La partenza e la meta

Nella liturgia di questa domenica, c’è l’invito a partire per un viaggio inedito e inatteso, lontano dai propri riferimenti e dalle proprie sicurezze (prima lettura), per arrivare a una vetta di trasformazione incredibile, in cui in una persona Dio e il mondo si toccano (vangelo). Il contesto di questo traguardo prodigioso è descritto come un mistero: una nube luminosa. È una nubeperché c’è qualcosa che sfugge alla possibilità di spiegare tutto; è luminosa, perché in questo evento si manifesta qualcosa di sorprendente e bellissimo. 

Cammino

Vorrei che tutti, con la nostra personale sensibilità, potessimo sentire l’invito a partire in un cammino di cui non sappiamo i contorni e i riferimenti, ma con l’unica certezza che la storia è saldamente nelle mani di Dio e che, se intraprendiamo questo viaggio con fiducia, saremo un luogo – un luogo fisico e spirituale al contempo – in cui Dio e il mondo si toccano. 

Vorrei che ciascuno di noi potesse sentire questo “inizio”: sia chi è disperato perché non si celebra la messa domenica, sia chi è più timoroso e prudente; sia chi è più scettico e sospettoso, sia chi si affida più serenamente alle indicazioni che sono state date… per tutti vorrei che risuonasse un invito personale: non rimanere ancorato a quello che sai già, ai tuoi schemi, alle tue certezze, ai tuoi orizzonti di riferimento. Prova a metterti in ascolto delle ragioni dell’altro, a entrare in sintonia con la paura o col coraggio, con la fede o con la mancanza di fede, con lo sgomento o la serenità. Prova a cogliere le possibilità che questo viaggio ti offre. Sarà un cammino pazzesco, roba da fare venire le vertigini; talvolta ti chiederai se ci sia un sentiero o se sia tutta una follia.  

Potrebbe succedere che nelle cose più terribilmente umane, siamo condotti a toccare delle vette di grandezza spirituale: dalla paura del contagio alla generosità del proprio lavoro; dal sospetto all’amicizia solidale; dal disagio per la privazione delle nostre routine allo spazio per un incontro spirituale. 

Non mancheranno il disorientamento e la sete, questa “sete” così al centro dei nostri cammini pastorali; non mancherà la paura e lo sconforto e lo scontro con il nostro limite. Ma ci saranno anche momenti di esaltazione, un cielo sopra di noi colmo di infiniti punti di luce.  

È importante che lo facciamo con Gesù, questo cammino. Ognuno lo tenga vicino a sé con la lettura del Vangelo, con la preghiera personale, con il ricordo, mettendo in pratica l’amore concreto. 

Con lui, saremo trasfigurati. Cambieremo. 

Cambierà il nostro modo di essere chiesa, forse più consapevole delle cose preziose che abbiamo? 

Cambierà il nostro modo di vivere, segnato da una riscoperta di ciò che davamo clamorosamente per scontato? 

Forse ci sorprenderemo, ma quando ricorderemo i momenti di svolta della nostra vita annovereremo anche questo, scaturito dalla disponibilità a “partire”, fissando la meta di una montagna lontana. 

È meraviglioso e incoraggiante ricordare che quel primo passo di Abramo è stato l’inizio del cammino della fede e il seme della storia di un popolo. 

È meraviglioso credere che questo nostro primo passo possa essere altrettanto. 

Don Davide 

 




L’autorità di Gesù

Gesù ha iniziato ad annunciare l’amore di Dio Padre. Ha chiamato i suoi discepoli, è appena entrato in sinagoga e subito la sua autorità travolgente si manifesta e non può non essere riconosciuta.

È un’autorità che comunica un amore che trasforma, una parola che guida alla verità (prima di tutto del cuore) e che ha il potere di strappare dalla nostra vita le inclinazioni maligne. È la parola che ci apre alla fraternità e alla guarigione.

Questa autorità di Gesù è quella che produce gli effetti del Vangelo. Gesù compare sulla scena e succede di tutto: gli spiriti maligni vengono scacciati, i lebbrosi accolti e guariti, i malati sanati, gli ipocriti smascherati, i poveri diventano oggetto di attenzione, gli sconsolati recuperano un senso alla loro vita.

