Immaginare le Beatitudini

Che cosa ci ispirano le Beatitudini, oggi?

Spesso pensiamo al paradosso, stabilito da Gesù, tra una condizione di difficoltà, o addirittura di opposizione, e la letizia spirituale che si cela dietro e nonostante quella esperienza.

Ma le Beatitudini risplendono anche per la loro varietà.

In questo popolo confidente – di cui parla la prima lettura – Gesù descrive otto situazioni, il numero dell’infinito, più una che sa di resurrezione. Verso l’infinito, e oltre!

Nella Chiesa che vuole stare al seguito del Maestro, nella Chiesa che ambisce al Regno dei Cieli, non c’è un solo modo di essere beati, non c’è un solo modo di annunciare il Vangelo e non c’è una sola vocazione.

Il grande prodigio sarebbe quello di custodire e valorizzare questa varietà di carismi, con la sapienza di apprezzare ciascuno e di accompagnarlo, perché il suo dono e la sua attenzione siano sempre più umili e orientati al servizio della comunità.

Così nascerebbe la parrocchia di S. Maria e di S. Valentino delle Beatitudini.

Propongo, quindi, a ciascuno che legge di provare a fare questo esercizio: accendere una candela in chiesa per dire un’Ave Maria e un Angelo Custode per il servizio che fanno gli altri della propria comunità, pensando che ci sono tanti modi di arricchire la chiesa, e anche tanti stili diversi di svolgere lo stesso compito o di avere cura del medesimo ambito.

Si tratta – lo ribadisco – non di uniformare, ma di valorizzare e di custodire, di creare una rete di solidarietà e di stima che possa permettere di fare crescere e riconoscere i frutti per il bene di tutti, dentro una realtà più bella e variopinta dei colori dell’arcobaleno.

Otto più uno: tutte le sfumature possibili e la fantasia di immaginare anche di più.

Don Davide




La sapienza evangelica

“Un tale corse incontro a Gesù”: aveva urgenza quell’uomo!
Vi leggo, simbolicamente, la stessa urgenza di cose buone che hanno gli uomini e le donne di oggi.
Non importa che le analisi ci dicano che nell’Occidente cristiano, semmai, si corra in direzione opposta a Gesù, e il fatto che alcuni, più in generale, non cerchino cose buone e pratichino quelle cattive non ci deve trarre in inganno; in quest’ultimo caso, spesso, si tratta di un’espressione molto disordinata del desiderio di una vita che valga la pena di essere vissuta.

Tuttavia, proprio in quell’incontro tanto desiderato (e probabilmente a lungo atteso) si consuma una crisi. L’uomo si trova disorientato. La sua motivazione inspiegabilmente crolla: rifiuta le possibilità aperte da Gesù, ma rimane tremendamente perplesso. È triste.

C’è una cosa che possiamo imparare, fondamentale e decisiva: la disponibilità di rimanere aperti a prospettive diverse dalle nostre, di imparare qualcosa che non sappiamo ancora, di essere condotti su territori nuovi. Abramo lo fece a novant’anni: non c’è vecchiaia che tenga!

Gesù ci indica la sapienza evangelica. È una via non omogenea al mondo. Si può apprendere solo se disponibili, si può apprezzare solo se la si pratica. Quello che accade nel nostro cuore è un’opera spirituale, non spiegabile con altre esperienze umane. La sapienza evangelica “è viva, efficacie, più tagliente di ogni spada a doppio taglio”: tocca la nostra esistenza, ci aiuta a fare le scelte, se non siamo anestetizzati ci fa sentire spesso un acuto bisogno di conversione.

Penetra in un luogo profondissimo “dentro” di noi, raggiunge nodi complessi che nemmeno siamo capaci di districare, e opera percorsi di guarigione e di consolazione.

