La vita visibile

Il bagliore tenue e caldo di un presepe nella notte – non di quelli spettacolari e grandiosi, uno di quelli semplici, fatti in casa da noi: con un po’ di muschio, le lucine, qualche statuina senza troppe pretese e quel tocco originale che ci rende tanto orgogliosi (sia esso la capanna particolare che ci siamo inventati, il posto dove abbiamo collocato il dormiglione, oppure il nostro laghetto o infine quella magnifica fontanella vera che finalmente siamo riusciti a piazzare proprio al centro) – e poi le tracce di qualcuno che è passato, lasciando il nostro albero congestionato di regali; due sposi che si abbracciano – negli occhi il riflesso della loro casa – e il sorriso meravigliato del bimbo che si chiede come abbia fatto Babbo Natale a non farsi scoprire neanche questa volta… Mi chiedo se ci sia un’immagine più dolce e famigliare di questa, e probabilmente è proprio così l’atmosfera che abbiamo lasciato nelle nostre case in questi giorni di festa.

Fa un po’ contrasto che di fronte a un tale clima natalizio, questa domenica veniamo catapultati invece che nel racconto commovente della nascita di Gesù, nelle profondità vertiginose dell’inizio del vangelo di Giovanni. La solennità del Verbo ci sembra rubare la scena all’umiltà del Bambino.

Non è forse vero che nel mistero del Natale noi percepiamo la vita come dovrebbe essere e la tocchiamo quasi con mano? L’esperienza del Dio della vita è legata a quel bimbo che è stato possibile vedere, toccare e sentire piangere, il bambino nel quale abbiamo riconosciuto la Vita stessa condensata, concentrata, fatta carne… proprio come quando nasce un bimbo a noi vicino e tutti fanno a gara per prenderlo in braccio, coccolarlo, sbaciucchiarlo e “spupazzarlo”

Che cosa accade allora, quando il Verbo che sprigiona la Vita diventa uomo? Che cosa succede quando la Parola della Vita si fa carne? Accade improvvisamente di scoprire che in realtà non c’è un altro mondo che offra la possibilità della vita. La Vita si è fatta visibile in questo mondo.

«È venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Letteralmente: «ha posto la sua tenda in mezzo al nostro accampamento». Se il vangelo fosse stato scritto oggi, avrebbe detto: “ha preso casa nel nostro condominio. Ha aperto un mutuo. Viene alle riunioni. Fa fatica ad arrivare alla fine del mese come tutti coloro che fra di noi la fanno”. Ma in realtà, nell’evocare la sua tenda in mezzo alle nostre, c’è di più. La sua non è una bella tenda come qualunque altra, come quelle degli scout, ad esempio. La tenda di cui si parla, nel libro dell’Esodo (cfr. Es 25,8), è la Tenda del Convegno: il luogo dove abita Dio, mentre si sposta con il suo popolo durante il cammino nel deserto. Ma è anche il luogo dove tutti sono convocati per incontrare Dio insieme.

Così l’augurio di Dio si rivolge oggi prima di tutto a te, che provi con impegno ad accogliere il Signore. Perché la sua vicinanza accompagni la tua ricerca, e tu possa essere come questo bimbo appena nato che prende il dito di una persona grande.

L’augurio di Dio si rivolge a te, che ogni tanto indugi e fai fatica. Non aver paura che Dio vìoli la tua libertà. Non pensare neppure che sia arrabbiato. Lui è garbato e ha sopportato con amorevolezza molteplici rifiuti. «A quanti però l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio» (Gv 1,12). Se vuoi sentire Dio come Padre, lasciati rapire dalla sua promessa.

L’augurio di Dio infine è anche per te, che in queste feste non hai voluto mancare: il Signore ti invita alla comunione, perché tu possa riscoprire la messa domenicale come luogo dell’incontro. Sarà per te come la sinagoga di Nazaret, dove ascolteremo la voce di Gesù che ci parla. Sarà il monte delle beatitudini, gremito di gente e di speranza. Sarà la riva del lago di Tiberiade, dove c’è pane da condividere per tutti o la casa di Betania, popolata di amici. Sarà infine il Golgota affollato dove da ogni disperazione e difficoltà la parola della vita continuerà ad imprimere il suo sigillo sulla storia.

 Don Davide




Parigi, 13 novembre 2015

Nella liturgia della 33° domenica del Tempo Ordinario, anno B, sia il profeta Daniele che Gesù nel Vangelo fanno uso un genere letterario molto specifico, quello dell’Apocalittica, che a noi risulta oscuro e minaccioso, ma ancora al tempo di Gesù doveva essere facilmente codificabile.

