Mag 23

Uno sguardo alla situazione del prete nella diocesi di Bologna

Di

Introduzione
Le riflessioni che propongo, non si fondano su un’analisi sociologica della situazione né hanno la pretesa di essere una sintesi teologica sul sacramento dell’ordine o sul ministero presbiterale.
Esse nascono piuttosto da uno sguardo sull’esperienza e sul vissuto dei preti della mia diocesi, e dalla lettura dei nodi che in sette anni di ministero (più uno di ministero diaconale) sono riuscito a individuare e a decifrare.
Non ho pertanto nessuna velleità che siano riflessioni esaurienti. Vorrei solo che potessero essere degli spunti per cogliere dei punti essenziali da affrontare. Esprimo necessariamente il mio punto di vista, sperando di non ridurre tutto a una visione esclusivamente soggettiva, ma di dare qualche contributo a leggere la nostra realtà.

Il presbiterio bolognese è una realtà molto complessa che non si può ridurre in alcun modo in pochi tratti o esemplificazioni. Nel complesso mi sembra di poter dire che il nostro presbiterio ha raccolto e assimilato molto bene la lezione del Concilio Vaticano II sul significato e sul ruolo del vescovo, per cui in questi quarantacinque anni dalla chiusura dell’assise conciliare il nostro presbiterio ha avuto un’alta considerazione dei suoi vescovi e si è strutturato come un presbiterio obbediente e dedito al ministero con serietà (fatte salve, naturalmente, le eccezioni).
Per non perdere la complessità reale e l’articolazione di cui accennavo prima, credo che sia utile (almeno a livello descrittivo e interpretativo) dividere il nostro presbiterio in tre grandi insiemi. Inizialmente tratteggio, in maniera sfumata e necessariamente parziale, queste tre grandi categorie. In un secondo momento vorrei dire come le caratteristiche di questi insiemi permettono di individuare gli elementi essenziali per descrivere la situazione del prete a Bologna e anche di descriverne i nodi problematici.

Uno sguardo diacronico al presbiterio
I preti cosiddetti anziani1, quelli cioè ordinati preti negli anni subito dopo il concilio2, o addirittura prima. Secondo l’ultima statistica consegnata al Consiglio Presbiterale Diocesano del 03/04/20103, questo insieme conta i preti tra i 66 e i 99 anni che sono ben 193 preti! Gente che ha potuto respirare negli anni esplosivi dell’inizio del ministero la novità del Concilio, ma che aveva le sue radici anche nell’impianto ecclesiale e ministeriale che aveva retto e che aveva rappresentato il modello di prete anche prima4. Uomini “d’altri tempi” nel senso migliore della parola, normalmente sono uomini solidi nella loro identità presbiterale, che hanno ben chiara la dignità del loro stato (consapevolezza che affonda le sue ragioni in un assetto della società totalmente diverso da quello di oggi) e che sono determinati e strutturati nelle cose essenziali del ministero sacerdotale: la celebrazione delle messe, la confessione (anche durante la messa), la catechesi dei fanciulli, la celebrazione dei sacramenti in genere e l’evangelizzazione nel senso stretto di “fare” o “avere” dei cristiani (che frequentino la parrocchia).