Alla fine, o nel cammino, uno sperimenta un dono sovrabbondante (“cento volte tanto”, dice Gesù), non perché tutto vada alla perfezione, ma perché ci si può sentire completi e integri, anche in mezzo alle turbolenze del mondo.

Don Davide




La politica di Dio

Viene da chiedersi: “C’è qualcosa di meno sapiente delle Beatitudini?”. Potremmo mai dire, noi: “Beati coloro che piangono?”. Cosa ci risponderebbe chi piange veramente?

Non dovremmo forse dire, come già successe ai tempi di Malachia: “Dobbiamo invece proclamare beati i superbi, che pur facendo il male, si moltiplicano e, pur insultando Dio, restano impuniti.” (Mal 3,15).

Sì, sfida posta dalle Beatitudini è uno sport estremo. Potremmo essere anche tentati di pensare che Gesù ha calcato la mano, ha voluto iniziare la sua predicazione col botto, in modo che tutti gli dessero attenzione, come fanno gli ammaliatori e i potenti. Ma qui, Gesù non ha voluto fare il bravo oratore, e usare la retorica. Certo, Gesù era anche un ottimo oratore, ma inaugurando la sua predicazione con le Beatitudini ha voluto andare al succo delle cose.

Gesù aveva appena chiamato i primi quattro discepoli, due coppie di fratelli, dichiarando così – in modo simbolico – di dare inizio a un nuovo corso delle relazioni tra gli uomini (non più come Caino e Abele o Esau e Giacobbe), di volere inaugurare una nuova tappa della storia della salvezza (Giacobbe era il padre di Israele, così nuovi discepoli saranno “pescatori di uomini”) e di volere percorrere, insieme a chi vorrà seguirlo, un cammino di libertà e di amore (“lasciarono il padre”).

Ora le Beatitudini sono la prima cosa che impariamo al seguito del Maestro. Il mondo deve cambiare.

Non so davvero come sia possibile che la Chiesa, in alcuni periodi della storia, si sia assestata sull’ordine costituito, ma il Vangelo dice che finché ci saranno poveri, afflitti, emarginati, cercatori di pace, persone che non cedono alle seduzioni perverse, donne e uomini miti e umili, costruttivi… deve essere all’opera una forza di cambiamento. Quel futuro espresso da Gesù: “saranno” evoca molto intensamente la forma ebraica dei Dieci Comandamenti, che potrebbe essere meglio tradotta con un verbo futuro: “Non avrai altro Dio; santificherai le feste; non ucciderai ecc. ecc.”. Il vangelo è scritto in greco, non in ebraico, ma abbiamo sufficienti ragioni per dire che un autore ebreo come Matteo scriveva in greco ma pensava in ebraico, e quindi ha fatto echeggiare nel ricordo delle Beatitudini la forma imperativa, vincolante. Il “comandamento” inteso nel senso migliore del termine. L’indicazione della via. “Se qualcuno è afflitto, dovrà essere consolato. Se qualcuno cerca la giustizia e la pace dovrà essere saziato… Chi è puro di cuore, non può essere che non veda Dio…”

Ecco qual è la sapienza delle Beatitudini: è una sapienza politica. Esse sono un manifesto politico, sono la “campagna elettorale” di Gesù. Che infatti non è andata a finire tanto bene. Sì, perché noi rischiamo di fare come nel simpatico film di Ficarra e Picone, L’ora legale. Tutti diciamo di desiderare il cambiamento, ma poi dimostriamo di non volerlo veramente. Perché il cambiamento ci impegna. E mentre noi pensiamo che torni a nostro vantaggio, subito capiamo che deve andare anche a vantaggio degli altri, e allora le cose cominciano a starci strette.

Ma Gesù è abituato a mantenere le sue promesse elettorali, ancorché scomode, e vuole che “i suoi” facciano altrettanto. Quindi, questo popolo “umile e povero” (Sof 3,12) di cui parla il profeta nella prima lettura si deve rimboccare le mani e mettersi al lavoro, perché le Beatitudini sono la politica di Dio.

