Penso a una pediatra in questo periodo, alle prese ogni giorno con le influenze e i mali stagionali, sempre con la responsabilità di stanare il Coronavirus.
Penso a quegli e a quelle insegnanti che fanno lo slalom tra classi in quarantena, recupero delle lezioni per i casi isolati e tentativi di riprendere le fila di un percorso; insieme, penso all’esercito di catechiste e catechisti che fanno un mestiere analogo, al servizio della fede.
Penso a una giovane mamma in carriera, che torna a casa e trascorre del tempo con i suoi figli piccoli, in attesa di quello che ha nella pancia; o a un giovane papà che fa lui l’inserimento della figlia all’asilo, per il quale – fortunatamente – le stereotipizzazioni di genere sono un retaggio che non lo riguarda.
Penso ai genitori che oltre alle responsabilità professionali, non si sottraggono alle preoccupazioni e alle cure che non diminuiscono, ma aumentano con il crescere dei loro figli.
Penso a due persone di orientamento omosessuale che la domenica vanno a messa nella loro parrocchia, incuranti di quello che si dice in giro che pensino alcuni, anche cristiani, anche all’interno della Chiesa, perché per loro conta più Gesù; e penso a una giovane universitaria che ha un incarico nazionale e nel fine settimana, invece di riposarsi, va a Roma a fare servizio gratuitamente.
Penso agli anziani e ai nonni, infaticabili promotori di una società dell’aiuto gratuito, e penso a chi fa volontariato nell’ambito della carità, che sembra avere sott’occhio sempre un’altra urgenza, un’altra emergenza e non essere mai soddisfatto.
Penso a un’equipe di adulti che seguono un gruppo giovani, amalgamando con pazienza da erborista le diversità e le complessità di quell’età; e penso ai preti che tengono insieme green pass e no pass, vax e no vax, sforzandosi di non cavalcare la tensione che divide e allo stesso tempo di allontanare i lupi che insidiano il gregge, conducendolo nel recinto sicuro dell’amore di Dio.
Sono solo alcuni, pochi esempi che ho avuto sotto gli occhi in una semplice settimana di vita, ma comprendono tutti e tutte voi che cercate di vivere bene e con sapienza, di dare valore al tempo, di corrispondere alla vostra dignità, mentre adempite a tutte le incombenze, e anche dopo averlo fatto.
Tutti e tutte coloro, cioè, che se devono fare un miglio con qualcuno, scelgono di farne due; che benedicono, invece di maledire; per i quali e per le quali i momenti difficili sono occasioni per fare meglio, e che hanno nel sangue l’attitudine allo sprint finale e a un bene aggiunto, anche quando sembra fin troppo generoso.
Hanno dato tutto?
Beh, appunto, spesso ci sorprendono. Magari non tutto tutto, ma moltissimo sì.
In ogni caso sono sulla buona strada e, comunque, non sono poi così certo che Dio chieda loro di più.
Sono più propenso a pensare che quando Gesù ha visto l’obolo della vedova e ha detto quelle parole indimenticabili: “Lei invece nella sua povertà ha dato tutto, tutto quanto aveva per vivere” (Mc 13,44) non pensasse a una totalità inesorabile, che apparirebbe quasi severa, ma proprio a quell’atteggiamento di chi la vita ce la mette sempre tutta, di chi anche all’ultimo sprint, della giornata, di un impegno o della stessa esistenza, decide di mettere ancora qualcosa nel tesoro del Regno.
Don Davide
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