I preti di mezza età. Quelli che hanno iniziato la formazione teologica negli anni ‘70, in un periodo particolarmente vivace e fecondo, e che arrivano fino agli ordinati negli ultimi quindici/venti anni. Secondo il censimento citato prima sono i preti che hanno tra i 45 e i 65 anni e sono 114. Sono preti che a Bologna, hanno iniziato la loro vita ecclesiale senza il cardinale Lercaro, che era stato un protagonista diretto del Concilio e che nella possibilità di lettura e di interpretazione delle dinamiche della vita della chiesa ad intra sono forse stati avvantaggiati dal fatto che il loro vescovo (il card. Poma) è diventato presidente della CEI. Sono preti che hanno respirato in ogni fibra la proposta del Concilio e che hanno attraversato tanto i facili entusiasmi iniziali, quanto le pesanti disillusioni successive. Sono i preti che hanno iniziato la loro formazione in un contesto culturale completamente cambiato in seguito alla rivoluzione del ‘68 e che erano in prima linea o addirittura protagonisti della crisi del ‘77-‘78. Sono i preti che a Bologna, quindi, hanno vissuto i movimenti studenteschi, il periodo delle Brigate Rosse, la strage alla stazione, l’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II, come ministri di Dio e della Chiesa che non erano già strutturati di fronte a questi eventi, ma che in questi eventi hanno mischiato gli ingredienti della loro formazione, della loro interpretazione del ministero presbiterale e della loro personale spiritualità. Tanto per fare un esempio, come aneddoto, il mio parroco di origine mi raccontava dello sciopero dalla preghiera e dalla celebrazione della messa in seminario, un giorno del 1978… cosa che nel mio seminario di vent’anni dopo sarebbe stata semplicemente inimmaginabile, inconcepibile e sovversiva.

I preti cosiddetti giovani (che poi giovani non sono)5. Sono quelli che vanno tra i 26 e i 45 anni6 e sono 94. Sono quelli che conosco meglio e di cui colgo più sfumature, per cui mi è anche difficile descriverne i tratti senza sentire di esagerare con le semplificazioni. Complessivamente posso dire che sono i preti la cui formazione è stata caratterizzata da un cambio significativo e ha visto il progressivo ritorno di un certo rigore formativo e l’allungamento dei tempi della formazione stessa7. Questa situazione, a mio parere, è stata caratterizzata da un processo culturale che si respira nell’aria (consapevolmente o inconsapevolmente) e cioè l’idea che la chiesa stia perdendo terreno, che la sfida lanciata dal mondo alla chiesa sia in questi tempi più aspra che mai e che quindi bisogna pensare una formazione che “regga” all’impatto, all’onda d’urto. Questo punto mi sembra che descriva bene la situazione dei preti (più) giovani: essi sono stati formati in questo modello della “resistenza”, ma in realtà sulla loro pelle sperimentano che non è la strategia vincente, che reggere può significare semplicemente sopravvivere e non ancora vivere e interpretare il proprio ministero. Quando sono entrato nel seminario io, nel 1995 il percorso veniva allungato con un anno di propedeutica prima dell’inizio della teologia e si profilava la possibilità di strutturare di più l’anno di diaconato transeunte in seminario. Ad oggi, gli anni di propedeutica sono due, e l’anno di diaconato si passa per la maggior parte in seminario. In tutto otto anni di formazione, prevalentemente in seminario, in una comunità, per di più, che si è ridotta enormemente nei suoi numeri (ai miei tempi erano 80/90 i seminaristi della teologia, oggi 20/30).
Del resto queste sono le indicazioni per la formazione nei seminari e non vuole nemmeno essere un giudizio di merito sul lavoro dei formatori o sull’opportunità della lettura di certe situazioni. Mi sembrava doveroso però segnalare come punto saliente (e che aiuta a decifrare la situazione dei preti giovani) questo latente paradosso: di una formazione abilitata al reggere che si trova ad affrontare situazioni in cui per reggere ci vorrebbe ben altro.
In questo gruppo ovviamente si annoverano i giovani rampanti, i protagonisti del rapporto con la gioventù e della formazione dei ragazzi e dei giovani, quelli che hanno appena iniziato il ministero o che ne hanno appena iniziato uno importante, come ad esempio fare il parroco. Sono (dovrei dire “siamo”) uomini molto più sensibili (e forse fragili) rispetto alla dimensione affettiva del celibato e quindi molto più esposti alle difficoltà portate da questa situazione e dai nostri contesti. In tutto e per tutto siamo figli del nostro tempo, anche se forse vorremmo non esserlo, e mascherare tutta la complessità e le debolezze che ci portiamo dentro, dietro alla bella struttura di un prete che, in quanto tale, si vorrebbe un uomo quasi perfetto… Una caratteristica saliente di questo gruppo mi sembra anche la dimensione culturale: mentre è aumentato complessivamente il livello della formazione culturale (nel senso che tutti i preti hanno dovuto ottenere il titolo di baccellierato e molti hanno potuto anche usufruire degli approfondimenti della licenza), è radicalmente diminuito il numero di coloro che sono invitati a concludere gli studi per l’insegnamento: in questo gruppo i preti che attualmente hanno conseguito il titolo di dottorato sono solo quattro (che su novantaquattro è ben poco!).

