Un figlio e un bambino – Omelia Natale 2018

Il dono di uscire da noi stessi

“Un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio.” (Is 9,5).

Dio si rende presente in mezzo a noi nei panni di un bambino, in modo che si compia il miracolo di spossessarci di noi stessi, perché quando nasce un figlio, o ti viene dato un bambino, è così: il tuo tempo non è più riservato, ti dedichi completamente e diventi responsabile di lui.

Ho visto mio fratello quando è nato il mio primo nipote – immaginatevi un uomo grande e grosso, fintamente burbero e che mai avrei pensato che si potesse calare in questo ruolo – tenere in braccio suo figlio come un papà navigato. Si dice che quando nasce un figlio si impara subito a fare la mamma e il papà; magari c’è qualche impaccio all’inizio, però sei subito attenta e ci tieni ad accudirlo. Spesso le giovani mamme e i giovani papà accettano i consigli, ma sono anche gelosi del loro modo di prendersi cura dei bimbi.

Sottolineo: è una cosa che in parte si impara, ma che soprattutto è frutto quasi immediato di questo evento dirompente che sconvolge la vita per sempre, da un momento all’altro. Prima si era autonomi e si faceva quel che si voleva. Dopo c’è un altro e ci sarà per sempre.

Allo stesso modo Dio vuole realizzare in noi la vita adulta, l’uscita dal nostro egoismo, l’arte di non preoccuparci più di noi stessi e quella sorta di gelosia per la cura di un altro.

Una mia amica qualche giorno fa mi scriveva che la vita riserva sempre dei momenti stupendi, ma la leggerezza, quella è riservata all’età giovanile. Anche se sembra una riflessione un po’ amara, in fondo è vera: perché quando diventi responsabile di una persona non puoi più essere tanto leggero. Ci sono una gioia e un lusso legati a una perdita: hai sempre quel pensiero fisso, sei completamente portato fuori da te stesso.

Dio ci fa questo regalo: aprire il cuore e vincere la preoccupazione costante di salvaguardarci e proteggerci.

E se sei responsabile di qualcuno, vuole dire che sei prezioso, vuol dire che hai un ruolo ben preciso nella storia del mondo, vuole dire che senza di te quella creatura sarà un pochino più sola, e quindi è quanto mai importante che tu ci sia, che te ne prenda cura.

(Sento già l’obiezione: quindi chi non ha nessuno, chi non ha figli o ruoli, o è solo vuol dire che non vale? Vuol dire che non conta nulla? Ovviamente non è così, ma vi chiedo di pazientare ancora un attimo. Per ora voglio insistere su un altro aspetto.)

Il dono di Dio non si realizza solo quando nasce un figlio, ma ogni volta che qualcuno ti viene dato, perché tu possa essere fratello e sorella, padre e madre, qualunque sia il rapporto di età.

Ricordo le prime volte che, da giovane educatore, portavamo i bimbi a campi estivi. La sera gli preparavamo la camomilla e gli leggevamo i libri della buona notte. Fino al giorno prima a fare gli spacconi fra amici e a considerare dei poveretti quelli che perdevano il sabato pomeriggio dietro a dei cinni o una settimana d’estate a fare i campi, e il giorno dopo sei lì, seduto sulle scale di una casa vecchia e fredda, a raccontare le storie.

Una volta sgridai due ragazze del primo anno del liceo perché le avevo trovate ancora sveglie a tarda notte, con la torcia accesa sotto le lenzuola. Avevano dovuto scegliere se venire alla due giorni o studiare latino: avevano deciso di venire al ritiro, e stavano traducendo una versione di latino con la torcia, sotto le coperte per non farsi beccare. Alla fine mi sono messo a fare la versione con loro.

Dopo otto giorni di un campo itinerante, l’ultima sera, all’una di notte una ragazza mi confida di essere anoressica. Tu vuoi solo andare a letto, hai gli occhi che ti si chiudono, ma capisci che in quel momento devi essere lì, ascoltarla tutto il tempo che serve.