Oggi abbiamo il dono essere richiamati a questa autorità di Gesù, quasi come premessa dei tanti discorsi che sono stati fatti, e che faremo, sui grandi temi del mondo di oggi: i poveri, gli emarginati, i migranti, le sfide della carità, il rinnovamento pastorale della nostra diocesi, la chiesa “in uscita”.

Al centro di tutto, come fonte irradiante; prima di tutto, come inizio generativo, ci sta Gesù, l’incontro con lui, il risuonare della sua parola nella nostra vita, il fatto di vedere raccontato nel suo essere l’amore del Padre. Siamo messi di fronte alla sua autorità: è quest’esperienza che ci trasforma e ci dà l’energia necessaria.

È l’incontro con Gesù che ci spinge ad essere discepoli-missionari autentici. È l’assiduità con lui che ci rende più sensibili alle esigenze dei poveri, a cui “è annunciata la buona novella”. È lo sguardo posato su di lui che ci fa vedere negli emarginati, nei migranti il suo stesso volto. È assimilando i suoi criteri che noi possiamo rinnovare la Chiesa perché sia ancora e sempre testimone della resurrezione.

Mentre ci dedichiamo e ci preoccupiamo giustamente delle tante sfide concrete che ci si pongono come credenti e come comunità cristiana, la domenica di oggi ci dà l’opportunità di ricordarci che tutte queste cose trovano la loro unica risposta autorevole a partire da Gesù, dalla fede e dal nostro rapporto con lui, di cui ci dovremmo preoccupare in maniera NON meno concreta del resto.

Colgo pertanto l’occasione, pertanto, di proporre una piccola verifica del nostro legame personale con Gesù come suoi amici e discepoli.

  1. Che intensità relazionale ho con Gesù? Lo credo una persona viva e presente? Ho un modo concreto e personale (come si ha con tutti gli amici) di stare con lui?
  2. L’amicizia con Gesù orienta la mia vita? Determino le mie scelte, i miei comportamenti, il mio stesso modo di amare, in base a quello che riesco a capire di Gesù, dal Vangelo?
  3. La mia preghiera ha una dimensione affettiva con Gesù? Quando prego, prego magari con fede, ma solo in maniera precisa o comunitaria, oppure riesco a metterci qualcosa di mio? Dialogo con Gesù? Gli dico i miei sentimenti, i miei stati d’animo, le mie emozioni, i miei progetti, il bisogno di chiarezza nelle mie scelte?

In questo modo, la nostra amicizia con Gesù non sarà come quella con qualsiasi altro maestro, ma come quella con uno che ha autorità sulla nostra vita: un’autorità che ci rende liberi e che ci inclina al desiderio di amore… e DI AMARE.

Don Davide




La Giornata Mondiale della Pace dell’AC

(I ragazzi del catechismo e dell’ACR vivono oggi la Giornata diocesana della Pace. Noi li accompagniamo con questa riflessione)

«Sono un fotografo di guerra che spera di essere disoccupato»: è una delle amare considerazioni che ricorrevano spesso nelle interviste rilasciate da Robert Capa, il più famoso fotografo di guerra del Novecento, testimone, suo malgrado di una serie interminabile di episodi tragici, di morti ingiuste, di dolori incommensurabili. Eppure la carriera di Capa è costellata da una miriade di presenze sui campi di battaglia: dalla guerra civile spagnola alla seconda guerra mondiale, dalla guerra arabo-israeliana alla prima guerra in Indocina, il fotografo ungherese non ha smesso mai di gettare il suo sguardo su una delle più brutali manifestazioni dell’umanità che ancora oggi continua a segnare il presente della nostra Terra. L’esperienza di Capa, testimonia come nel cuore del noto fotoreporter fosse vivo il desiderio di raccontare al mondo l’assurdità della guerra perché appunto presto ci si rendesse conto della sua inutilità ed egli potesse restare a tutti gli effetti senza occupazione. […] È lo stesso desiderio di pace che renda ancora necessario oggi celebrare e vivere un mese dedicato alla pace nei nostri contesti civili ed ecclesiali. […] Anche quest’anno l’AC vuole farsi portavoce di un messaggio di pace che proclami l’inutilità della guerra, che racconti della bellezza di un mondo senza guerre, che aiuti l’umanità a guardare a se stessa per scorgere quei barlumi di bellezza che nemmeno il più orribile dei mali potrà mettere a tacere, e che hanno il nome di solidarietà, voglia di vivere, aiuto umanitario, progetto di solidarietà.

