di morte.

Nella Bibbia, il racconto “storico” ha inizio con la chiamata di Abramo. La liturgia pasquale chiama in causa Abramo nell’episodio decisivo della “legatura” di Isacco. Esso, infatti, più di ogni altro è autentica profezia della resurrezione del figlio amato, oltre che manifestazione evidente dell’atteggiamento di Dio (inteso come SS. Trinità) nei confronti dell’uomo. In esso, infatti, noi impariamo che “il Signore provvede”, oltre l’esperienza della morte nel cuore che doveva avere sperimentato Abramo, mentre accompagnava Isacco. Allo stesso modo, Dio Padre provvederà, oltre l’esperienza della morte. Inoltre, questo racconto ci consegna la definitiva consapevolezza che ciò che Dio NON chiede all’uomo, ossia di sacrificare il suo figlio, lui è disposto a farlo per noi. Mentre Dio chiede all’uomo misericordia e non sacrifici, lui è disposto a sacrificarsi per noi.

Per questo gli ebrei dicono, più correttamente, “la legatura di Isacco”, perché ne mette meglio in risalto il significato. L’atto di obbedienza di Abramo è quello della disponibilità, ma Dio non vuole in alcun modo il sacrificio del figlio, tanto meno un sacrificio umano che è sempre biasimato dai profeti. Ciò che conta è l’atteggiamento di affidamento di Abramo che mette le premesse per sperimentare la resurrezione: Dio è affidabile.

Infine, nella maestosa lettura dell’Esodo, noi siamo invitati a pensare a una schiavitù ben più grave, nonostante tutto, di quella dell’Egitto. La schiavitù del peccato, da cui il Signore ci libera spezzando le catene della morte e immergendoci in questa enorme potenza di vita nelle acque del Battesimo.

A questo punto, la liturgia pasquale può procedere, con un senso di grande gratitudine e una disponibilità all’ascolto, nella contemplazione delle grandi meraviglie di Dio ricordate dalle altre lettura.

Don Davide




La vita come dovrebbe essere

Quando guardiamo il cielo di notte e l’aria è tersa, rimaniamo stupefatti dallo splendore del firmamento. Una meraviglia che supera di gran lunga le nostre domande, ma che allo stesso tempo ci incuriosisce e ci interroga. Spesso, quando siamo ispirati da sentimenti buoni, un tale spettacolo può essere persino capace di donarci un po’ di serenità e di pace tra le preoccupazioni e le fatiche della vita.

Allora, sotto a tanta bellezza, è come se percepissimo che sì, c’è un patto, all’interno del quale siamo e che ci custodisce. Deve essere stata questa, inizialmente, l’esperienza di Abramo (I lettura). Poi, questa percezione di fondo della vita, ha assunto la fisionomia di un volto e di un nome: Abramo vi ha riconosciuto un tu, la voce di Dio, che lo coinvolgeva personalmente e lo interpellava.

Di solito, invece, noi diamo più credito ai momenti “no”. È quando le cose ci vanno male che siamo spinti a una maggiore consapevolezza e ci sembra che sia più realistico essere disincantati e disillusi, pensare che il mondo – la vita – l’esistenza “sono così” e che non conviene farsi tante illusioni.

Ben lungi da questa prospettiva, invece, coinvolgendo i discepoli a cui riserva le rivelazioni più profonde (Pietro, Giacomo e Giovanni) nella Trasfigurazione, Gesù ha voluto confermare l’intuizione di Abramo: ha voluto, cioè, che noi sapessimo con assoluta e irrevocabile certezza, che la verità è nello sguardo capace di cogliere la realtà trasfigurata, che il destino dell’uomo e del mondo è la realtà di Gesù risorto. Il mondo “vero”, l’esistenza “vera” è quella bella. Quella che ci fa dire, con un desiderio quasi struggente: “E’ bello per noi stare qui”, “E’ bello vivere così”. Non dobbiamo distogliere lo slancio da questo desiderio, non dobbiamo rassegnarci al negativo e dargli più consistenza di quanto si meriti. Anche se Gesù invita i suoi discepoli a tornare a valle, e quindi ad allontanarsi dall’esperienza della Trasfigurazione, lo fa per incoraggiarli a portare nel mondo quella verità di cui ora sono divenuti partecipi, senza ombra di dubbio.

Il destino è quello splendore che hanno visto. Non si sono sbagliati, e non hanno visto un fantasma. Se lo ricordino – i suoi discepoli – quando arriveranno i giorni della croce – quelli di Gesù e quelli di tutte le croci – che la verità è la gloria. Se lo ricordino, nei giorni brutti, che la verità è la bellezza.