Nei nomi che vengono dati a questo “bambino” riconosciamo che il suo potere è di rendere chiaro il discernimento, di strapparci fuori da noi stessi, di insegnarci una maternità e una paternità sempre più dilatate, che vanno in entrambe le direzioni… dal più vecchio al più giovane, ma anche, notatelo bene, dal più giovane al più vecchio. Sì, anche voi giovani siete padri e madri, fratelli e sorelle per chi ha più anni di voi!

L’ultimo nome è “Principe della pace”. Quando sei strappato fuori da te stesso si compie il grande miracolo: è questa la via per la pace del cuore. Quel frastuono di calzature di soldato che cessa improvvisamente e quei mantelli intrisi di sangue che vengono bruciati nel fuoco, sono il segno di una guerra che finisce soprattutto dentro noi stessi.

Due volontarie della Caritas mi hanno raccontato di un imprenditore che, candidamente, si dichiarava razzista. Aveva una posizione di lavoro aperta e loro sono andate a parlargli per un ragazzo africano. Non si sa bene come abbiano fatto a convincerlo e ora… guai a chi glielo tocca! Gli ha dato la promozione e pure l’aumento!

Anche Maria e Giuseppe – soprattutto loro! – hanno vissuto concretamente questo segno: un figlio dato, un bambino nato. Le luce che improvvisamente spezza le tenebre. Una gioia moltiplicata.

Adesso mi chiedo che cosa significhi questo evento anche per chi non sente di potere dire: “Ho avuto una gioia moltiplicata…”

Ho davanti il volto dei tanti amici e amiche che soffrono perché non hanno l’amore; le donne che desidererebbero essere madri e non lo sono perché non possono o perché è passato il tempo, e che non sopportano le feste in cui si parla di pannolini e pappine; ho in mente uomini afflitti perché non hanno le risorse per corrispondere ai bisogni della famiglia; penso agli stranieri rifiutati e ai poveri non aiutati; infine le persone tristi, che non hanno motivo di gioia, e quelli che vengono scartati, non appartengono ad alcuno e non hanno nessuno per cui sentirsi utili.

Deve essere Natale per tutti.

Ho davanti il volto di ciascuna di queste persone e non ho risposte.

Vedo però che in questa semplice famiglia di Betlemme non c’è alcuna manifestazione di superiorità, o rivendicazione, o pretesa di essere un modello. Tutte queste cose gliele abbiamo aggiunte noi, dopo. Vedo più che altro la potenza di accogliere la vita così come si manifesta. Sono andati via da casa, hanno fatto un viaggio non corto, mentre erano in quel luogo Maria dovette partorire. E poi la descrizione di un gesto semplice, immediato, quello che era possibile: hanno avvolto in fasce Gesù e lo hanno messo in un lettino di fortuna.

In questa scena, non c’è nessuna pretesa di dire: “Fate come noi!” e allo stesso tempo nessuna rivendicazione del tipo: “Mannaggia, che momento per partorire!”. C’è solo una potentissima consuetudine ad accogliere la vita come si manifesta. Senza ombra di paragone, né pretesa, né giudizio o condanna per chiunque altro.

È proprio questo stesso segno che viene indicato ai pastori. “Troverete un bimbo così” (Lc 2,12): in esso si esprime l’incredibile benevolenza di Gesù e basta.

Che cosa significa sperimentare la benevolenza?

Ho pensato a una notte di Natale di tantissimi anni fa, non so dire di preciso se a San Vigilio di Marebbe o a San Cassiano in Val Badia, ma ricordo perfettamente il momento. Eravamo a messa e il coro cantò Stille Nacht in una maniera incredibile. Avevano i corni e quei vocioni da alpini cresciuti con la grappa nel biberon. C’era un’atmosfera unica: le luci soffuse, i corni, la musica, il freddo. Aveva appena nevicato. Io ero ancora un bambino e non capivo niente, ma c’era la mia famiglia, ed era tutto così bello che mi sentii rassicurato.

Non a tutti, purtroppo, capita di sentirsi così profondamente rassicurati. Molti combattono tutta la vita contro una fiducia di fondo che è loro mancata, perché ne sono stati privati.

