Nella liturgia della 33° domenica del Tempo Ordinario, anno B, sia il profeta Daniele che Gesù nel Vangelo fanno uso un genere letterario molto specifico, quello dell’Apocalittica, che a noi risulta oscuro e minaccioso, ma ancora al tempo di Gesù doveva essere facilmente codificabile.
Tale genere letterario veniva usato per parlare di un evento nella storia, che ponga fine alla continuità della storia, in modo tale che attraverso questa cesura netta, la storia successiva risulti diversa da quella precedente, e soprattutto portata su un altro piano. Dio è il protagonista assoluto di questo intervento risolutivo, al punto che il primo dato dell’apocalittica è che il destino del cosmo, nonostante tutte le apparenze, non sfuggirà dalle mani di Dio.
Non dobbiamo pensare che qualcosa, nel corso degli eventi, possa rovinare definitivamente i piani di Dio, quasi da “rompergli le uova nel paniere”, sì da costringerlo ad intervenire per rimediare. La cosiddetta “fine” del mondo sarà invece un atto della volontà d’amore del Padre: la venuta del Signore che tirerà tutti i fili della storia e li porterà a compimento. Nell’immagine del vangelo, infatti, il Figlio dell’Uomo viene proprio nel momento in cui tutto sembra compromesso, con i segni della sua autorità e della sua presenza («grande potenza e gloria»), ed è lui che raduna tutti, raccogliendo il cosmo nel suo abbraccio.
Non possiamo non pensare ai terribili fatti di Parigi della sera di sabato 14/11, insieme a tutte le tante, troppe, atrocità che si consumano nel mondo. La sensazione che ci rimane è di sgomento e, certamente, anche di paura, eppure i cristiani devono imparare a leggere gli eventi con questa capacità di interpretazione della storia. Nelle letture, il contrasto tra queste due situazioni è impressionante: mentre si descrive «un tempo di angoscia, come non c’era mai stato» (Dn 12,1), la profezia di Daniele dice che proprio allora il popolo sarà salvato; quando evoca uno sconvolgimento cosmico, Gesù afferma che sarà quello il momento in cui il Figlio dell’Uomo interverrà nella storia a segnare un prima e un dopo. Paradossalmente, Gesù parla di un risveglio in questa situazione, come quando il ramo tenero del fico preannuncia la primavera (cf. Mc 13,28-29). Dobbiamo riconoscere questo risveglio, questo invito per le coscienze a rinnovarsi proprio nel mezzo dei tumulti che, altrimenti, ci paralizzerebbero.
L’evento che decifra il tempo da riconoscere è la resurrezione – «non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga» (Mc 13,30) – nel senso che tutte le volte che si configurano questi “sconvolgimenti”, il cristiano è chiamato a iniettare la potenza di vita della Pasqua nella storia; questa energia vitale discrimina il prima e il dopo, fa finire il mondo vecchio, abitato dalla violenza, dalla sopraffazione e dalla negazione della convivialità, e fa iniziare la Nuova Creazione di Dio. Sono solo le sue parole, quelle che invitano all’amore del prossimo e dei nemici, che non passeranno. Tutto il resto sì.
Chi riconosce questi segni come invito a una stagione nuova, sarà considerato saggio. Bisogna avvedersi definitivamente che invocare alla riduzione dell’altro, o addirittura il suo annientamento, è la matrice di tutta la violenza che vorrebbe soffocare il mondo; bisogna rifiutare una lettura geopolitica appiattita e semplicista, che non colga, almeno, come il Medio Oriente sia l’ultima identità antagonista che resista alla globalizzazione. Bisogna bandire ogni superficialità, ogni semplificazione e ogni generalizzazione. Chi vuole abitare la storia, non può sottrarsi a questo compito.
Dall’altro canto, ci vuole un impegno e una responsabilità quanto mai necessaria nell’educazione, nella formazione alla convivialità delle e nelle differenze. I terroristi si fanno saltare in aria e uccidono; i violenti, i gretti e gli opportunisti non hanno né realismo né profezia, mentre «coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (Mc 13,3).
Per interpretare la storia e rispondere ai fatti di Parigi e di tutte le altre violenze del mondo, abbiamo bisogno di simili profeti, che sappiano educare molti “altri” alla giustizia e la cui luce possa essere come stelle quando più buia è la notte.
Don Davide
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