Sguardo attento e cuore aperto In questi mesi ci stiamo confrontando con la pagina del Vangelo di Marco nella quale, dentro il Tempio, Gesù offre ai suoi discepoli un insegnamento a partire dagli atteggiamenti delle persone sulle quali si posa il suo sguardo. Nel Mese della Pace anche lo sguardo dei ragazzi, dell’Azione Cattolica vuole, per quanto possibile, farsi ancora più attento alla realtà. Anche questo possiamo imparare da questo Vangelo: è a partire dalla realtà che Gesù fa emergere tanto le contraddizioni (gli scribi) quanto i semi di Vangelo sparsi nella vita degli uomini e delle donne di buona volontà (la vedova). Davvero noi siamo invitati ad invocare dal Signore questa capacità permanente (che cioè sa andare ben al di là di un tempo circoscritto come il “Mese della Pace”) di saper osservare la realtà come il luogo attraverso il quale Dio si manifesta; come il luogo nel quale siamo chiamati ad essere segni della sua presenza; come il luogo nel quale siamo impegnati ad arginare il male, diversamente dilagante. […] Sì: uno sguardo attento è il segno di un cuore aperto!

L’invito del Vangelo ad avere “sguardo attento e cuore aperto” si traduce, durante il Mese della Pace, nell’impegno da parte di tutti a guardare alla realtà che li circonda e, in una prospettiva allargata, a quella mondiale con l’occhio di chi si fa attento ai bisogni – soprattutto il bisogno di pace – e, nel contempo, riesce a scorgere il bene, il bello laddove esso si manifesta. Per i ragazzi, quest’anno l’invito è quello di assumere uno sguardo “fotografico” per individuare l’impegno di uomini e donne che costantemente si adoperano per la pace, raccogliere le loro azioni di gratuità, di dono spontaneo di sé, di condivisione fraterna e tensione alla carità.

È proprio questo richiamo alla fotografia che genera lo slogan dell’impegno di Pace 2018: SCATTI DI PACE, uno slogan che racconta una realtà missionaria articolata e rappresenta il dinamismo del cristiano che vuole portare la causa del Vangelo fino agli estremi confini della Terra. “Scatti di pace” perché in un’era dominata dalle immagini, dai ritratti naturali o artefatti della realtà per mezzo di fotocamere e smartphone, diviene sempre più importante allenare il proprio occhio per gettare lo sguardo “oltre” (sulla scorta dell’esempio di Gesù con la vedova) e cogliere l’esigenza di pace di uomini e donne, bambini e anziani, in ogni parte del mondo. […] Ma “scatti di pace” vuol dire anche altro: il dizionario definisce lo scatto come «il liberarsi rapido e improvviso di un congegno tenuto in stato di tensione da una molla o da un’altra forza»; nel Mese della Pace, quest’anno, siamo chiamati a liberarci rapidamente da quelle situazioni che ci imprigionano nei nostri dubbi, nelle nostre insicurezze, che frenano il nostro andare incontro agli altri e scattare, muoverci, correre verso chi oggi cerca la pace per offrire il nostro impegno appassionato e generoso.

Dall’iniziativa annuale per la Pace dell’Azione Cattolica




L’entusiasmo di Filippo

Filippo, il protagonista della prima lettura, è un diacono: ha ricevuto un ministero dagli apostoli, per permettere al Vangelo di propagarsi, per far sì che i più bisognosi continuassero a venire accuditi e perché gli apostoli potessero continuare a dare un primato alla predicazione missionaria della Parola di Dio e non fossero attanagliati da un eccesso di questioni pratiche e gestionali.

