Set 12

Generazione Selfie

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Una fotografia dei giovani a fine estate non può trascurare la canzone di Lorenzo Fragola e Arisa dal titolo Generazione Selfie, che ha imperversato in tutte le spiagge e in tutte le radio accese nei giorni del solleone. Perché i giovani scattano i selfie e, a dire la verità, anche i meno giovani, gli adulti e qualche anziano, secondo quel principio contemporaneo che tutti tendono a ciò che è giovanile.

Una coincidenza interessante accompagna queste considerazioni, almeno per chi si sta impegnando in questi giorni a programmare l’attività pastorale dei gruppi nelle proprie parrocchie. L’Azione cattolica italiana, infatti, ha proposto come immagine guida dei sussidi dei ragazzi proprio quella della fotografia, con lo slogan: “Pronti a scattare”. Metafora ricchissima, ci basti pensare che, quando Gesù raccontava le parabole, faceva la stessa operazione di un bravo fotografo: fissava una realtà che era davanti ai suoi occhi, osservandola sotto una particolare luce e con una specifica angolatura e messa a fuoco. Se avesse avuto in mano una Canon, o uno smartphone, avrebbe scattato una foto.

Il selfie è più bello

Sono stato testimone qualche giorno fa della passione per i selfie. Un gruppo di ragazzi ammucchiati decide di farsi una foto, più precisamente un selfie, con lo sfondo delle Dolomiti. Inquadratura impossibile, loro sono troppi, il telefono a distanza di braccio è troppo vicino e l’orizzonte invisibile. Dico: “Dai ragazzi, ve la faccio io la foto!”. Risposta: “Ma il selfie è più bello!”.

Il selfie è più bello?! Dal punto di vista tecnico non c’è una sola ragione che renda un selfie più bello di una foto scattata da un altro. Inoltre, l’elemento paradossale è che, a dispetto del titolo, che si è imposto come una sorta di consacrazione del selfie, la canzone di Arisa e Fragola esprime in maniera intelligente una notevole problematizzazione di quest’esperienza:

«Siamo l’esercito del selfie, di chi si abbronza con l’iPhone,
e non abbiamo più contatti,
soltanto like a un altro post…
Ma tu mi manchi, mi manchi, mi manchi,
mi manchi in carne ed ossa».

A dispetto di tutto ciò, il selfie è davvero in grado di raccontare una generazione o almeno qualche suo riflesso.[1] Che cosa dunque fa percepire il selfie più bello, a parte la moda?

La percezione

Quello che fa la differenza, prima di tutto, è la percezione. Nel selfie c’è la percezione di essere infinitamente più protagonisti di quello che sta accadendo, la convinzione di potere curare se stessi fino a creare un personaggio, la suggestione di mostrare di sentirsi vivi. A ben guardare, è più che altro questione di percezione, ma è appunto questa che fa la differenza. Lo ripeto: la generazione selfie ci insegna che la percezione fa la differenza.

Tutto ciò non è esente da problemi, ma almeno inizialmente dovremmo assumerlo con tutta la serietà del caso. A dispetto della tentazione retorica per cui la Chiesa non si curerebbe della percezione perché baderebbe alla sostanza, dobbiamo preoccuparci di non allontanare i giovani con la prima impressione che diamo. Ambienti brutti, incontri scialbi e quell’alone di non vero interesse per le loro cose: non si può scaricare la colpa su di loro, dicendo che sono superficiali e che non è giusto giudicare frettolosamente. Questo è vero, ma va insegnato di nuovo e non certamente come primo atto.

L’impatto iniziale, immediato, irrazionale, emotivo è il primo ponte gettato verso quel famoso nuovo annuncio di cui ancora stiamo abbozzando i primi passi. C’è un modo altezzoso o trasandato, formale o eccessivamente scialbo che caratterizza ancora un certo stile di Chiesa e degli ecclesiastici che va curato con più attenzione, senso dell’opportunità e bellezza. Non si tratta certo di legittimare la moderna ossessione per l’apparenza, ma di permettere che il processo dell’incontro, che va sempre dall’esteriorità all’interiorità, non trovi ostacoli prima di potere giungere alla meta.

Il primato del dirsi

L’altro elemento che fa la differenza è il primato del “dirsi” piuttosto che dell’essere detti. Il selfie è un modo di raccontarsi in cui l’azione soggettiva (e la successiva possibilità di essere riconosciuti, magari con un «like a un altro post») vale più di tutti gli altri elementi della comunicazione.[2] Pensiamo a Gesù che dilata il dialogo con il giovane ricco per farlo parlare e venire allo scoperto, oppure quando chiede: «Che cosa vuoi che io faccia per te?».

La nostra pastorale, invece, sottovaluta in molti aspetti – talvolta inconsapevolmente, talvolta colpevolmente – questo bisogno. Il famoso metodo esperienziale, che intercetti in modo non banale la loro domanda di vita, è ancora messo in discussione o solo balbettato. I documenti ufficiali, così come molti sussidi catechistici, dicono tantissime cose dei giovani, con il dubbio che li abbiano mai lasciati parlare veramente.

Infine, mentre i viceparroco sono una razza in via di estinzione e le risorse pastorali in favore dei giovani vengono razionalizzate (magari affidando al clero molteplici incarichi), si mantiene saldamente una struttura e un’organizzazione ecclesiale che impedisce in ogni modo ai preti di perdere tempo coi giovani, di ascoltarli e di accompagnarli a lungo.

La mia amara, personale esperienza è il rischio di risolvere le cose con qualche consiglio e poche istruzioni moraleggianti… e così continueranno con i selfie, in scenari ben diversi dai nostri. E qualcuno condannerà ancora la loro autoreferenzialità e lasceremo che Apple, Facebook o qualcos’altro intercettino i loro stili e i loro bisogni.

Il desiderio di avere in mano una reflex

Invece sarebbe bello potere reagire e riuscire a comunicare ai giovani che la foto vogliamo farla insieme, come vogliono loro, ma con una reflex, in modo che si vedano bene i volti, i sorrisi e la luce dei loro occhi, e anche le Dolomiti sullo sfondo, e poi farne un ingrandimento e tenerla tra le nostre cose più care.


[1] [Redazione], Selfie. La cultura dell’autoscatto che racconta una generazione, in Wired 20/11/2017.
[2] A questo proposito è impressionante digitare su Google: “generazione selfie” per vedere quanti articoli molto critici o addirittura catastrofici si trovano scritti dagli adulti, e poi scovare un intervento fresco, positivo e pieno di energia che riporta, guarda caso, la prospettiva dei ragazzi di Radio Immaginaria: vd. F. Taddia, Selfie di una generazione: “Vedrete, diventeremo adulti felici”, in La Stampa 25/08/2017.

Don Davide

 

Testo scritto per SettimanaNews il 12 settembre 2017

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