Non si lascino strappare questa certezza.

Sappiano di essere dentro un patto, in cui Dio – il contraente – è fedele, fedelissimo. E in mezzo alle fatiche continuino ad ascoltare la voce dell’amore, che li richiama alla verità di quella esperienza.

Così, la liturgia di Quaresima, ci fa sostare sulla scena incantevole della Trasfigurazione per ricordarci che tutto l’itinerario di questi giorni non è un itinerario di mortificazione, ma di “vivificazione”, e che tutto ciò che mettiamo in atto, come strategia ascetica per vivere al meglio questo tempo, lo facciamo per allenarci a tenere fisso lo sguardo, anche dal fondo della valle, sulla luce che emana dal monte.

 Don Davide




La concretezza della resurrezione

Nella lettura di questa III Domenica di Pasqua riecheggia ancora l’eco delle ultime parole di Gesù sulla Croce: “Perdona loro … !”. Infatti, la grandiosa “omelia” di Pietro si rivolge a coloro che avevano invocato la condanna di Gesù e, invece di maledirli per il loro misfatto, li invita ad una conversione perdonando il loro peccato, come aveva fatto Gesù sulla Croce. Il discorso di Pietro fu pronunciato sotto al portico di Salomone, verso le tre del pomeriggio, dopo la guarigione di uno storpio presso la porta del tempio detta “Bella” dove questi chiedeva l’elemosina. All’inizio del capitolo seguente sappiamo che “molti di quelli che avevano ascoltato il discorso credettero e il numero degli uomini raggiunse circa i cinquemila”.

Nella scia della prima lettura anche il brano di Giovanni ribadisce che è possibile tornare sempre a Gesù, anche se abbiamo peccato. La nostra conversione non dipende innanzitutto da una nostra iniziativa, per quanto virtuosa, ma dall’accoglimento da parte nostra della sua persona.

Il Vangelo infine sottolinea la “corporeità” di Colui che i discepoli avevano creduto un fantasma. Egli li invita a guadare e toccare i segni della Passione nelle sue mani e nei suoi piedi, e chiede loro qualcosa da mangiare: pesce arrostito che “prese e mangiò davanti a loro”.

Certamente il suo è un corpo trasfigurato e rimane il mistero della sua resurrezione, ma in noi rimane la speranza di non essere destinati a restare polvere e la comprensione dell’importanza e del valore del nostro corpo, già qui e ora, vivendo la verità della fede e sperimentando l’amore, il bene, il perdono. Non c’è opposizione tra corpo e anima, carne e spirito, l’uomo è da considerarsi un’unità avviata all’incontro con una Persona realmente vivente.

Quindi, la nostra preghiera è ben espressa dal Salmo responsoriale, che ci invita continuamente ad invocare “la luce del tuo volto”, la luce del Risorto che ci indica la strada e con le sue parole ci fa “ardere il cuore” come ai discepoli di Emmaus, annunciando a tutti quella Pace che solo Lui può donare.

(Commento a cura di Gilberto Turchi)




Incontrare il Risorto

Nel clima della Pasqua traspare la condivisione della comunità cristiana. L’incontro con Gesù risorto stringe i discepoli in una nuova esperienza di comunione e di vicinanza. Il Signore Risorto che effonde il potere di riconciliare sui suoi discepoli, agisce anche perché tutte le tensioni si stemperino e si possa ritrovare la pace e l’unità.

La vita morale cristiana, infatti, non si configura come un cammino di perfezione o di miglioramento, ma come una conseguenza dell’amore di Dio, il frutto di quest’esperienza. L’amore di Dio ci è donato gratuitamente. Non siamo noi che con il nostro impegno lo guadagniamo. Però, possiamo cercare di non disperderlo, di non buttarlo via, custodendo la vita da figli che è stata generata in noi.

C’è un altro modo di stare in questa esperienza di grazia: la partecipazione ai sacramenti della Chiesa. In essi, facciamo l’amore invisibile di Dio che passa per canali molto concreti e, mentre opera misteriosamente in noi, ci fa anche sentire la vicinanza di qualche fratello e sorella, perché nessun sacramento si celebra senza la partecipazione della comunità cristiana.