Eppure vediamo che il ministero di Filippo va ben oltre i suoi incarichi. La sua accoglienza del Vangelo cresce in lui, e lo spinge a farsi missionario. Le sue parole sono coinvolgenti, i suoi segni grandiosi: una pletora di spiriti cattivi se ne fugge a gambe levate, e la gente, nel contatto con lui, guarisce.

Non è l’unico tra i ministri della Chiesa apostolica a compiere tali opere: dall’ombra di Pietro in poi, l’entusiasmo della resurrezione provoca meraviglie.

È bellissimo questo incoraggiamento che riceviamo dalle letture di oggi, verso la fine dell’anno pastorale e nel giorno in cui un’altra parte dei nostri bimbi fa la Prima Comunione. Il Vangelo cresce. Quello che inizia con dei segni piccoli, cresce in modo grande. E tale è anche la speranza per questi nostri amici più piccoli che oggi ricevono l’Eucaristia per la prima volta. Noi confidiamo che possano diventare “grandi” non solo di età e di fisico, ma grandi nell’animo, e di potere ammirare gioiosi e stupiti le loro opere.

La prima lettura di oggi è anche un esercizio di verifica nella fede del nostro anno pastorale. Cos’è cresciuto? Cos’è stato animato dallo Spirito e cosa no? Ci sono stati degli spiriti maligni che sono stati scacciati?

Se quest’ultima domanda trova una risposta affermativa, allora possiamo davvero ringraziare il Signore, chiedendo la grazia di essere ancora e continuamente pronti a rendere ragione della nostra fede: non solo attraverso ragionamenti precisi e pertinenti, ma soprattutto attraverso la bellezza e l’entusiasmo di una testimonianza. Come quella di Filippo.

Don Davide




Un popolo tra tenebre e luce

“Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce” (Is 9,1). Per essere illuminati, bisogna innanzitutto riconoscere che il nostro mondo fa quotidiana esperienza delle tenebre. È di questi giorni la triste conferma che pochissime persone del mondo detengono una incredibile maggioranza delle ricchezze del mondo; le notizie dei fronti della guerra continuano a raggiungerci; condividiamo le sofferenze di tanti nostri fratelli e sorelle in Italia piagati dalle calamità naturali, o da tante altre drammatiche piaghe sociali.

Non dobbiamo però pensare che siano cose di cui sono responsabili solo “gli altri”: si tratta di modelli e di strutture dei quali anche noi facciamo parte: un modello di organizzazione dell’economia con cui noi corriamo il rischio di avvallare delle situazioni di disuguaglianza; gli assetti della politica e della cultura per cui non ci sentiamo coinvolti nelle cose che accadono lontano; un modo di comprendere (o di non comprendere) i vincoli e le responsabilità della convivenza comune, che non ci fa vivere come Paese solidale sempre, non solo quando succedono le catastrofi.

L’irruzione della luce il Vangelo ce la racconta nell’inizio della storia dei primi discepoli con Gesù. Lui li chiama e loro si trovano coinvolti in questa vicenda con lui. Il Vangelo, fra le righe, ci fa sentire una certa nostalgia per l’entusiasmo di quel momento, che certamente nelle prime fasi non era nemmeno consapevole, ma a cui molti anni dopo gli apostoli devono avere ripensato con un’emozione particolare: lì stava iniziando qualcosa di nuovo e così sorprendente che non avrebbero mai potuto immaginare. La loro storia con Gesù stava iniziando.

Quella storia è raccontata come quando ci si innamora e come uno squarcio di libertà.

Abbiamo sempre pensato che “lasciare il padre”, in questo racconto, fosse un riferimento alla radicalità della sequela. Senz’altro quest’elemento c’è. Ma lasciare il padre evoca innanzitutto l’esperienza nuziale: “lascerà suo padre e suo madre e si unirà alla sua donna”. Qui, sicuramente, il Vangelo non vuole fare una riflessione sul celibato, ma vuole dire che l’incontro con Gesù è segnato da quel tipo di amore che si prova quando ti innamori pensando che hai trovato la persona della tua vita.

In secondo luogo, la psicologia contemporanea ci insegna che “lasciare il padre” evoca la grande libertà che è data dall’amore. L’esperienza, cioè, della vita adulta, plasmata nella libertà di potere camminare in una storia nuova, anche lasciando i propri retaggi, le proprie sicurezze, i propri condizionamenti, per potere camminare verso la costruzione di qualcosa che il Signore ci chiede di generare anche in maniera nuova.