Da questi brevi tratti, credo che sia possibile trarre quattro spunti di riflessione, che si collocano all’intersezione tra la riflessione sull’identità e quella sul ministero dei presbiteri8.

Il diverso rapporto con le sfide della pastorale
Un primo elemento di difficoltà è dato dal fatto che questa configurazione del presbiterio genera al suo interno un modo molto diverso di affrontare i grandi temi e le sfide della pastorale. I preti più anziani, tendenzialmente vengono ancora da una realtà dove la pastorale aveva una sua chiarezza di obiettivi e di fisionomia e, pur nel grandissimo lavoro per aggiornarsi rispetto alle esigenze dell’oggi, si osserva che il loro impianto rimane sostanzialmente modellato su questa grande impostazione che definiremmo tradizionale. I preti della seconda fascia, si sono formati e mossi in una situazione molto più duttile, vivace, in fermento e sono stati accompagnati in questi passaggi dalla grande spinta propulsiva del Concilio Vaticano II. Quindi, anche se alcuni modelli della pastorale erano cambiati, essi sono stati accompagnati, sostanzialmente, dalla consapevolezza di stare in un fiume dalla corrente forte, dove – nonostante qualche possibile personalismo – le grandi direttrici erano ben chiare a tutti: rinnovamento della catechesi, conoscenza e approfondimento della Bibbia, valorizzazione della liturgia, passione per l’ecumenismo e la missione, partecipazione dei fedeli laici, associazionismo. In questi anni, a Bologna, il numero dei preti garantiva ancora una struttura del tipo un parroco/una parrocchia, con le parrocchie più grandi e numerose che potevano con sicurezza contare sulla presenza di un altro prete tutto dedicato alla pastorale. Quest’impianto permetteva ancora, nel grande cambiamento in atto, di decifrare abbastanza bene l’identità, il ruolo e il ministero del prete.
Tutte queste caratteristiche sono cambiate, lentamente, ma ad oggi inesorabilmente, per i preti dell’ultima generazione. Dai preti del secondo gruppo che ho descritto, si può facilmente sentire parlare del gioioso ricordo di qualche “maestro” che ha tracciato la via del post-concilio aiutando le nuove generazioni di preti a formarsi; l’impressione è che invece i preti dell’ultima generazione siano proprio una generazione senza maestri. Qualcosa di analogo a quello che tutti i sociologi amano descrivere come una generazione senza padri. Il fatto è che in questo caso non mi sembra colpa di coloro che dovevano essere maestri per la nostra generazione, affatto. Personalmente guardo ad alcuni preti di questo virtuale secondo gruppo come ad autentici padri e maestri, uomini da cui sento di essere stato generato. Il vero nodo, però, a mio modo di vedere va individuato in un cambiamento strutturale radicale e repentino molto più profondo rispetto al quale la chiesa italiana, e le diocesi in essa, arrancano. Il frutto maturo della società post-moderna9; la scristianizzazione che non è più un processo in atto, ma un fenomeno ormai compiuto10; i compromessi politici per la visibilità cattolica nella società; il cambiamento nella percezione del senso11; l’accelerazione tecnologica12 e una percezione radicalmente diversa delle dimensioni dell’affettività hanno messo la nuova generazione di preti in balia di infinite possibilità, come un vortice di correnti, senza orientamento. Anche coloro chiamati ad essere maestri sono disorientati. Questa situazione nella pastorale si traduce nel fatto che ognuno persegue gli obiettivi che riesce a individuare e a governare (ad esempio la formazione di un gruppo, una buona gestione della vita parrocchiale, la celebrazione delle messe) generalmente senza un vero discernimento su quali siano le grandi sfide13 da accogliere per il futuro e le necessarie scelte da fare14, oppure in una grande e rassicurante semplificazione: la liturgia in latino, l’autoritarismo, gli slogan “pochi ma buoni”… Tutto questo in generale si fa perché non si sa dove andare. Più radicalmente, direi, per sopravvivere nel ministero. Ho sentito spesso preti più anziani meravigliarsi della sostanziale paralisi dei preti più giovani, i quali hanno sì mille potenziali e progetti, ma difficilmente sono unificati in un progetto pastorale da seguire come presbiterio o, più ancora, come chiesa locale.
Naturalmente in questo quadro molto complesso non mancano elementi di grande qualità e qualificazione del ministero. Coloro che raggiungono il ministero sono in genere, almeno nelle loro motivazioni iniziali, mossi da grande autenticità; molti dei preti più giovani sanno investire migliaia di energie nel servizio pastorale e sono contenti di farlo; hanno risorse moderne, capacità di intercettare i linguaggi delle giovani generazioni e non di rado anche di comprendere quali sfide si profilano all’orizzonte; sono culturalmente abbastanza formati e hanno una vita spirituale autentica, in genere capiscono i problemi dei loro coetanei o anche degli adulti con grande empatia… ma non sanno (o forse dovrei dire non sappiamo) dove andare e fanno fatica nel confronto con coloro che li hanno preceduti, che ancorati ad altri assetti, di fronte alle nuove situazioni sono più disorientati di loro.