Ma Dio, con la nascita di Gesù bambino, vuole che ciascuno di noi si senta così intimamente rassicurato. Questa è la benevolenza di Dio.

Forse, allora, il primo passo per tutti è affidarsi a questa benevolenza che ci ristora, poi ci aiuta a fare altri passi. Insieme, ci vogliono fratelli e sorelle, amiche e amici, padri e madri che non facciano mancare la propria presenza. E spero che, come per Maria e Giuseppe, dopo alcuni rifiuti si potrà aprire una porta dove trovare pace.

Don Davide




Natale 2016 – messa della notte

LA SIRIA

Secondo la geografia del tempo, Betlemme si trovava in quella regione dell’Impero Romano chiamata Provincia di Siria, anche se non corrispondeva esattamente alla Siria di oggi.

In questo viaggio ideale nella regione di Siria, ci mettiamo in cammino insieme a Giuseppe, quasi chiedendo il permesso di unirci alla sua piccola carovana, composta di una donna incinta e, presumibilmente, di un asinello. Mentre ci avviciniamo le insegne militari si moltiplicano

GIUSEPPE

Io me lo immagino, Giuseppe, concentrato in un profondo raccoglimento. In tutto il Vangelo non dice una parola, eppure è attivo e attentissimo a tutto quello che gli succede intorno.

Credo che ripetesse le parole di Isaia: «Ogni calzatura di soldato e ogni mantello intriso di sangue saranno bruciati… Ci è dato un bambino… la pace non avrà fine» (cfr. Is 9,1-6).

Voglio fare spazio anch’io, in questa notte, a tutte le guerre. A tutti i bimbi che soffocano nella polvere delle macerie. A tutti i soldati che muoiono e uccidono. A tutte le donne e gli uomini che devono lasciare le loro case e migrare in un altro posto.

Voglio che si levi dal mio cuore un immenso desiderio di pace. Non posso andare in Siria o all’ONU a chiedere la pace, ma posso essere costruttore di pace. A partire da me, dal mio carattere, dal modo in cui mi relaziono, da come mi interesso della politica, dalle scelte che faccio, dallo stile che scelgo. Voglio porre i segni della pace nel dialogo e con le mie azioni.

Non voglio serbare rancore.

MARIA

Di Maria sappiamo invece che serbava le cose meditandole nel cuore.

Penso che alla prima vista dell’Aquila Imperiale abbia cominciato a comporre le tessere del mosaico. Lei, sposata a un uomo della famiglia di Davide; suo figlio, un discendente del re. La promessa dell’angelo e quella preghiera spontanea che le era diventata cara: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1,52).

Il Magnificat: un inno ribelle di pace. Contro gli stupidi che incrementano le armi nucleari, le vie della pace passano dove le persone più umili svelano una dignità regale.

È più forte un bambino che nasce di una bomba che esplode. Un bambino è vita. Una bomba è solo morte.

Loro si divertono a distruggere, io no. Vigilerò, agirò, ma non permetterò che mi turbino neanche un attimo. Io voglio solo fare crescere. Non trovo nessuna gioia più grande di questa.

GLI OSPITI

Siamo convinti che Maria e Giuseppe non abbiano trovato ospitalità. Ma proviamo a immaginare le cose diversamente: proviamo a rimanere fedeli al testo.

Il racconto ci consegna una sequenza pacata di fatti, senza alcun elemento polemico:

«Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. / Diede alla luce il suo figlio primogenito, / lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, / perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,7).

Proviamo a pensare che un uomo dorma sulla soglia della propria abitazione, si accorga di una donna, appoggiata al braccio del marito, il volto preoccupato, piegata dal parto imminente. “Venite, siamo in tanti… la casa è strapiena ma…”. Lui si scansa, i piccoletti occupano il suo giaciglio e si fa posto a Maria. Le donne di casa l’aiutano. Quando nasce Gesù e tutto il trambusto si calma, non c’è davvero un centimetro in più in quello spazio. Il bimbo è quieto, la mamma deve riposare, e anche gli altri. Domani si lavora! C’è lì la mangiatoia degli animali; Giuseppe, con l’occhio capace di trasfigurare le cose, la guarda e gli sembra una culla, quasi come quelle che fa lui. Ecco. Pone il bimbo lì sopra. Non ci pensa neanche che sia una cosa grandiosa. I bimbi lo vedono, gli adulti anche. In seguito ai prodigi di quella notte, lo racconteranno.