Questa medesima esperienza concreta è quella che fanno i discepoli riuniti nel Cenacolo. Essi vedono/incontrano Gesù Risorto. È un incontro reale, ma anche vissuto con fede. Gesù non si “impone” alla vista, ma chiede di essere riconosciuto dai nostri “organi spirituali”. Quando Gesù si fa vedere ai suoi, Tommaso non è presente. Questa coincidenza lo ha fatto passare alla storia come il più dubbioso tra tutti i discepoli, ma non è vero. Tommaso chiede solo di fare la medesima esperienza che hanno fatto gli altri discepoli: vederlo e incontrarlo. È importante capire che in questo incontro, Tommaso non mette in atto ciò che si era proposto di fare. Di fronte a Gesù che si rende disponibile a farsi toccare, Tommaso risponde con la professione di fede: «Mio Signore e mio Dio».

In questo modo, il vangelo non vuole fare altro che dirci che quel modo di fare esperienza di Gesù risorto, è lo stesso che possiamo e dobbiamo fare anche noi. Non desiderando di vedere Gesù, ma ascoltando la sua parola. Allora egli si farà riconoscere, in un’esperienza però che è sempre guidata dalla fede.

Don Davide




Come dire: “Gesù è risorto”?

C’è un contrasto significativo tra la resurrezione di Gesù e la vicenda di dolore e di morte che lo ha portato alla croce. Lo stesso contrasto si ripete tra l’annuncio festoso della resurrezione, e un mondo profondamente segnato dalla violenza, dall’ingiustizia e dalla morte.

Noi diciamo: “Gesù è risorto, rallegriamoci!”, perché viviamo in pace, perché il giorno di Pasqua ci troveremo con amici e parenti, perché festeggeremo con serenità.

Ma come dimenticare tutti coloro che celebrano questo annuncio: “Il Signore è risorto! La morte è stata sconfitta!”, in una situazione dove tutto contrasta con queste affermazioni? E senza andare lontano, come fare sì che la parola “Pasqua” sia vera anche per chi in questo giorno se ne dovrà stare solo, per chi non avrà una tavola riccamente imbandita, per chi sperimenterà l’angoscia, la disperazione o il lutto?

Quando noi cristiani interpretiamo la Pasqua, non possiamo trascurare che questo evento viene annunciato dalla Chiesa a dispetto di tante circostanze avverse. Come fare sì che il nostro annuncio non si svuoti, non sia vano o insignificante?

La Pasqua è, anzitutto, una speranza. Un’iniezione di fiducia al mondo.

Poi la Pasqua è anche una meta. Procediamo di resurrezione in resurrezione, per dare una direzione alla nostra vita, per imparare ad amare, per correggere gli errori e l’inesperienza del passato. Il Signore, con la sua resurrezione, ci accompagna e ci dà un senso, fino a quando potremo fare Pasqua con la nostra stessa vita.

Infine, la resurrezione di Gesù è una benedizione per tutti quelli che accettano di affrontare il faticoso cammino della vita con fiducia, allargando il cuore e alleggerendo il peso, affinché la gioia dello Spirito possa animare realmente una nuova vita.

Don Davide




La notte più beata di tutte le altre notti

La Veglia di Pasqua è la messa di Pasqua per eccellenza. È la “madre di tutte le veglie” da antichissima tradizione. Si chiama “veglia” non perché sia qualcosa di aggiunto alla messa, ma perché si celebra di notte, dopo il tramonto del sole, all’inizio del “terzo giorno” (secondo il conteggio all’ebraica) dalla morte in croce di Gesù.

Celebriamo di notte quasi per intercettare il mistero più grande della storia del cosmo, ossia quando è successo che Gesù abbia spaccato le catene della morte e cosa sia successo realmente. La liturgia lo dice perfettamente nell’Annuncio Pasquale: «O notte veramente beata, tu sola hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in Cristo è risorto dai morti!».

Così la Veglia di Pasqua inizia con la luce che dissipa le tenebre: la prima parte della veglia è infatti la LITURGIA DEL FUOCO. Questo fuoco è il simbolo dello Spirito Santo che opera la resurrezione di Gesù: è il mistero dell’amore di Dio che brucia, ma non consuma, come il roveto ardente di Mose (Es 3). Il Cero Pasquale acceso al fuoco nuovo è il segno della presenza reale di Cristo Risorto nella sua chiesa. Per questo il Cero è il protagonista assoluto di questa celebrazione: apre la processione iniziale solcando il buio, viene incensato e cantato nell’Annuncio Pasquale, sta accanto all’ambone nella lettura del Vangelo, viene usato per la benedizione del fonte battesimale e, infine, domina la scena sul presbiterio per tutto il tempo fino alla Pentecoste.

