Stare in ciò che è bello

È da alcuni anni, sicuramente dall’inizio della pandemia, che desideriamo più consapevolmente “stare in ciò che è bello”. Prendiamo atto che ci sono dei popoli, tantissime persone, uomini, donne e bambini veri, che vivono in condizioni di stenti, tra un’epidemia e una guerra la maggior parte della loro vita.

Questa considerazione ci spinge alla solidarietà, ad essere compassionevoli e anche più umili e meno lamentosi quando le cose che ci riguardano non vanno come vorremmo.

Ma abbiamo più che mai la possibilità di rispondere a questa domanda: Che cosa significa: “Stare in ciò che è bello”? Intendo starci stabilmente, non solo come un residuo nelle nostre giornate, quando finalmente abbiamo smaltito tutte le incombenze e ci possiamo ritagliare un momento per fare ciò che ci piace, o per stare con chi amiamo.

La vita non può essere un residuo.

Ci sono due movimenti nel Vangelo di questa domenica, che mi fanno pensare a una risposta.

Riguardo a Gesù si parla del suo “esodo” che si stava per compiere a Gerusalemme. Del suo esodo, cioè della sua strada verso la libertà. Forse che Gesù non era un uomo libero? Lo era certamente, ma qui si parla di una libertà più radicale: della libertà di interpretare la propria vita come un atto d’amore.

Riguardo ai discepoli si dice che, pur avendo paura, entrarono nella nube, cioè nel mistero in cui si può udire la voce di Dio.

Dunque, che cosa significa “stare in ciò che è bello” sempre?

Per me significa vivere la propria vita come un unico grande gesto d’amore libero e comunque grato, riconoscendo che il mistero e le nubi in questa vita ci sono e possono farci anche tanta paura, ma può capitare che attraverso di esse o dentro di esse udiamo chiaramente la voce di Dio.

Don Davide




Portare bellezza (Under20 testo+video)

Ho riflettuto a lungo se scrivere ancora della guerra.

Ci sono varie cose terribili che mi hanno colpito: il distorcere la verità, il bombardamento di un ospedale pediatrico, l’uso di armi speciali. La cosa più terribile di tutte sono state le parole del patriarca ortodosso di Mosca, Kirill, che ha sovvertito il Vangelo asservendolo al potere omicida.

Ho pensato, però, che nella vita ci sono momenti in cui si vedono le cose come dovrebbero essere.

Desidero riconsegnarvi quel chiarore che trasfigura le cose: che le prende brutte e le fa diventare belle, che mette l’energia buona nel mondo per fare cessare le guerre e farne sbocciare la pace.

Lo faccio consegnandovi la canzone di Ultimo 7+3.  L’avevo già usata anche l’anno scorso nell’omelia, proprio nella domenica della Trasfigurazione, e continuo a pensare che il testo sia praticamente perfetto, un’intuizione spirituale.

Lo dedichiamo a ciascuno e a ciascuna di voi: “Tu porti bellezza dove prima non c’era… soltanto perché, semplicemente porti te.”

Se non cedi alla distorsione della verità, all’odio e all’orrore, e se porti bellezza dove prima non c’era…

…sei tu la vera risposta a questi giorni oscuri.




La Consacrazione e la Trasfigurazione

La terza tappa del Congresso Eucaristico ci invita, nel tempo di Quaresima, a riflettere su come possiamo rendere le nostre liturgie più partecipate.

Nell’intenzione del Concilio Vaticano II e della riforma liturgica che ne è seguita c’era in primo luogo, sicuramente, la volontà di affermare che la liturgia è partecipata e celebrata bene quando ne comprendiamo il significato profondo, lo gustiamo e viviamo i vari momenti della celebrazione eucaristica accompagnando con il nostro corpo e il nostro spirito il significato simbolico dei gesti che compiamo.

L’invito del vescovo, quindi, rappresenta una preziosissima opportunità per riscoprire la ricchezza della nostra liturgia.

In questa seconda domenica di Quaresima, nella quale ci guida il Vangelo della Trasfigurazione, vorrei partire da alcune riflessioni sul momento della Consacrazione, a cui seguirà una seconda parte, sempre su questo momento fondamentale della messa, domenica prossima.

Analogamente a quanto succede nella Trasfigurazione, nella Consacrazione noi vediamo nei segni del pane e del vino il corpo glorioso del Signore, così come i discepoli videro nel corpo umano di Gesù la manifestazione della sua gloria.

Mentre abbiamo la sensazione che la Consacrazione sia quasi un momento magico, in cui grazie all’unione di una formula e di un gesto accade qualcosa di incredibile (e in visibile agli occhi), il vero significato della liturgia eucaristica è che la Consacrazione non è affatto un momento a sé, ma è connessa a tutta la grande preghiera eucaristica che inizia dopo il Santo, anticipata dal Prefazio che dice qual è il motivo specifico della preghiera di ringraziamento di quella celebrazione.

Il momento che ci riporta all’Ultima Cena di Gesù e che ci mette alla sua presenza non sono solo le parole della Consacrazione, ma tutta la lunga preghiera memoriale che introduce la Consacrazione stessa e che la segue. A questa preghiera, l’assemblea si unisce dopo il rendimento di grazie finale: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo” con la risposta importantissima dell’ “Amen” che è come il sigillo di un notaio, l’autentica sul fatto che quella preghiera sale dal popolo che celebra al Padre; mentre noi, a quel punto, siamo quasi assonnati o distratti e si risponde “Amen” come riprendendosi da un torpore che ci ha presi per il fatto che in quella lunga parte aveva fatto tutto il prete, ma adesso bisogna destarsi perché “finalmente” tocca anche a noi con il Padre nostro. Niente di più sbagliato, ovviamente.

La Consacrazione è uno dei momenti più importanti della celebrazione, e viene accompagnato con due gesti che ne sottolineano la solennità – il suono delle campanelle e il gesto di inginocchiarsi – ma non bisogna per questo pensare che sia una cosa a parte. È proprio come il cuore pulsante della liturgia, insieme alla proclamazione del Vangelo: ma sappiamo che il cuore dà energia vitale all’organismo eppure sarebbe insignificante senza il corpo che lo circonda.

Don Davide