Il personalismo dei preti
La seconda caratteristica saliente dell’attuale situazione del prete nella chiesa di Bologna è ciò che chiamerei il personalismo dei preti. In questa situazione di disorientamento, emergono molto le qualità specifiche, le caratteristiche e le attenzioni predominanti di ciascun prete. Chi ama la carità vi ci si dedicherà con ancor maggiore entusiasmo, chi ama l’associazionismo vi ci si rifugerà, chi è carismatico creerà attorno a se un piccolo o grande gruppo di seguaci e amici, chi ama le tradizioni si dedicherà ad esse, chi ha tendenze monastiche imposterà la parrocchia come un piccolo monastero. Un amico prete, scherzando, una volta definiva la pastorale così: “La smodata applicazione delle proprie passioni”. Non serve dire che ogni unilateralizzazione perde dimensioni importanti della vita della chiesa e soprattutto ampie fette del gregge, quando non si riconoscano in un modello unico.
Non credo che si tratti solo di manie di protagonismo narcisista, intendo piuttosto che pian piano, ho l’impressione che si diffonda il pensiero che “ciascuno fa la sua gara”. Non è forse da questo che potrebbero dipendere i molti no che in diocesi, negli ultimi tempi, vengono detti ai superiori, rispetto agli incarichi proposti? Anche in questo caso, quindi non mi sembra tanto un problema di virtù non esercitata, quanto piuttosto un meccanismo di difesa. Questo fatto ha due effetti molto gravi.
Il primo è che, anche in seguito a trasferimenti di parrocchia poco accorti (e condivisi), non di rado si ha la sensazione che sia molto difficile custodire una certa continuità nelle comunità parrocchiali tra l’operato di un parroco e quello del parroco successivo. Il personalismo, in questo caso, gioca nella direzione di una marcata caratterizzazione della comunità ad immagine del parroco.
Il secondo, ancora più grave, è che – soprattutto da parte dei fedeli laici, e questo è un rischio di cui dovrebbero stare tutti molto accorti – si valorizzano sempre di più e in maniera eccessiva, le qualità personali a scapito del servizio ministeriale. Mi spiego: nel sentire comune, sempre di più i preti sono “bravi” se sono “giovani”, semplicemente perché magari hanno un po’ più di dinamismo, un po’ di energie fresche da spendere, ma non è affatto detto che un prete, per il solo fatto che sia giovane, sia più bravo di uno anziano. Ci sarebbe da chiedersi: su cosa si valuta la “bravura” di un prete? E sono sicuro che sarebbe molto difficile arrivare a delle risposte convergenti. Così, da un prete ci si aspetta, in genere, che sia bravo nelle relazioni, capace di fare da manager nella parrocchia, che sia un ottimo amministratore, innovativo nella pastorale, possibilmente tecnologico, che ci sappia fare con i ragazzi, che predichi bene, che faccia divertire a un campo, che sappia fare un ritiro originale e magari che abbia ancora un po’ di tempo per visitare i malati, per aggiornarsi su tutti i fronti, e anche per studiare un po’15. Succede allora che ci sia qualche prete dalle qualità straordinarie che fa tutto e riesce anche a trovare il tempo per giocare coi ragazzi nella polisportiva della parrocchia, e allora è considerato “un bravo prete”, e tutta quella schiera di uomini onesti, che hanno risposto con umiltà a una vocazione, e hanno consegnato la loro vita nelle mani di altri per questo, sono sempre lì a rimediare alla loro normalità meditando sulle parole di san Paolo circa la potenza di Dio, nella debolezza degli uomini! (cf. 2Cor 12,9ss.). Se un prete non è nato con una vocazione da animatore e si trova in una parrocchia con un grande oratorio diventa facilmente il prete “ingessato”, se invece uno non predica come san Giovanni Crisostomo tutte le sante domeniche, ecco il giudizio inappellabile: “è inascoltabile!”. Ebbene, al di là delle caricature, credo che dove non c’è reale condivisione di vita e di ministero, la situazione non possa che essere questa: una valorizzazione smodata della qualità personali, che carica tanto di attese i preti cosiddetti in gamba, quanto schiaccia sotto il pensiero di sentirsi sempre giudicati inadeguati – amati magari come si vuole bene ad un nonno in difficoltà – tutti gli altri16.