In che modo si può esprimere questa libertà, senza che sia soltanto l’ultima trovata arbitraria e illusoria? San Paolo, nella seconda lettura, ci istruisce su questo, con quella che è chiamata la logica della croce, ossia il criterio dello Spirito: una logica che rifiuta i criteri del mondo e che sceglie la via disarmata, dove si manifesta davvero la forza dello Spirito, il suo fascino e la sua potenza: una via di pace.

In questa domenica noi accompagniamo con grande simpatia i ragazzi che parteciperanno alla Giornata diocesana della Pace e ci auguriamo che crescano come costruttori di pace e di un mondo nuovo e che davvero possano essere migliori di noi.

Don Davide




Resurrezione per la vita

Gesù parla nel tempio di Gerusalemme. È la punta e il riassunto del suo magistero. Davvero Gesù è il volto delle nozze tra Dio e l’umanità, è lui stesso lo sposo e il dibattito tra sadducei e farisei circa la risurrezione dei morti diventa occasione della rivelazione della vita nuova in Dio. I figli di Dio “sono figli della risurrezione” perché vivono in comunione con il Signore che “non è Dio dei morti, ma dei viventi”. Nella pagina di questa domenica non si parla di matrimonio fecondo, ma del matrimonio immagine della comunione tra Dio e noi e la fede nella resurrezione è essenziale perché, se non ci fosse, non si sarebbe neppure il discorso di Dio. La risurrezione non è solo la nostra sorte dopo la morte, ma la condizione nuova di vita, di figli della risurrezione. Nati dalla risurrezione di Cristo, già viviamo la vita eterna perché vita con Dio.

Il livello dell’argomento dei sadducei, che vorrebbero mettere in difficoltà Gesù con una parabola ironica (la donna andata in sposa sette volte), è molto basso, erede di una cultura che ben lontana dal concetto cristiano di matrimonio, dove l’uomo e la donna si donano reciprocamente e fino in fondo e nessuno “possiede” l’altro, ma ognuno si “offre” all’altro. Per i sadducei – e tutti a quel tempo – il dominio è del maschio e la passività è della donna.

Non è facile lasciarsi incontrare dal Signore; molti sono gli inciampi. Nel Vangelo di oggi il Signore ci rassicura che neppure il “nemico” assoluto, la morte, sarà di ostacolo alla nostra unione con lui che, proprio nell’immagine data dai sadducei, prende faccia di sposalizio. Gesù mostra anche l’incredibile profondità dell’amore che unisce l’uomo e la donna – non il dominio e la sottomissione – segno misterioso ma credibile dell’Amore e del mistero stesso di Dio.

(d. Angelo Sceppacerca)




Il cuore incandescente di Dio

La scena del vangelo di oggi è di quelle che ci invitano a vedere oltre: Gesù accoglie immediatamente la supplica di dieci lebbrosi e li esorta a presentarsi dal sacerdote, come prescrivevano la Legge e le usanze sociali. Essendo la lebbra una malattia che aveva influenza nel campo della purità cultuale, infatti, solo il sacerdote poteva attestare i casi di guarigione e riammettere la persona guarita nella società (altrimenti i lebbrosi dovevano stare in disparte) e al culto (da cui i lebbrosi erano esclusi).

Invitando ad andare dal sacerdote, quindi, Gesù chiede agli ammalati di fare un duplice atto di fede: il primo, nella sua parola che ha il potere di guarirli; il secondo, nel fatto che anche se non c’è stato ancora alcun segno, mentre andranno dal sacerdote, la guarigione avverrà. Potrebbero essere ingannati, potrebbero pensare che è una scusa di Gesù per toglierseli dai piedi, invece devono fidarsi. Prontamente, mentre sono in cammino, vengono guariti.

A quel punto, solo uno abbandona la preoccupazione di farsi dichiarare guarito, per tornare indietro a ringraziare Gesù. Non è che i nove restanti abbiano fatto una cosa brutta: hanno messo in pratica l’indicazione di Gesù; la certificazione del sacerdote era indispensabile e dobbiamo pensare a quale dovesse essere il loro entusiasmo, di vedersi guariti e potere finalmente tornare alla vita normale.