Tale genere letterario veniva usato per parlare di un evento nella storia, che ponga fine alla continuità della storia, in modo tale che attraverso questa cesura netta, la storia successiva risulti diversa da quella precedente, e soprattutto portata su un altro piano. Dio è il protagonista assoluto di questo intervento risolutivo, al punto che il primo dato dell’apocalittica è che il destino del cosmo, nonostante tutte le apparenze, non sfuggirà dalle mani di Dio.

Non dobbiamo pensare che qualcosa, nel corso degli eventi, possa rovinare definitivamente i piani di Dio, quasi da “rompergli le uova nel paniere”, sì da costringerlo ad intervenire per rimediare. La cosiddetta “fine” del mondo sarà invece un atto della volontà d’amore del Padre: la venuta del Signore che tirerà tutti i fili della storia e li porterà a compimento. Nell’immagine del vangelo, infatti, il Figlio dell’Uomo viene proprio nel momento in cui tutto sembra compromesso, con i segni della sua autorità e della sua presenza («grande potenza e gloria»), ed è lui che raduna tutti, raccogliendo il cosmo nel suo abbraccio.

Non possiamo non pensare ai terribili fatti di Parigi della sera di sabato 14/11, insieme a tutte le tante, troppe, atrocità che si consumano nel mondo. La sensazione che ci rimane è di sgomento e, certamente, anche di paura, eppure i cristiani devono imparare a leggere gli eventi con questa capacità di interpretazione della storia. Nelle letture, il contrasto tra queste due situazioni è impressionante: mentre si descrive «un tempo di angoscia, come non c’era mai stato» (Dn 12,1), la profezia di Daniele dice che proprio allora il popolo sarà salvato; quando evoca uno sconvolgimento cosmico, Gesù afferma che sarà quello il momento in cui il Figlio dell’Uomo interverrà nella storia a segnare un prima e un dopo. Paradossalmente, Gesù parla di un risveglio in questa situazione, come quando il ramo tenero del fico preannuncia la primavera (cf. Mc 13,28-29). Dobbiamo riconoscere questo risveglio, questo invito per le coscienze a rinnovarsi proprio nel mezzo dei tumulti che, altrimenti, ci paralizzerebbero.

L’evento che decifra il tempo da riconoscere è la resurrezione – «non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga» (Mc 13,30) – nel senso che tutte le volte che si configurano questi “sconvolgimenti”, il cristiano è chiamato a iniettare la potenza di vita della Pasqua nella storia; questa energia vitale discrimina il prima e il dopo, fa finire il mondo vecchio, abitato dalla violenza, dalla sopraffazione e dalla negazione della convivialità, e fa iniziare la Nuova Creazione di Dio. Sono solo le sue parole, quelle che invitano all’amore del prossimo e dei nemici, che non passeranno. Tutto il resto sì.

Chi riconosce questi segni come invito a una stagione nuova, sarà considerato saggio. Bisogna avvedersi definitivamente che invocare alla riduzione dell’altro, o addirittura il suo annientamento, è la matrice di tutta la violenza che vorrebbe soffocare il mondo; bisogna rifiutare una lettura geopolitica appiattita e semplicista, che non colga, almeno, come il Medio Oriente sia l’ultima identità antagonista che resista alla globalizzazione.  Bisogna bandire ogni superficialità, ogni semplificazione e ogni generalizzazione. Chi vuole abitare la storia, non può sottrarsi a questo compito.

Dall’altro canto, ci vuole un impegno e una responsabilità quanto mai necessaria nell’educazione, nella formazione alla convivialità delle e nelle differenze. I terroristi si fanno saltare in aria e uccidono; i violenti, i gretti e gli opportunisti non hanno né realismo né profezia, mentre «coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (Mc 13,3).

Per interpretare la storia e rispondere ai fatti di Parigi e di tutte le altre violenze del mondo, abbiamo bisogno di simili profeti, che sappiano educare molti “altri” alla giustizia e la cui luce possa essere come stelle quando più buia è la notte.

 

Don Davide




“Tutto” quello che abbiamo

Cos’è che fa grande il piccolo gesto della povera vedova?

Sappiamo che Gesù elogia la totalità di questo gesto, sottolineandolo due volte: “Ella ha dato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”.

Tuttavia, questo atto quasi sconsiderato, provoca in noi una certa inquietudine: chi di noi potrebbe dare tutto? Potrei io, mamma o papà con dei figli, lasciare il mio lavoro, svuotare il mio conto in banca, esaurire la dispensa e vendere persino la casa? Non voglio assolutamente sminuire la radicalità evangelica, ma alcune volte una certa retorica spiritualista ha prodotto dei pensieri tanto belli sulla vita cristiana, da rimanere solo pensieri, perché di fatto intraducibili nella realtà, e così ha oscurato lo splendore e il valore pratico del Vangelo per la nostra vita. Come se le parole di Gesù fossero un ideale talmente alto, da poterci solo compiacere di fare dei bei discorsi, sapendo che non potranno mai avere una presa reale sulla nostra vita.