La questione della solitudine
«Il prete non è solo in quanto vive in comunione con la sua comunità. Il prete non è solo in quanto è accudito dalla sua famiglia. Il prete non è solo in quanto c’è sempre qualcuno, la figura della perpetua o tutte le forme che ci assomigliano, che si prende cura di lui e della sua casa».

Ho sentito personalmente e più volte il Card. Biffi ripetere a vari incontri di preti: “Finché ci sono io ci sarà il modello un prete per una parrocchia, perché ogni comunità ha bisogno del suo pastore”.

Finché non si vorrà prendere in seria considerazione la possibilità di una vita comune dei preti, oppure delle forme alternative al modello parroco/parrocchia, le affermazioni tradizionali citate sopra potranno essere l’unica risposta effettiva al problema della solitudine dei preti. Ma sono risposte che, mentre hanno trovato forme valide ed efficacissime un tempo, ora lasciano scoperti non pochi problemi. Il prete che sente la sua comunità non solo come una responsabilità, ma anche come un conforto è una prospettiva che rimane certamente valida, ma che deve essere considerata insieme al fatto che questa soluzione si configurava come ottimale quando un prete aveva la sua comunità e quello era il suo ministero. La presenza di tanti altri preti, la configurazione della vita della chiesa non gli chiedeva nient’altro che di dedicarsi con tutto se stesso alla sua comunità e di trovarvi in essa le pene così come le consolazioni. Ma cosa dire oggi, che un prete si trova ad avere una mole di lavoro che lo sovrasta e lo spinge pericolosamente a vivere il suo ministero in maniera funzionale? Cosa dire di fronte al fatto molti preti hanno ben più di un incarico e che sono occupati su molteplici fronti della vita della chiesa?
La situazione della famiglia poi è notevolmente cambiata. Non sono sempre tante le famiglie che si possono dedicare alla cura dei figli preti e talvolta, anzi spesso, è la cura dei genitori ad essere a carico dei figli preti. È ancora accettabile e valido il modello della famiglia di un prete che si prende cura del prete?
Infine che dire della reale possibilità di avere un aiuto in casa. Nella maggioranza dei casi ci sono disponibilità davvero eroiche, ma che si circoscrivono ad alcuni servizi circa la cura della casa, dei vestiti e la preparazione del cibo. È un lavoro benedetto, per cui Dio solo sa quale sarà la ricompensa, ma che non può certo risolvere la questione della solitudine del prete e tutte le sue implicazioni.
I cappellani diminuiscono e così sono sempre di più i preti anziani che, dopo una vita passata ad avere accanto un prete più giovane, si trovano a vivere improvvisamente da soli. I pochi preti giovani destinati ad essere cappellani ancora rimasti, si trovano spesso accanto a preti molto anziani, di cui sono tenuti in qualche modo e doverosamente anche ad avere cura, ma che quindi non possono certamente trovare risposta alle loro questioni sulla solitudine.
Si tende oggi a proporre sempre di più momenti di incontro, pranzi assieme e piccole condivisioni spirituali. Ma queste cose, che sarebbero una manna dal cielo in un conteso dove fossero integrate insieme ad altre attenzioni, nell’attuale contesto corrono un duplice rischio: in primis rischiano di essere sentite come un ulteriore impegno in mezzo al già intasato tram – tram della vita quotidiana, inoltre hanno molto spesso il sapore di un semplice palliativo.
Il vero nodo sembra piuttosto essere quello di prendere sul serio la questione dell’ordine degli affetti del prete e di non risolvere la gravità di queste questioni con due semplificazioni: la prima è quella di non pensare che un prete, per il semplice fatto che sia prete e celibe, possa vivere senza affetti reali, senza soddisfazione anche della parte del naturale desiderio umano di condivisione, di intimità e di cura. La seconda è che questo processo non va spiritualizzato. L’alternativa non è fra il celibato e la mistica. Se si vuole vivere il celibato, bisogna anche creare le condizioni adeguate perché il celibato possa essere portato e vissuto con coerenza. Non sono pochi i preti di Bologna che hanno dovuto affrontare sulla propria pelle una ricerca più intensa e sofferta delle possibilità e delle condizioni per vivere il celibato.