Perché Gesù allora sembra così severo?

Le sue parole ci invitano a scrutare ciò che è più prezioso della vita stessa, in quanto ne è la vera sorgente, ciò che ci rende uomini e donne “spirituali” e non solo uomini e donne “animali”: ossia la capacità di riconoscere che la vita è un regalo e possiamo esserne grati. Nel momento in cui percepiamo che qualcosa ci è stato donato, sentiamo vividamente cos’è l’amore. È un amore che guarisce, che sana, che rigenera, ancora prima della salute, del benessere e delle nostre relazioni sociali. Forse possiamo capire meglio di cosa si tratti con un esempio.

Possiamo considerare tutti quei casi in cui la vita “esteriore” sembra sfortunata: problemi di lavoro, relazioni faticose, fallimenti… Siamo tutti talmente presi dall’ansia dell’autorealizzazione (che sembra diventata la nuova parola d’ordine del nostro mondo) da pensare che una vita non “realizzata” secondo i nostri canoni valga di meno. No! Siamo noi uomini che facciamo questa deduzione. Se invece fossimo capaci tenere fermo che l’amore di Gesù non viene meno, e con esso la nostra dignità di figli di Dio, probabilmente genereremmo meno sofferenze, e noi stessi vivremmo più fiduciosamente e sereni.

Mi capita spesso, quando vado a benedire, che le persone mi dicano: “Speriamo che il Signore mi dia un po’ di salute, perché quando c’è la salute c’è tutto!”. Capisco il discorso, ma nell’intimo mi ribello. Perché non è vero: ci sono persone straordinarie, che non godono affatto di buona salute (e neanche di una salute mediocre, a dirla tutta) e persone meschine come poche che sono in perfetta forma fisica. San Paolo scrive una frase folgorante nella Seconda lettera ai Corinzi: «Siamo afflitti, ma sempre lieti; poveri, facciamo ricchi molti; gente senza nulla e invece possediamo tutto, il Signore del cielo e della terra» (2Cor 6,10). Questo è esattamente il senso del Vangelo di oggi: c’è qualcosa di più profondo che caratterizza la nostra esistenza, ed è la consapevolezza dell’amore creativo e rigenerativo di Dio Padre, che si manifesta in Gesù.

C’è da aspettarsi che l’unico che vivrà davvero bene la sua condizione di uomo guarito e rigenerato sia colui che è tornato da Gesù, mentre quegli altri saranno “solo” in salute, senza avere afferrato il segreto della vita.

Oggi la nostra comunità affida il “Mandato” a tutti i catechisti, gli educatori e i responsabili delle attività pastorali della parrocchia. Non c’è altro augurio che possiamo fare di questo: che siano guide capaci di fare vedere oltre, di posare lo sguardo nel cuore incandescente di Dio, dove arde il dono della vita e splende l’amore concreto di Gesù per noi.

Don Davide




I furbi, chi governa e gli amministratori

È davvero un saggio di attualità la liturgia odierna, la quale ci propone un campionario di situazioni che sentiamo molto vicine.

La prima lettura ci presenta la figura dei “furbi”: quelli che all’esterno, o apparentemente, vogliono apparire corretti, ma poi tramano nel cuore le peggiori empietà. Il pensiero che costoro fanno sulla legge del Sabato è spaventoso: “Vabbè, ci tocca aspettare il Sabato, ma speriamo che passi presto così possiamo tornare a fare gli impostori!”. La loro colpa è di svuotare completamente il valore della rettitudine e che osservano la Legge pensando in realtà che non ci sia un Dio in cielo, o illudendosi che egli non veda. Invece lui giura: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere!» (Am 8,7).