Don Davide




Stazione da una camminata

Con gli occhi dietro le colonne degli splendidi portici di Bologna, quasi giocando a nascondino, ho osservato in un pomeriggio qualunque i giovani della mia città. Ho colto quattro aspetti, con la stessa caratteristica delle colonne della volta sotto Palazzo Re Enzo: quello che si dice vicino a una di esse, anche se sussurrato, si ode nitidamente presso quella opposta. Sotto alla volta, inoltre, ci si trova in un incrocio suggestivo, che si apre in tutte le direzioni sul centro storico.

Analogamente, ciascuno di questi quattro tratteggi che vorrei delineare è collegato e rimanda al suo opposto, e definisce uno spazio di passaggio in cui i ragazzi entrano ed escono continuamente, sempre affacciati su tutti i lati della loro vita. Perché “i giovani” non possono essere definiti, né tantomeno inquadrati; si può solo cercare di raccontarli.

Quattro tratti

La prima cosa che balza all’occhio sono i ragazzi seduti sui gradini davanti alla Sala Borsa. Un tempo erano più che altro la scalinata e il sagrato di San Petronio ad accogliere drappelli di chiacchiere amichevoli, ora i cordoni di sicurezza scoraggiano la sosta all’ombra del patrono, e le persone si spostano in un luogo più neutro e più moderno della vita della città.

Da quel punto di vista privilegiato, che permette osservare la piazza, l’incrocio delle vie più importanti del Centro, le Due Torri e, soprattutto, l’Apple Store, sono spettatori del mondo che passa. Non nel senso che sono fuori dai giochi; hanno piuttosto la convinzione di poterlo dominare, non appena lo decidono. Non sono ancora condizionati dalle disillusioni dei trentenni e ostentano un potenziale che chiede di essere scovato… se solo ne fossero consapevoli. Inoltre hanno tempo, non hanno bisogno di correre e così provocano un’invidia tremenda a coloro che col tempo cominciano a farci i conti in tutti i sensi.

Mentre ammiro con nostalgia questa sfrontata sicurezza, mi passa accanto un ragazzino non tanto alto, quattordici anni a dir molto, da solo. Biondissimo e con una faccia ancora da bambino nascosta sotto un’aria tesa, indurita. Non è più nella posizione dello spettatore: ora gli tocca attraversarlo, il mondo, e lo fa a passo svelto. C’è qualcosa di artificioso che mi fa capire che ha paura… La sicurezza di prima cede il passo all’insicurezza e mi sento improvvisamente in sintonia con le sue difficoltà, presenti e future. Ma come possono, i giovani, vivere nella città di oggi? Sono esposti a una complessità che disorienta e schiaccia, e l’età della loro formazione – soprattutto per i più deboli – appare una giungla, una battaglia feroce. Chi li aiuta a gestire la complessità e ad abitarla? Chi è che li protegge, senza risparmiare loro il compito di buttarsi nel mondo?

Mi sposto nel portico di Via Indipendenza. Di fronte ad H&M noto una famigliola: lui e lei, e la figlia. Difficile darle un’età: ha quella curvatura morbida nei lineamenti che tradisce il suo essere adolescente, ma non sai se è la bimba che è passata o la donna appena arrivata, in ogni caso c’è in lei qualcosa di nuovo. Noto la scritta di perline sulla sua maglia: FVCK. E mi si riapre un ricordo di adolescenza, quando a Londra indossai una t-shirt con una parolaccia in inglese e mi beccai una sgridata epocale da mio zio. Ma nella maglietta di questa giovane donna, con la V usata alla maniera latina, la ribellione di una parolaccia scritta sugli indumenti ha qualcosa di originale, un che di sofisticato. Un perfetto mix delle due lingue universali (quella nuova e quella antica), una sintesi di antico e moderno, di ribellione e snobismo. Esteticamente geniale e vincente. Qui, però, non c’è più l’austero e tradizionale zio londinese, ma la coppia di genitori indulgenti e questo contrasto, così vivido in me, mi fa pensare a come sia delicata e appassionante la ricerca di un equilibrio tra vicinanza e distanza, tra complicità e rimprovero, tra spontaneità e sforzo educativo riguardo alla vita dei giovani.