Le situazioni abitative
L’ultimo nodo che vorrei segnalare rispetto alla situazione del presbiterio bolognese è quello delle situazioni abitative, che presentano alcuni problemi.
Il primo problema è quello della manutenzione delle canoniche. Le parrocchie infatti non sono aziende con introiti fissi e le offerte dei fedeli più il ricavato che si riesce ad avere dalle iniziative della buona volontà di qualcuno spesso non basta ad affrontare le grandi spese di un restauro o della manutenzione straordinaria degli edifici. La conseguenza è che ci sono alcune situazioni abitative molto problematiche alle quali un parroco, da solo, non riesce a far fronte economicamente. D’altro canto, questa situazione, dovrebbe indurre i preti a fare molto più discernimento e ad essere molto più attenti alle spese per le strutture o per le attività parrocchiali, tenendo presente che i soldi, in genere, bastano a mala pena per le cose più che essenziali.
Il secondo problema è dato dalla gestione degli spazi di vita del prete. Soprattutto per i preti più anziani, abituati a un modello che non richiedeva di occuparsi della casa o della cucina, il fatto che vengano a mancare alcuni aiuti o i punti di riferimento di una vita, può provocare uno scompenso molto difficoltoso da gestire. Nei casi in cui c’è il cappellano, si chiede in genere al cappellano di avere un occhio di riguardo per queste situazioni, ma non è affatto semplice, perché i rapporti non sono realmente famigliari e soprattutto ci si scontra con il problema della abitudini e di un divario generazionale talvolta enorme.
Il punto però che mi sembra critico è che manca completamente la riflessione sul concetto di casa e sul rapporto tra la casa e il ministro ordinato, tra la casa e il ministero. “Mettere su casa” è un’espressione che nella vita comune indica un passaggio fondamentale e descrive lo snodo in cui una vita, in genere adulta, diventa autonoma e responsabile in tutto e per tutto. Spesso indica anche il passaggio del matrimonio o dell’inizio di una convivenza. Talvolta ci si compiace di usare quest’espressione anche nel linguaggio ecclesiastico, per indicare ad esempio un prete che diventa parroco, ma è solo fumo negli occhi. Mentre il concetto di casa indica qualcosa di abbastanza ben definito nei passaggi della vita di una persona, non c’è sicuramente una riflessione altrettanto matura su cosa significhi la casa nella vita di un ministro ordinato e per il suo ministero. Si potrebbero aprire tantissime questioni e fare molteplici esempi, ma è sufficiente segnalare il punto della questione. Nella stragrande maggioranza dei casi, la casa dei preti non è una vera casa, bensì uno spazio dove si mangia (non sempre sufficientemente separato o custodito dagli spazi