San Paolo, al contrario, valorizza al massimo la responsabilità e i suoi significati, al punto da chiedere con insistenza che si preghi per chi è incaricato di governare. Ben lungi dall’essere un conservatore o un difensore dello status quo, Paolo sa che tali incarichi necessitano della più grande serietà, umanità, onestà e competenza; per questo invita i credenti ad accompagnare un compito così importante con la forza della preghiera. La posizione di Paolo è l’esatto contrario di quella dei “furbi”. Non ci deve essere nessun interesse per le proprie cose, nessuna smania di dare sfogo alle frustrazioni o alle proprie preoccupazioni; il governo riguarda il bene di tutti (in positivo) o il male di tutti (in negativo), quindi il cristiano deve tenere lo sguardo fisso sull’opportunità di superare i personalismi per favorire il più possibile il bene.

Nel vangelo, Gesù loda un amministratore “disonesto”. Scelta politicamente scorretta: ce lo immaginiamo cosa succederebbe oggi se Gesù avesse rilasciato una dichiarazione di tal fatta? Sarebbero comparsi titoli del tipo: “Gesù provoca ancora!”, oppure: “Leader carismatico religioso invita pubblicamente alla disonestà” ecc. ecc. Eppure, con una delle sue sagaci parabole, Gesù smaschera la micidiale ambiguità del denaro e ci obbliga a considerare il rapporto ossessivo e deviato che abbiamo con esso: «Non si può servire a Dio e al Denaro» (Lc 16,13).

Questi tre scenari di incredibile attualità mi fanno pensare ad altrettante situazioni in cui la parola di Dio ci edifica: la ripresa delle attività dopo il tempo dell’estate (lavoro, parrocchia, sport, interessi); la scuola; la drammatica recente esperienza del terremoto.

Il compito educativo di tutte le realtà coinvolte nella formazione della persona, dovrebbe essere quello di favorire un’autentica dignità umana e un profilo morale esemplare, non quello della “furberia”. I furbi ci stanno così antipatici perché sono degli “omaruncoli”, dei “poveretti” direbbero i ragazzi, eppure ogni tanto ci lasciamo tentare dal pensiero di “voler fare come loro” (attenzione: non di “voler essere” come loro!), per avere la strada in discesa, e perché ci sembra che rimangano sempre impuniti, che la facciano sempre franca, che cadano sempre in piedi. Ma invece non è così: per dirla con le parole di Gesù: “Non c’è nulla di nascosto che non debba essere manifestato!” (Lc 12,2).

La meravigliosa avventura della scuola, dovrebbe essere per ragazzi e docenti l’opportunità di allargare gli orizzonti al bene comune e al desiderio/bisogno di costruire le basi (culturali ed umane) per assumere incarichi anche gravosi con la massima coerenza e competenza. Sono stato colpito, in questi ultimi giorni, dal botta e risposta su sociale e quotidiani polarizzato intorno a due questioncine di poco conto, ossia sulla simpatica iniziativa di un professore di latino di proporre la traduzione del tormentone dell’estate: “Andiamo a comandare” (se non sapete di cosa si stia parlando, fermato un qualunque giovane per strada e chiedete!), oppure sulla vicenda del papà che non ha fatto fare i compiti al figlio scrivendo la lettera di motivazioni ai professori. Senza entrare nel merito segnalo, come sia facile perdere di vista i veri tesori della scuola e smarrirsi in polemiche di nessun conto.

Infine, l’eterna opera di divisione operata dal Denaro (nome proprio di un dio negativo), mi ha fatto pensare al terremoto recente. Oggi, in tutte le chiese d’Italia, facciamo la raccolta per aiutare le popolazioni colpite, ma attorno al denaro si consumano sempre le crisi e le fatiche: soldi destinati a mettere in sicurezza le strutture spesi per altre cose; sciacallaggi (reali e mediatici) e la grande sfida dell’aiuto alle popolazioni colpite per affrontare l’inverno, la ripresa delle scuole e il lavoro, insieme alla ricostruzione. Non si può servire a Dio e a Mammona, anche in questo caso possiamo decidere chi dei due vogliamo servire.

Don Davide




Il preventivo della gioia

Si ricomincia il nostro percorso di comunità, con un invito molto forte di Gesù. Il rapporto con lui dev’essere autentico, dobbiamo avere il coraggio di tenerlo come riferimento decisivo per le attività, per i progetti che vogliamo realizzare, per il nostro stile di chiesa.