Sicuramente, però, Gesù aveva in mente un insegnamento ben preciso. Al punto da chiamare a sé i suoi discepoli, dopo essere stato rapito dalla visione di quella donna. Come se dicesse: “Venite mo’ qui che vi faccio notare una cosa, e vi insegno perché è così importante!”. È un gesto educativo bellissimo! È il gesto tipico di un pedagogo, cioè di chi ti sa prendere e farti fare i passi giusti per crescere.

Ma allora, cosa voleva insegnare Gesù?

Innanzitutto dobbiamo considerare che è l’ultima “scena” della sua vita, prima della sua passione; come se Gesù stesso avesse percepito, vedendola, che quel gesto poteva essere una sintesi efficace di tutto il Vangelo, di tutto quello che aveva detto o aveva voluto dire fino a quel momento. E cioè, che la nostra vita è custodita dal Padre.

Qui si sintetizza la nostra fede.

Non è il problema di “quanto” uno dia. Il punto, dice Gesù, è che quei “ricchi” danno un po’ e col resto pensano di poter “decidere” della loro vita. Pensiero scellerato, che Gesù più volte rimprovera nel Vangelo. Al contrario, quella povera vedova, nel suo geto – di cui, ribadisco – non conta la quantità, afferma in maniera inequivocabile la sua fiducia che il Padre si prenderà cura di lei, che non le mancherà da mangiare, da bere, da avere ancora due spiccioli da gettare nel tesoro del tempio. E infatti, il senso della prima lettura è proprio questo: se ti fidi, non ti mancherà.

Se hai fiducia, la tua vita non sarà perduta.

Anche se non abbiamo niente, la nostra vita è custodita dal Padre.

Anche se abbiamo tantissimo, la nostra vita non dipende da noi.

Anche se ci sembra che tutto vada storto, la nostra vita è nelle mani del Padre.

Questa è la sintesi di tutto il vangelo, la cosa che occorre ricordare per vivere nella pace ed essere felici. E quando dovessimo dimenticarcela, Gesù ci prende vicino a sé, ci fa vedere dalla sua prospettiva e ci dice: “Ehi, guarda il gesto della povera vedova!”.

 Don Davide




Un solo maestro e tanti fratelli come guida

In questa Domenica la nostra Chiesa di Bologna celebra il patrono, San Petronio, e le letture della liturgia sono specifiche. Nella nostra parrocchia, la solennità di San Petronio segna anche l’inizio del catechismo, che è sicuramente l’attività pastorale che impiega più energie e coinvolge un maggior numero di persone: ragazzi, catechisti e famiglie.

Mi piace pensare che il Vangelo proclamato per la solennità di San Petronio sia come una bussola per il nostro impegno. Gesù dice di non chiamare nessuno maestro, perché uno solo è il nostro Maestro, e noi siamo tutti fratelli. Io vedo in questo un modello per la nostra pastorale. La pastorale di una parrocchia, infatti, non è fatta di persone che “insegnano” e di persone che “devono imparare”; di gente che sa e di contenuti da trasmettere; di un gruppo che comunica i contenuti della fede o i comportamenti cristiani e di un gruppo che li dovrebbe ricevere. Nella pastorale, siamo tutti alla scuola di un solo pastore: Gesù Cristo. E anche i catechisti e gli educatori, condividendo il cammino e la loro esperienza con i più piccoli o con chi viene guidato nella fede, in realtà sono in un percorso in cui imparano insieme agli altri dall’unico maestro.

Il metodo non è quello che ci sono alcuni “attori” e alcune persone “passive”, nemmeno i bimbi del catechismo! La regola suprema, per me, è il coinvolgimento! La fede viene condivisa e “insegnata” solo rendendo tutti attivi protagonisti della vita cristiana, anche i nostri fanciulli che sono ancora nel cammino dell’Iniziazione, attraverso la preparazione ai Sacramenti.

Coinvolgimento dei ragazzi nell’esperienza del catechismo e dei gruppi, coinvolgimento delle famiglie nel condividere l’impegno educativo della comunità cristiana, coinvolgimento dei catechisti ed educatori e di tutti gli altri responsabili delle attività della parrocchia nel sentirsi protagonisti insieme al parroco della vita della nostra comunità: questo per me significa, nel concreto, avere un solo maestro e sentirsi tutti fratelli.

Chiediamo al grande pastore della nostra Chiesa, San Petronio, di sostenerci in questo progetto e di aiutare la nostra comunità ad accompagnare i ragazzi che iniziano il catechismo, e a sentirci tutti coinvolti, insieme a loro, nel fare maturare la nostra fede.

Don Davide