degli uffici parrocchiali) e dove si dorme, niente di più. Non c’è un posto per riposarsi, non c’è un posto per accogliere e tanto meno per distendersi. Si sta parlando di posti reali, una piccola sala, uno spazio dedicato, non tanto di posti adattati a mille funzioni, tra le quali anche questa. Il nodo della questione, mi sembra, è che non è definito per niente il confine e il rapporto tra vita privata e vita ministeriale, tra spazio privato e spazio del ministero. Il problema è tanto più sentito per i preti giovani. In un’età in cui tutti i loro coetanei diventano autonomi e il segno dell’autonomia è di avere una casa, anche a costo di mutui ventennali o trentennali, i preti giovani si trovano a entrare in una vita stracolma di responsabilità senza avere lo spazio di una casa “reale”. Si sente sempre dire: “sentiti a casa tua” oppure che il cappellano deve sentire realmente la casa della sua parrocchia come “casa sua”, ma non è vero, sono semplicemente soluzioni fittizie. Un giovane di trent’anni che va in una casa dove c’è un uomo di settanta che sta lì da trenta si sentirà sempre ospite (e anche giustamente), si sentirà sempre in dovere di custodire e di salvaguardare spazi che sono di un altro. A mio modo di vedere il problema della casa, quindi, è il problema di un reale passaggio alla vita adulta di coloro che con l’ordinazione vengono incaricati di responsabilità ben più grandi, ed è il problema del nodo totalmente irrisolto del rapporto tra vita privata e ministero, tra l’essere considerati dei consacrati e il vivere a tutti gli effetti come dei funzionari.

Conclusione
In queste pagine ho portato di fatto una testimonianza, molto personale, di certi aspetti particolarmente delicati della situazione dei preti nella mia diocesi. Ho privilegiato lo sguardo su alcuni nodi non per un gusto critico che facilmente viene biasimato in ambienti ecclesiali, e nemmeno per l’incapacità di vedere il bello che c’è nella vita e nel ministero del prete nella nostra chiesa di Bologna; ma con la semplice intenzione di offrire qualche stimolo per la riflessione rispetto a questioni che, so con certezza, fanno soffrire alcuni dei miei confratelli e che penso potrebbero aiutare la chiesa di Bologna ad avere un fascino più umano e più evangelico. Ho proposto ben poche soluzioni. Non era il mio intento e con ogni probabilità sarebbe stato un lavoro che avrebbe sovrastato i limiti di questa riflessione. Spero solo di avere potuto offrire una fotografia, talvolta abbastanza sfuocata e imprecisa nel gioco di luci e ombre, certamente ritoccata dalla mia sensibilità personale, ma almeno utile per capire la fisionomia del presbiterio nella chiesa di Bologna di questi tempi.

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