NOI

La Siria e il desiderio di pace come contesto. Giuseppe, Maria e gli ospiti come esempi di responsabilità sullo scenario del mondo.

A questo punto è come se il racconto, improvvisamente, voltasse pagina.

I messaggeri di Dio fanno capolino per dire che siamo noi a dover continuare la storia. Abbiamo la responsabilità di guidare da davanti e di vigilare da dietro questo mondo, come i pastori, certi che possiamo assolvere al nostro compito lavorando in pace.

Don Davide




La gratitudine della vita

La prima domenica dopo Natale è dedicata alla famiglia di Gesù, la Santa Famiglia di Nazareth. È un riconoscimento per Maria e Giuseppe, che pur disorientati dalla grandezza dell’opera di Dio, hanno accettato di accoglierla e compierla, e di custodire il loro bambino.

Il vangelo di oggi evoca le molte preoccupazioni che dovettero affrontare nel prendersi cura di Gesù, come ogni famiglia nell’educazione dei propri figli. In modo particolare la paura di perderlo, la preoccupazione che la sua vita potesse essere in pericolo o minacciata. Giuseppe e Maria avevano già vissuto una terribile prova, all’inizio della vita di Gesù, quando Erode volle uccidere tutti i bambini di Betlemme. Cosa avranno potuto pensare, loro, una povera famiglia di semplici sconosciuti, di fronte alla persecuzione del re in persona. Quanti perché, quante domande, quanta paura? Quale angoscia di essere braccati, di non poter sfuggire di fronte a una cosa talmente più grande di loro?

In questi giorni di festa si ricordano molti di questi momenti difficili che accompagnano l’infanzia di Gesù, e che mettono in luce anche il terribile paradosso tra un Dio che non vuole costringere i suoi figli e vuole essere amato liberamente, e la violenza degli uomini.

Ma nella scena di Gesù al tempio tra i dottori della Legge, c’è un altro particolare importante per tutte le famiglie. I dodici anni, nella cultura di allora, erano una prima tappa verso la maturità. Le ragazze potevano essere promesse in sposa, i maschi iniziavano lo studio della Legge. In questa scena di Gesù che rimane al tempio, quindi, è simboleggiata anche la fatica di ogni genitore nei confronti dei passaggi di crescita dei propri figli, soprattutto quelli decisivi. C’è una grande gioia nel vedere questi passaggi avvenire in maniera riuscita, ma c’è sempre anche una preoccupazione data dal legame viscerale dei genitori, dall’incognito che i figli si trovano ad affrontare.

Le parole di Maria riflettono questo stato d’animo: “Tuo padre e io angosciati ti cercavamo”. La risposta di Gesù, d’altra parte, incoraggia ogni genitore: “Non sapete che devo occuparmi delle cose del Padre?”.

Ogni figlio e ogni figlia deve aprirsi a questo “destino” che noi chiamiamo l’amore del Padre, e la grande sfida di ogni genitore è quello di accompagnarli e custodirli finché questo amore non si riveli e, allora, lasciarli liberi.

Mi sembra che la festa della Santa Famiglia sia così un inno di grazie a tutti coloro che custodiscono e curano le giovani vite dei bimbi, ai genitori che fanno le notti per mesi e mesi per accudire i propri figli piccoli, che lavorano con fatica per una vita intera per promettere futuro, che si impegnano per offrire possibilità, risorse ed educazione finché ad ognuno non si riveli il proprio “destino”, la chiamata dell’amore del Padre.

La gratitudine nei confronti di chi origina, ama e custodisce una giovane vita, non sarà mai troppa. Celebriamo la festa della Santa Famiglia, proprio dopo Natale, per questo.

 Don Davide