Ott 11

Il cuore incandescente di Dio

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La scena del vangelo di oggi è di quelle che ci invitano a vedere oltre: Gesù accoglie immediatamente la supplica di dieci lebbrosi e li esorta a presentarsi dal sacerdote, come prescrivevano la Legge e le usanze sociali. Essendo la lebbra una malattia che aveva influenza nel campo della purità cultuale, infatti, solo il sacerdote poteva attestare i casi di guarigione e riammettere la persona guarita nella società (altrimenti i lebbrosi dovevano stare in disparte) e al culto (da cui i lebbrosi erano esclusi).

Invitando ad andare dal sacerdote, quindi, Gesù chiede agli ammalati di fare un duplice atto di fede: il primo, nella sua parola che ha il potere di guarirli; il secondo, nel fatto che anche se non c’è stato ancora alcun segno, mentre andranno dal sacerdote, la guarigione avverrà. Potrebbero essere ingannati, potrebbero pensare che è una scusa di Gesù per toglierseli dai piedi, invece devono fidarsi. Prontamente, mentre sono in cammino, vengono guariti.

A quel punto, solo uno abbandona la preoccupazione di farsi dichiarare guarito, per tornare indietro a ringraziare Gesù. Non è che i nove restanti abbiano fatto una cosa brutta: hanno messo in pratica l’indicazione di Gesù; la certificazione del sacerdote era indispensabile e dobbiamo pensare a quale dovesse essere il loro entusiasmo, di vedersi guariti e potere finalmente tornare alla vita normale.

Perché Gesù allora sembra così severo?

Le sue parole ci invitano a scrutare ciò che è più prezioso della vita stessa, in quanto ne è la vera sorgente, ciò che ci rende uomini e donne “spirituali” e non solo uomini e donne “animali”: ossia la capacità di riconoscere che la vita è un regalo e possiamo esserne grati. Nel momento in cui percepiamo che qualcosa ci è stato donato, sentiamo vividamente cos’è l’amore. È un amore che guarisce, che sana, che rigenera, ancora prima della salute, del benessere e delle nostre relazioni sociali. Forse possiamo capire meglio di cosa si tratti con un esempio.

Possiamo considerare tutti quei casi in cui la vita “esteriore” sembra sfortunata: problemi di lavoro, relazioni faticose, fallimenti… Siamo tutti talmente presi dall’ansia dell’autorealizzazione (che sembra diventata la nuova parola d’ordine del nostro mondo) da pensare che una vita non “realizzata” secondo i nostri canoni valga di meno. No! Siamo noi uomini che facciamo questa deduzione. Se invece fossimo capaci tenere fermo che l’amore di Gesù non viene meno, e con esso la nostra dignità di figli di Dio, probabilmente genereremmo meno sofferenze, e noi stessi vivremmo più fiduciosamente e sereni.

Mi capita spesso, quando vado a benedire, che le persone mi dicano: “Speriamo che il Signore mi dia un po’ di salute, perché quando c’è la salute c’è tutto!”. Capisco il discorso, ma nell’intimo mi ribello. Perché non è vero: ci sono persone straordinarie, che non godono affatto di buona salute (e neanche di una salute mediocre, a dirla tutta) e persone meschine come poche che sono in perfetta forma fisica. San Paolo scrive una frase folgorante nella Seconda lettera ai Corinzi: «Siamo afflitti, ma sempre lieti; poveri, facciamo ricchi molti; gente senza nulla e invece possediamo tutto, il Signore del cielo e della terra» (2Cor 6,10). Questo è esattamente il senso del Vangelo di oggi: c’è qualcosa di più profondo che caratterizza la nostra esistenza, ed è la consapevolezza dell’amore creativo e rigenerativo di Dio Padre, che si manifesta in Gesù.

C’è da aspettarsi che l’unico che vivrà davvero bene la sua condizione di uomo guarito e rigenerato sia colui che è tornato da Gesù, mentre quegli altri saranno “solo” in salute, senza avere afferrato il segreto della vita.

Oggi la nostra comunità affida il “Mandato” a tutti i catechisti, gli educatori e i responsabili delle attività pastorali della parrocchia. Non c’è altro augurio che possiamo fare di questo: che siano guide capaci di fare vedere oltre, di posare lo sguardo nel cuore incandescente di Dio, dove arde il dono della vita e splende l’amore concreto di Gesù per noi.

Don Davide

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