Gesù ci sprona a misurare le forze; dunque, la prima considerazione che dobbiamo fare è: desideriamo ascoltare Gesù e provare a modellare il nostro essere cristiani come lui ci propone? È come fare un progetto e un preventivo, per sostenere un impegno importante.

Le tragedie legate al terremoto che ha appena colpito il centro Italia ci mostrano drammaticamente quanto gravi possano essere le conseguenze di una costruzione non fatta a regola d’arte. Mentre ricordiamo le vittime con cordoglio e siamo solidali a tutte le persone colpite con la preghiera e con l’azione, pensiamo anche a un’altra responsabilità che ci riguarda: quella di testimoniare il Signore risorto, vera speranza di ogni ricostruzione e rinascita possibile.

All’inizio di questo nuovo anno pastorale, perciò, vogliamo valorizzare la riserva di energia che è la gioia. Fortunatamente, possiamo attingere alla gioia e l’entusiasmo che ci hanno dato i campi dei ragazzi e dei giovani. Quattro ragazze hanno fatto il campo di formazione nazionale dell’ACR; il gruppo delle superiori è stato a Torino per interrogarsi sul contributo della comunità cristiana alla vita della città; il gruppo ACR è stato al Falzarego per vivere la gioia che il Signore ci dona e per imparare come regalarla agli altri; infine, i ragazzi di 1° media hanno appena trascorso qualche giorno per lanciare il gruppo medie anche per loro.

Vorrei che questa gioia della fede e della comunità fosse davvero il nostro serbatoio per quello che vorremo edificare quest’anno. Sogno che la nostra preghiera, le nostre attività e anche i nostri impegni possano attingere da esso, per rivelare che siamo davvero animati dallo Spirto del Signore risorto.

Penso che sia questa la sapienza che ci invita a ricercare la prima lettura, e anche quella forza autenticamente liberante di cui parla San Paolo, nella Lettera a Filemone.

È in gioco non solo la fisionomia di una comunità parrocchiale, ma la testimonianza che possiamo offrire agli uomini e le donne che abitano il nostro territorio, e anche l’iniezione evangelica che siamo tenuti a dare alla nostra cultura.

Don Davide




L’amore per Gesù

Devo dire che il Vangelo di questa domenica mi ispira in modo particolare. Forse, anche perché sento più intensamente il bisogno di convertirmi nella direzione che ci propone.

A dispetto della formalità e della sontuosità della cena organizzata da Simone il fariseo, la scena è dominata dal gesto di amore di una donna. Un gesto di amore schietto, spudorato, completamente focalizzato sulla persona di Gesù.

Questa donna non dice una parola, non sappiamo neanche i suoi pensieri; quello che possiamo dedurre di lei lo impariamo solo dai suoi gesti. Eppure, dal momento che entra in quella sala (con quale autorevolezza!) è come se riducesse tutti gli altri personaggi – che pure parlano, interagiscono, sembrano protagonisti della scena – a dei semplici comprimari.

Quanto sarebbe bello se noi fossimo capaci di sentire Gesù così al centro, di volergli bene non come a un’idea, ma come a una persona concreta, un amico con cui abbiamo tessuto anni e anni di relazioni e di avventure insieme, uno che ha fatto strada con noi!

Quando penso all’educazione che offriamo ai nostri ragazzi, mi chiedo se, in tutte le cose che facciamo, noi li aiutiamo a conoscere meglio Gesù e a volergli bene: se la nostra pastorale trova le vie giuste per farglielo frequentare e sentire vicino.

Quanto volte, anche nelle nostre liturgie, noi rispettiamo le formalità, e poi – come rivendica Gesù in questa meravigliosa scena – non gli diamo un bacio, non lo abbracciamo, non ci affidiamo a lui con tutto il nostro essere?!

La misericordia di cui parla tanto papa Francesco dipende proprio da questo rapporto con Gesù: in questa pagina del Vangelo è evidente. Chi ama tanto Gesù conosce il perdono e sarà spinto dalla misericordia. Chi non lo ama, e si ferma alle regole formali, non farà mai l’esperienza di sentire il cuore sciolto, lo slancio che non ti fa avere paura, lo sguardo che ti fa cogliere ciò che di bello accade nella tua vita.

Don Davide