Sono ancora immerso in questo dilemma, quando vengo superato ad ampie falcate da due uomini in erba che si stanno confrontando sulla fine dell’università e l’inizio del lavoro. Mi sembra un déjà vu: il loro linguaggio esprime dubbi d’un tempo, roba che una volta si trattava nei saggi sull’adolescenza: “Non so cosa mi piace di più… Preferisco un lavoretto che mi piace, piuttosto che passare tutta la vita in ufficio dietro a una scrivania… Non voglio rinunciare ai miei sogni in anticipo… E comunque prima che mi paghino ne passa di tempo …”.

Ne passa di tempo

Questa è esattamente la domanda che mi viene: come è stato possibile che la vita dei “giovani” sia diventata così lunga? Com’è accaduto che si studi, ci si formi, poi ti venga chiesta della competenza prima di cominciare a lavorare, o una fideiussione che non ti puoi ancora permettere? Come è stato possibile che gli adulti si siano appropriati impunemente di un’età e un linguaggio non loro, sì che quando uno muore a settant’anni si dice: “Era giovane!”?

Come nel gioco delle quattro colonne, sento il sussurro che viene dalla prima: la vita dei giovani è la vita che tutti vorrebbero. Solo alcuni hanno il coraggio di congedarsi da essa con sapienza. E nella tensione generata da questo conflitto, si giocano molti degli aspetti che potrebbero istruirci concretamente su una Sapienza della vita, del tempo e dei passaggi.

Don Davide

 

Testo scritto per il settimanale SettimanaNews il 21 ottobre 2016

 




La sapienza

La liturgia della parola nella Veglia Pasquale giunge con la 6° lettura a una meravigliosa meditazione sulla sapienza. Il percorso che Dio ha fatto fare al suo popolo, a partire dalla riflessione sul senso dell’esistenza, passando per l’Alleanza, l’Elezione e l’esperienza del peccato e della misericordia, ci invita a maturare una saggezza del vivere, dove tutte questi elementi del rapporto con Dio sono raccolti e ci viene consegnato soprattutto il compito di rimanere nel legame con lui, attraverso l’ascolto attento e amorevole della sua parola. Chi si mette a questa scuola, anche se affrontasse mille difficoltà o contraddizioni, non sarà solo, non sarà abbandonato da Dio, anzi, sarà salvato.

E proprio su una estrema prospettiva di salvezza conclude questo intenso percorso attraverso la storia della salvezza, con la 7° lettura della veglia.

Il profeta Ezechiele dà voce a una dichiarazione solenne di Dio, il quale – in un linguaggio tipico dell’AT – rivendica per sé ogni azioni, l’intervento correttivo come quello salvifico. Ebbene, il Signore dice di agire non per riguardo all’uomo, ma per fedeltà al suo Nome santo (cf. v. 23). È una formula di rivelazione: Dio si rivela Santo, Misericordioso e Benevolo. Fa parte della sua natura, non è condizionato da come l’uomo agisce. In definitiva, Dio manifesterà in maniera potente e irrevocabile il suo intervento di salvezza: sarà un’azione di purificazione, di conversione e di rinnovamento, che ha come risultato “l’abitare” nella Terra Promessa, quella Terra Promessa che è, in realtà, il senso profondo della nostra esistenza e la nostra pace.

Questo viaggio conclude con l’affermazione: “Voi sarete il mio popolo, e io sarò il vostro Dio” (v. 28). Ci può essere un esito più efficace nel celebrare la Veglia Pasquale?

Don Davide