La seconda parte della veglia è la LITURGIA DELLA PAROLA, dove attraverso un ascolto prolungato e pacato dei grandi eventi della storia della salvezza, noi vediamo preannunciato il mistero della resurrezione di Cristo e veniamo preparati ad accogliere questo grande annuncio, che esplode nel salmo alleluiatico e nella proclamazione del Vangelo.

La terza parte della veglia è la LITURGIA BATTESIMALE, O LITURGIA DELL’ACQUA, nella quale celebriamo il momento che ci ha resi partecipi della resurrezione di Gesù, cioè il Battesimo.

La quarta parte della veglia è la LITURGIA EUCARISTICA, nella quale riviviamo tutto il mistero del Crocifisso – Risorto, offerto per la nostra salvezza, vivo e presente nella sua Chiesa e nell’Eucaristia.

Il senso di queste quattro tappe è un progressivo inserimento dei credenti nella grazia della resurrezione. Dapprima la resurrezione viene rivissuta nel suo “evento” (liturgia del fuoco); poi viene annunciata alla chiesa (liturgia della parola); quindi si ricorda che la realtà della resurrezione coinvolge i credenti mediante il Battesimo (liturgia battesimale); infine viene celebrata e riattualizzata in forma rituale (liturgia eucaristica).

Non c’è niente di più efficace per “fare” Pasqua – ben al di là delle nostre disposizioni e dei nostri buoni propositi – che partecipare alle celebrazioni del Triduo Santo, nelle quali, la grazia di Cristo che tutto vince ci raggiunge e ci salva, aiutandoci a compiere tutti i “passaggi” (= le pasque) che siamo chiamati a fare.

Don Davide




La Croce – Gli infermi e il Sabato Santo

In molte tradizioni liturgiche, specialmente in quella Cattolica Romana, all’interno della celebrazione del Venerdì Santo si fa anche la Comunione, vista come momento in cui accogliamo devotamente il Signore, unendoci alla sua morte attraverso la presenza di Gesù nell’Eucarestia in stato di vittima. Personalmente, non sono convintissimo di questa interpretazione, perché la Comunione è sempre legata alla celebrazione integrale dell’Eucaristia, in quanto trova in tutto lo sviluppo della celebrazione il suo senso pieno. Anche quando viene portata ai malati fuori dalla messa, è sempre legata alla celebrazione domenicale di tutta la comunità. Pertanto non mi sembra perfettamente coerente con il ritmo “diverso” del Triduo Pasquale; inoltre, penso che viviamo meglio il significato del Triduo stesso, se cogliamo il ponte tra la celebrazione del Giovedì e quella della Veglia Pasquale, attraverso la sosta nella contemplazione della Croce e la pausa silenziosa di fronte al sepolcro. In questo modo, siamo spinti ad attendere trepidanti la portata della celebrazione della Grande Veglia Pasquale, come una esplosione di grazia che ci raggiunge.

Dalla Celebrazione della Passione del Signore, per tutto il Sabato Santo, in chiesa troneggia la Croce. In questo lasso di tempo, i fedeli devoti che vengono a pregare sono invitati a fare la genuflessione davanti alla Croce, proprio perché essa è il segno concreto della morte di Gesù che contempliamo e meditiamo.

Il Sabato Santo è un giorno di silenzio, in cui tutta la chiesa sosta, quasi trattenendo il fiato.

In questo giorno non c’è alcuna celebrazione, solo la preghiera comunitaria della Liturgia delle Ore, nella quale si medita il significato misterioso della permanenza di Gesù negli inferi (ATTENZIONE: NON nell’Inferno!). L’Inferno è un concetto cristiano, mentre nel Sabato Santo si considera la discesa di Gesù in quello che in ebraico veniva chiamato lo “Sheol”, il “Luogo delle ombre”, il luogo dei morti, dove Gesù scende a riscattare tutti dai vincoli della morte. L’efficacia di Gesù, prima ancora che morale, è interpretata come oggettiva: Gesù scende nel luogo dove stanno i morti a sciogliere le catene della morte per ridonare la vita, questa è la grande idea di tutta la tradizione cristiana fin dall’inizio, sia in oriente che in occidente.

In questo silenzio, in questo buio che è rappresentato dal buio totale (anche in chiesa) che fa da contesto all’inizio della Veglia Pasquale, una luce squarcia le tenebre: è la luce realmente significata nella Cero Pasquale che viene acceso al fuoco nuovo, è la luce della Resurrezione di Cristo.

Don Davide